Il governo ha emanato il decreto legge n. 119/2018, “Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria” (convertito poi in legge n. 136/2018). Si tratta di un testo collegato alla Legge di Bilancio che ha introdotto importanti novità per rispettare i vincoli europei di riduzione del debito pubblico e di miglioramento dell’equilibrio di bilancio. L’Europa non ammette un deficit eccessivo. Pertanto il governo ha deciso di introdurre delle alternative alla risoluzione delle liti pendenti instaurate a seguito dell’impugnazione degli avvisi di accertamento fiscale notificati, per accelerare il recupero dei crediti dei contribuenti.
Al contribuente che ha presentato ricorso viene offerta la possibilità di accedere alla definizione anticipata della controversia tributaria con il pagamento dell’importo ridotto come di seguito specificato:
- 40% se si vince in primo grado;
- 15% in caso di vittoria in secondo grado;
- 5% per chi è in attesa di giudizio finale della Cassazione, dopo aver già vinto in provinciale e regionale;
- 90% al netto di sanzioni ed interessi per chi ha già presentato ricorso, ma vuole chiudere la lite.
L’importo potrà essere pagato in 5 anni con un massimo di 20 rate trimestrali e la domanda dovrà pervenire entro il 16/5/2019.
Il vantaggio vero e proprio è dato dall’esclusione delle sanzioni e degli interessi, in modo tale che i contribuenti siano tenuti a pagare esclusivamente una percentuale della quota capitale.
L’avviso di accertamento rappresenta uno strumento di esternazione dell’atto sostanziale di accertamento, che consente al procedimento amministrativo di pervenire a giuridica esistenza, in forma di atto amministrativo. Sulla base del diverso imponibile accertato dall’A.d.E., l’INPS potrebbe aver agito per riscuotere l’importo dei contributi previdenziali dovuti e il contribuente potrebbe aver impugnato l’avviso di addebito relativo.
In caso di duplicazione dei giudizi pendenti, presso la Commissione tributaria e il Giudice competente in materia di diritto del lavoro, quest’ultimo procedimento viene sospeso perché la decisione relativa ai tributi rappresenta questione pregiudiziale.
Come si introduce la novità normativa in questo contesto?
Quando il contribuente sceglie di definire le liti ancora pendenti con il pagamento di una somma forfettaria e nei precedenti gradi di giudizio l’accertamento A.d.E. è stato annullato, pur in mancanza di una pronuncia definitiva che abbia valore di giudicato, quali potranno essere le conseguenze per il procedimento sospeso?
L’avviso di addebito INPS di solito richiama l’accertamento realizzato dall’Agenzia delle Entrate e così, in caso di annullamento di quest’ultimo, anche il primo verrà meno e l’INPS non potrà proseguire il giudizio confronti del contribuente senza fornire prova autonoma delle pretese contributive avanzate.
In tal caso si potrebbe parlare di nullità dell’accertamento con estinzione del procedimento sia tributario che civile?
Per cercare una risposta è necessario analizzare quantomeno le soluzioni pratiche emerse rispetto alle precedenti definizioni delle liti pendenti (art. 39, comma 12, d.l. n. 98/2011 e art. 11 d.l. 50/2017). La nuova normativa nulla espressamente dice in proposito.
I giudici di merito hanno assunto posizioni parzialmente contrarie alla posizione assunta dall’INPS che ha sostenuto con fermezza che “in relazione agli accordi di chiusura agevolata delle liti fiscali pendenti, gli stessi non avranno efficacia sulle azioni di recupero promosse dall’Istituto il quale procederà alla riscossione degli importi da versare a titolo di contributi calcolati sull’intero ammontare originariamente accertato” (Circolare n. 140/2016). Tra le tante pronunce contrarie, la sentenza del Tribunale di Ancona 30 ottobre 2013 n. 559 ha affermato che “Per il Giudice la definizione della lite fiscale costituisce un accordo che interviene unicamente sull’entità dell’imposta, senza alcun riconoscimento esplicito da parte del contribuente circa la sussistenza di un maggiore imponibile e ferma restando l’esclusione di qualsiasi valore confessorio dell’adesione al condono fiscale. In altri termini l’adesione all’istituto non comporta in alcun modo acquiescenza all’atto di accertamento, nè può incidere sui contributi previdenziali”. Di conseguenza, la definizione della lite pendente non consente all’INPS di calcolare i contributi dovuti sulla base dei valori reddituali espressi nell’atto impositivo impugnato e oggetto della lite poi definita (Tribunale di Roma, Sez. Lavoro, 27 novembre 2014, n. 11365). Più di recente, una pronuncia della Corte di Appello di Milano, Sez. Lavoro, 12 settembre 2017, n. 1571, ha confermato che “L’accertamento originariamente trasmesso all’INPS non è stato rimosso, ma neppure ne è stata accertata la fondatezza nel merito. L’onere della prova ricade sull’INPS: l’accertamento può essere considerato atto ricognitivo che può servire da elemento di prova in altri processi nei quali rilevi la consistenza del reddito dell’interessato (Cass., Sez. Unite, 18 dicembre 2009 n. 26635)”, infatti la pronuncia di cessazione della materia del contendere nel procedimento in Commissione tributaria non determina giudicato.
Non viene pertanto risolta definitivamente la questione relativa all’onere probatorio che dovrebbe ricadere sull’Istituto, per la sussistenza di una pretesa contributiva a fronte di un accertamento ispettivo compiuto da altro Ente.
Altre pronunce di merito hanno stabilito che la definizione della lite fiscale con la procedura agevolata prevista dall’art. 39, comma 12, d.l. n. 98/2011 produce automaticamente effetti estintivi anche del correlativo debito previdenziale a carico del contribuente, con conseguente illegittimità della richiesta dell’Istituto (Tribunale di Bologna, Sez. lav., sentenza n. 691/2014; Tribunale di Lucca, Sez. lav., sentenza n. 608/2013).
Pertanto, il contributo previdenziale, essendo direttamente vincolato al reddito accertato ne seguirà la sorte, estinguendosi con il “condono” fiscale. Seguendo tale orientamento, per il quale l’avviso di accertamento fiscale cade per effetto della definizione, l’INPS non è più legittimato ad esigere il pagamento dei contributi previdenziali anch’essi estinti. L’effetto principale della sanatoria delle liti fiscali pendenti sarebbe l’estinzione della controversia, compresa la componente previdenziale, che si verificherebbe con l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere ex art. 46 d.l.gs. n. 546/1992.
Infine, un orientamento peculiare è dato dalla pronuncia della Corte di Appello di Venezia 30 giugno 2016 per il quale, a colmare la lacuna normativa è necessario applicare l’art. 12 delle Preleggi, che prevede in via residuale l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico quando un dubbio interpretativo non può essere altrimenti risolto. Nel caso di specie il principio generale può essere individuato nella «corrispondenza della base imponibile reddituale contributiva con quella fiscale». La soluzione appare così scontata: in caso di definizione agevolata del contenzioso tributario, deve considerarsi come accertato ai fini previdenziali il maggior reddito, la base imponibile fiscale, per l’appunto, da determinarsi a ritroso in relazione all’importo pagato per la definizione della lite. Non si può ammettere che il contribuente sia chiamato a versare tributi e contributi rispetto a due differenti determinazioni di reddito rispetto allo stesso periodo di imposta. Tale conclusione si colloca in un punto intermedio tra quelle antitetiche sostenute in giudizio dall’INPS, secondo cui l’accertamento originario sopravvive in toto all’estinzione della lite tributaria e dal contribuente, per il quale invece tale accertamento viene meno ai fini contributivi.
In conclusione, il contribuente che scelga di definire eventuali liti pendenti ai sensi del d.l. 119/2018, dovrà confrontarsi con il variegato panorama di soluzioni offerte dai giudici di merito in relazione ai contributi INPS.
Affrontato l’aspetto più pratico, non bisogna dimenticare che la questione presenta anche risvolti penalistici.
Innanzitutto il d.lgs. n. 74/2000, come modificato dal d.lgs. n. 158/2015, prevede all’art. 12 bis la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, salvo che appartengano a persona estranea all’illecito, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.
La definizione della lite pendente estingue il procedimento. In linea generale quali potrebbero essere le conseguenze rispetto all’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale, in mancanza di accertamento passato in giudicato? La Corte di Cassazione ha recentemente affermato che, con riferimento al secondo comma dell’art. 12 bis, la non operatività della confisca, diretta o per equivalente (per un approfondimento si veda Cass., Sez. Unite n. 13561/2014 che ricostruisce tale distinzione), “si riferisce alle assunzioni di impegno nei termini riconosciuti e ammessi dalla legislazione tributaria di settore, ivi compresi gli accertamenti con adesione, la conciliazione giudiziale, le transazioni fiscali ovvero l’attivazione di procedure di realizzazione automatica o a domanda”. La sentenza della Corte di Cass. pen., Sez. III, 13 luglio 2018, n. 32213 chiarisce che se il presupposto della confisca risiede nel recupero del debito tributario, come accertato dall’A.d.E., una volta estinto quest’ultimo per l’impegno assunto dal contribuente a versare all’erario il residuo, viene meno la funzione del vincolo disposto a carico del profitto o prezzo del reato. Pur sussistendo il principio del “doppio binario” per il quale le determinazioni dell’A.d.E. non sono vincolanti per il giudizio penale; tal principio trova applicazione in relazione alla sussistenza degli elementi tipici di questo o quell’illecito penale tributario, ma non relativamente alla determinazione del profitto del reato, laddove il creditore, a seguito del pagamento di quanto dovuto, dichiari di non aver più nulla da pretendere dal medesimo.
L’intera questione rileva ai fini della trattazione rispetto agli obblighi previdenziali del contribuente coinvolto nella lite pendente. In particolare, l’art. 3 comma 6 del d.lgs. 8/2016 attuativo della legge n. 67/2014 “Depenalizzazione parziale del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali” opera una distinzione importante:
– omessi versamenti di importo superiore a € 10.000,00 annui, con sanzione penale della reclusione fino a tre anni congiunta alla multa fino a € 1.032,00;
– omessi versamenti di importo non superiore a € 10.000,00 annui, con sanzione amministrativa pecuniaria da €10.000,00 a € 50.000,00 (si veda Circolare INPS n. 121 del 5 luglio 2016).
Inoltre, l’art. 8 del decreto richiamato deroga al principio di irretroattività per cui le disposizioni sostitutive di sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicheranno anche alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della novella normativa.
Per poter escludere le conseguenza penali è necessario trovare una risposta al quesito che è già stato posto in apertura: l’estinzione del procedimento in Commissione tributaria determina estinzione anche del procedimento presso il Giudice competente in ambito previdenziale? In caso di risposta positiva, verranno meno i presupposti per eventuali giudizi penali.