SUSSIDIARIETÀ DEL DIRITTO PENALE NAZIONALE E COMUNITARIO
LA QUESTIONE DELLA TITOLARITÀ IN CAPO ALLE COMUNITÀ EUROPEE DEL POTERE SANZIONATORIO IN MATERIA PENALE .
Cercherò di trasformare il pomeriggio di oggi – anzi, una parte del pomeriggio, poiché mi avvarrò del Collega Donà per ritoccare il tema delle sanzioni amministrative – in una chiacchierata, più che in una lezione istituzionale.
I motivi per cui non ho predisposto una vera e propria lezione, una scaletta di punti da collegare in modo consequenziale, sono innanzitutto la stanchezza di questi giorni, che mi ha impedito di precostituire un testo scritto, che comunque provvederemo a fare avere a tutti gli iscritti via e-mail molto presto, e questo un pochino mi toglie dai pasticci, nel senso che posso dare in qualche modo per scontate delle situazioni di dettaglio che vedrete lette, ordinate, organizzate in alcune pregevoli trattazioni del problema che sinteticamente vi accennerò, invitandovi ad andare a vedere, previa selezione, questi lavori che sono stati fatti nel panorama italiano.
Ciò detto, vorrei fare in modo che, grazie anche ai vostri interventi, questo tipo di chiacchierata fosse non dico utile, sotto il profilo professionale, ma quanto meno indirizzata a tratteggiare in modo molto generale alcuni aspetti che nella cultura giuridica classica, nella cultura dogmatica, sembrano essere elementi di frizione tra regole che a tratti si danno per acquisite, per scontate, e che a volte presentano e prospettano profili quasi di antinomia tra di loro e che, quindi, sono foriere, in quanto tali, di problemi. E nessuno meglio di noi e di voi sa che per i professionisti di qualsiasi estrazione si tratti, i problemi costituiscono pane quotidiano e, quindi, vedere, partendo da un tema così ampio e generale, che esistono dei problemi può essere utile anche alla vita professionale di tutti i giorni.
Vedere un problema significa poi eventualmente prospettarlo con riferimento ad una situazione specifica davanti al giudice, o quanto meno dimostrare al giudice che il problema non sussiste, dipende chiaramente dalla posizione di chi (avvocato, pubblico ministero, funzionario) si investe in questo compito.
Vi darò l’impressione di essere molto generico, molto generale e a volto poco chiaro, ma questo dipende dal problema che ci siamo affidati.
Cercherò anche, sempre con la poca lucidità del viaggio e del caldo, di fare qualche considerazione di tipo generale, di tipo teorico, se avremo tempo magari mi avvarrò di qualche schemino alla lavagna, credo con non buoni risultati dal punto di vista grafico e grafologico, ma in ogni modo questo potrebbe servire – magari approfitterò per anticipare qualche schizzo nella pausa caffé – per vedere come in realtà esistono già oggi delle indicazioni abbastanza precise nel senso che sia ormai dato di fatto, legge data, diritto dato, quello di una necessità per il giurista – sia teorico che professionista – di riarticolare una teoria delle fonti ed una teoria della norma giuridica e in particolar modo della norma penale, senza confondere la Corte con la norma.
Ho fatto questa premessa generica per dire che sostanzialmente, se avessero ragione i penalisti, non ci sarebbe ragione di fare questo tipo di lezione, perché i penalisti – partendo da una nozione che vedremo di diritto penale e di norma penale – ritengono che le Comunità Europee oggi non abbiano competenza, potestà, in materia penale.
A questa conclusione chiaramente i penalisti pervengono muovendo da una nozione di diritto penale, di competenza in materia penale, di giurisdizione in materia penale, di distinzione fra fonte, principio di legalità, principio di sovranità, norma di un certo tipo e partendo da questi dati – che vengono dati per scontati – in modo consequenziale ritengono che non sussista competenza, fonte, potestà, principio di legalità che siano in qualche modo governabili a livello comunitario. Questo lo dico in modo abbastanza chiaro in quanto nel contesto della dottrina penalistica (ma non mi piace usare il termine “dottrina”, per cui direi) della cultura nazionale e non solo, non si ritiene che sussista un problema di questo genere.
Esistono delle voci isolatissime, forse – direi – c’è solo una voce del Prof. Silvio Riondato che è professore associato, non so se già straordinario, di diritto penale all’Università di Padova che invece ritiene – partendo tuttavia per un verso da delle considerazioni di carattere generale a cui perviene attraverso uno slittamento della nozione di competenza penale e di norma penale, per altro verso muovendo da una lettura di alcune norme contenute nei trattati europei che darebbero sostanzialmente, dal punto di vista formale, esegetico, una legittimità alla risposta positiva alla domanda se sussista una potestà penale dall’angolazione del diritto comunitario. Il concetto di “materia” lo vedremo meglio dopo.
Un’altra cosa che voglio dire, avendo malgré moi frequentato un pochino alcuni “circhi giuridici itineranti” per l’Europa, è che in realtà, dalle discussioni che sono abbastanza ricorrenti, a partire dal 1992 fra i giuristi europei, fra quei giuristi di cultura tendenzialmente penalistica che si occupano di questi problemi in questi convegni internazionali ormai da tredici anni sostanzialmente, tutte le discussioni sono fatte da un’angolazione futuribile, noi diciamo de jure condendo, in ordine a quelli che possono essere gli strumenti, le basi giuridiche, gli strumenti di carattere teorico, di teoria della politica criminale, quindi la nuova codificazione generale, minima, parziale, di parte generale e di parte speciale, con riferimento a certi beni, si tratta comunque di considerazioni e di discussioni sicuramente interessanti ma che non toccano i problemi centrali dei rapporti fra i diritti nazionali fra di loro (soprattutto, direi) ed i rapporti dei diritti nazionali insieme ed, in secondo luogo, il rapporto dei diritti nazionali singolarmente considerati rispetto alle potestà di normare il mondo economico, il mondo sociale che oggi caratterizza l’esistenza delle istituzioni comunitarie.
Prescinderei in questa chiacchierata – e già questa è una posizione che mi porta, lo vedrete, in una situazione difficile – dal parlare (se non con riferimento ad alcuni problemi di carattere teorico che ci dovranno servire) di problemi di diritto futuro.
Sicuramente questi problemi de jure condendo investono le scelte dei legislatori nazionali (usiamo questa parola “legislatori” perché è più facile usarla) dei legislatori (o del legislatore) comunitari, dei legislatori delle convenzioni internazionali, ma non noi oggi, che dobbiamo invece occuparci di diritto positivo, dobbiamo vedere se esistono dei problemi, come è possibile risolverli. Quindi, soltanto di passaggio, alla fine toccherò un punto che invece è toccato a trecentosessanta gradi in maniera esclusiva, pervadente, da chi si occupa del problema della potestà penale dell’U.E. Quindi non parlerò del Libro Verde (Green Book), se non per dire sinteticamente che cos’è, non parlerò del Corpus Juris, non parlerò dei delitti dell’Europa, che è un altro tentativo di codificazione privata, direi ottriata, un progetto di codificazione minima inclusa nel cd. Europa Delicten, progettata dal Prof. Tiedemann, che era uno dei componenti del gruppo di studi incaricato dalla Commissione Europea di redigere un progetto minimale di codificazione penale, in materia di tutela degli interessi finanziari della Comunità ed altro, che poi si è spezzato, bloccando i lavori dopo la seconda versione di questo progetto (la c.d. versione di Firenze del 2000), ma ci torneremo brevemente dopo.
Ora, a questo punto, la difficoltà di fare questa lezione, se non si parla assolutamente di diritto futuro dell’U.E., è più che evidente.
Parto da lontano, con qualche considerazione di carattere generale, con qualche battuta.
Ma perché i penalisti, cioè i giuristi che si occupano prevalentemente di diritto penale, sono stati gli unici ad occuparsi del problema a livello teorico, o quanto meno a scriverci sopra in modo espresso e poi peraltro, hanno ritenuto di escludere attualmente una potestà in materia penale (ripeto: la parola “materia” non mi convince, ma ci torneremo poi: perché quella di materia “penale” è una nozione molto tecnica utilizzata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha elaborato una nozione di materia penale completamente diversa da quella che caratterizza tendenzialmente la cultura giuridica dei vari Paesi europei e direi che non è assolutamente sovrapponibile, perché diversa dalla nozione assolutamente elastica e ricavata in negativo di diritto penale della Corte di Giustizia Europea)? Quindi, per ora uso l’espressione “materia penale” per arrivare poi a dire che, a mio avviso, non è corretto usarla quando si parla di norma penale comunitaria.
Se abbiamo la pazienza di uscire dal fuoco penalistico dato al problema, vediamo che quasi tutti i comunitaristi ritengono che sussista una competenza penale, ad esempio il Professor Tesauro in modo abbastanza chiaro. Questo è già un tema che dovrebbe farci riflettere. È chiaro che la cultura del comunitarista è una cultura diversa da quella del penalista, nel senso che è diversa la sensibilità ed è diversa l’angolazione da cui esamina il problema. Devo tuttavia rendere onore ad alcuni penalisti, estremamente attenti ed estremamente raffinati, anche loro professori, ma professori che si caratterizzano per una sensibilità anche professionale rispetto a temi che tradizionalmente vengono avversati dal penalista puro, dal teorico puro, come il Professor Benigni ed il Professor Paliero, di estrazioni completamente diverse, che – pur ritenendo allo stato non sussista una competenza, una potestà, nel senso di poter normare con delle sanzioni penali in capo all’U.E. – pur non essendo inseribili in scuole di pensiero come la scuola tedesca, che ha sicuramente lavorato molto sui profili di possibile distinzione fra la sanzione amministrativa e la sanzione penale, hanno comunque studiato accuratamente alcuni aspetti caratteristici del diritto comunitario sanzionatorio e quindi hanno una particolare sensibilità in materia comunitaristica, perché poi vedremo che in realtà il problema della potestà penale è anche il problema della potestà amministrativa e che in qualche modo c’è una strana situazione di ritorno e di eco fra questi due ambiti e questi due piani che è stata bene coltivata dalla Corte di Giustizia.
In realtà non abbiamo un’opinione consolidata dei civilisti, né di quelli che sono più adusi ad occuparsi di diritto amministrativo in ordine a questo tipo di questione, se sussista appunto questo tipo di potestà da parte della Comunità Europea.
Sempre a livello di considerazioni generali, di cui mi scuso, ma spero poi di riuscire a spiegare il perché affronto da lontano il problema in questa prima fase della chiacchierata, quello che balza agli occhi, per quanto riguarda la cultura penalistica e la cultura comunitaristica è proprio negli atteggiamenti che il giurista ha di fronte al dato giuridico. Uso la parola dato giuridico e non legge perché anche questa è un’abitudine che forse ha caratterizzato troppo la dottrina penalistica che si è occupata al riguardo.
Se voi parlate con un comunitarista, che sia avvocato, professionista, il magistrato (ma è più difficile perché in genere a fare i giudici vanno – a prescindere dai criteri di nomina e di selezione dei magistrati – a far parte delle istituzioni giudiziarie comunitarie non sempre persone che nella vita professionale si sono operativamente occupate di diritto, quindi non sono sempre magistrati, non sono sempre avvocati, spesso sono dei puri teorici che poi si trovano a fare i giudici a livello comunitario) la differenza culturale balza subito agli occhi: il comunitarista ha verso le decisioni (della Corte) un atteggiamento culturale assolutamente diverso da quello del giurista classico; il classico legge il disegno di legge, studia i lavori parlamentari, poi quando il testo scritto si è staccato dalla fonte che ne ha legittimato l’emanazione, inizia a leggerlo, esaminarlo, osservando il contenuto letterale degli enunciati linguistici che lo caratterizzano, il rapporto tra di loro, il senso ed il significato attribuibile ad ogni parola, lo rapporta con altri sensi, altri significati, formula alcune letture, dà delle spiegazioni, inizia a svolgere un lavoro ermeneutico; e, comunque, da qual momento in poi iniziano le discussioni, le opinioni.
Le sentenze vengono fatte a loro volta muovendo da percorsi interpretativi, vengono impugnate, vengono criticate, vengono riviste; esistono delle oscillazioni giurisprudenziali all’interno delle diverse sezioni (quando dopo anni si arriva alla Cassazione) della Cassazione (all’interno della Cassazione ci sono sei, sette, otto Presidenti di sezione, che a loro volta compongono il Collegio; all’interno di una sezione possono esserci oscillazioni). Esistono delle sentenze che vengono pronunciate in relazione ad un parametro normativo. Qualche volta intervengono le Sezioni Unite, a volte le Sezioni Unite (o le singole) ritornano, ritenendo di articolare diversamente i principi. Qui i soggetti per cui la vicenda è finita o quasi dal punto di vista interpretativo sono le parti e i loro difensori.
Il comunitarista invece si muove in modo assolutamente diverso: legge la sentenza (penso alla Corte di Giustizia, ma ci sono anche le sentenze del Tribunale di primo grado, che – si auspica – possa estendere le proprie competenze anche a piani che oggi sono di esclusiva competenza della Corte di Giustizia), la considera come un dato definitivo e commenta la sentenza per le sue ricadute nel senso che essa, più che essere illuminata e condizionata dal testo normativo (trattati, normazione primaria, normazione derivata, che caratterizzano sostanzialmente l’apparato istituzionale comunitario – torneremo anche al senso che correttamente va dato nel rapporto con i diversi ordinamenti nazionali alla parola “istituzione”). Mentre la sentenza del giudice comune è in qualche modo parametrata e condizionata dal testo normativo che rimane vivo nel senso di essere comunque un criterio di riferimento peri critici, per gli interpreti è comunque un dato oggettivo, reale, in relazione al quale qualcuno potrà sempre affermare (anche un nuovo giudice) che l’affermazione contenuta nella sentenza è vera o falsa, quindi – direi – l’omologo della realtà nel mondo delle scienze naturali, per quanto riguarda il diritto. Invece, per quanto concerne una decisione della Corte di Giustizia, questo tipo di processo è sostanzialmente rovesciato, perché c’é il contenuto normativo dei trattati, delle disposizioni derivate che viene illuminato, trasformato, chiarito dalla decisione della Corte, che viene data per assodata e non più rivedibile.
Il comunitarista – e a questo punto non solo più il comunitarista – andrà poi a esaminare e la sua attenzione sarà unicamente concentrata su questo profilo, quelle che sono le ricadute applicative della decisione di principio della Corte sul diritto nazionale e sul diritto interno, anche di rango costituzionale.
Vedete che di fronte ad una sentenza della Corte di Giustizia sostanzialmente ci si trova in una condizione completamente rovesciata: la sentenza della Corte diventa il parametro, ma con una differenza, mentre il parametro costituito dal testo normativo è un parametro scritto, articolato con degli enunciati che hanno un carattere prescrittivi, hanno un carattere generale, si rivolgono attraverso delle formule sintetiche e contratte in modo indifferenziato alla generalità dei consociati e non fanno riferimento ad una situazione particolare di necessità di mettere a raffronto un fatto caratteristico della società civile con una norma, la decisione della Corte si caratterizza per formulare un’enunciazione di principio che viene perfettamente ritagliata sul caso specifico che non ha più quel carattere – pur essendo tendenzialmente un principio logico – di apertura e non costituisce più un testo intorno al quale può ruotare la discussione se una sentenza (come succede per il giudice nazionale) sia corretta o meno rispetto a quel testo. Quindi, c’è una situazione che sicuramente dipende dalla portata giuridica, dall’effetto giuridico istituzionalizzato della sentenza, ma che comunque è significativo nel senso di trasformare completamente la cultura del comunitarista.
Sicuramente non sono stato sufficientemente chiaro, però volevo sottolineare che la Corte di giustizia è una delle istituzioni che caratterizzano l’U.E. e non solo più l’U.E., perché essa ha poi delle competenze che vengono ritagliate ad hoc a livello convenzionale (vi sono molte importanti convenzioni: mi viene in mente la convenzione PIF del 1995, in materia di tutela degli interessi finanziari degli Stati membri dell’U.E. che è stata integralmente ratificata ed attuata negli ordinamenti interni anche se in maniera diversa, la quale espressamente, anche se non sotto questi profili prevede una giurisdizione della Corte di Giustizia al riguardo. La Corte di Giustizia si caratterizza per essere una delle istituzioni comunitarie; le istituzioni comunitarie si caratterizzano per un principio, che abbiamo anticipato nella prima chiacchierata del primo modulo, in base al quale non vale il classico principio di distinzione tripartita tra i poteri.
Siamo abituati a pensare al Parlamento che ha potestà di normazione anche agli effetti penali (cerco di non usare più “materia penale”) e conosciamo il principio di legalità, da cui discende il principio di tassatività , il principio di tipicità, il principio di irretroattività, tutti principi che troviamo, prima ancora che nella carta costituzionale, prima ancora che nell’art. 25 e nell’art. 27 Cost., nel codice penale, nelle Preleggi (disposizioni sulla legge in generale, di dodici anni dopo rispetto al codice penale), conosciamo l’esistenza nei Paesi europei, anche quelli che non hanno una carta costituzionale scritta della giurisdizione, del cosiddetto potere giurisdizionale e conosciamo poi l’esistenza del cd. potere esecutivo, ma non conosciamo bene – anche perché le opinioni sono diverse – come si inserisca il potere politico tra tutti questi poteri.
Nell’ambito delle istituzioni comunitarie non esistono istituzioni che si identifichino con nessuno di questi poteri, non esiste un potere legislativo, distinto da un potere esecutivo, distinto da un potere giudiziario e nessuna istituzione si caratterizza in qualche modo, tutto sommato, per non essere invece munita di queste tre funzioni.
Ora, questo fa sì che (non voglio adesso fare un discorso di dottrina politica, che non è assolutamente nelle mie capacità), però è importante dire questo perché ci si può rendere conto che la Corte di Giustizia mischia, anche se la griglia della cd. tripartizione dei poteri non è sovrapponibile ai poteri della Corte di Giustizia, sostanzialmente una portata generale ed astratta di molte delle proprie decisioni – pensate alle decisioni sulle questioni interpretative della norma comunitaria, che hanno una portata generalizzata, e si caratterizzano per un effetto erga omnes e per il futuro, addirittura hanno un qualcosa di estremamente analogo, anche se non assimilabile sotto altro profilo, al potere che caratterizza la Corte Costituzionale: sono dei giudici negativi, nel senso che hanno un parametro negativo che è quello di alcuni divieti, limiti che sono contenuti nelle Carte costituzionali verso il legislatore, il quale se eccede da questi limiti – è un postulato, poi non è esattamente così – se viola dei divieti, se finisce nella rete della Carta costituzionale, questa interviene e espunge, sin dall’inizio, ma con dei temperamenti che sono caratteristici dei diversi ordinamenti, le leggi che sono uscite dal potere che invece era attribuito, seppure in modo negativo, al legislatore.
La Corte di Giustizia emana delle decisioni che hanno un effetto – non sempre, a meno che la stessa Corte non ponga dei temperamenti che a lei sono consentiti in ordine anche alla portata delle proprie decisioni sui Trattati, attraverso la sua interpretazione degli stessi – di fare venire meno delle norme primarie dei Trattati o secondarie sin dal loro inizio. Chiaramente è difficile (non potrebbe farlo) che la Corte intervenga nel senso di cassare sin dalla sua nascita una disposizione che è contenuta in un trattato, ma sicuramente attraverso una sua lettura essa può in modo definitivo modificarne la portata.
Un’altra considerazione che balza agli occhi al comunitarista è la seguente: le sentenze della Corte sono sentenze definitive. Questa è un’altra cosa che sfugge normalmente al penalista che affronti l’argomento che stiamo trattando; non ho mai visto una contraddizione aperta tra le sentenze della Corte di Giustizia, ho visto degli slittamenti, dei superamenti, ma chiaramente sto parlando a livello molto generale, poi è chiaro che il ruolo del comunitarista è quello sicuramente di appoggiarsi a dei precedenti, cosa che invece non caratterizza il giurista classico, il giurista di diritto comune. Egli fa sicuramente riferimento al precedente, ma lo fa in seconda battuta, cioè se esiste poi una soluzione chiara, conveniente, già data, ma il fuoco non è questo. Ora sicuramente questa tendenza alla non contraddizione non è tanto la conseguenza del fatto che la Corte di Giustizia cerca di adeguarsi per non fare brutta figura ai propri precedenti enunciati, né credo che sia spiegabile unicamente con il fatto dell’alta qualità dei suoi componenti, il che è indiscusso. Però, è altrettanto vero che in linea tendenziale, chi viene chiamato a far parte della Corte di Giustizia è una persona che comunque viene espressa da una categoria professionale di buon livello. Non credo che la nostra Cassazione o la Corte costituzionale sia composta da magistrati che non sono all’altezza.
A questo punto viene quindi da chiedersi come mai questa tendenza non tanto a riferirsi ai propri precedenti quanto a non contraddirsi caratterizzi la Corte di Giustizia.
Probabilmente la Corte, procedendo per affermazioni di principio di carattere progressivo che dipendono da casi specifici e da situazioni reali, via via va a riempire uno spazio che astrattamente è aperto, ritagliando, scolpendo il diritto comunitario nazionale, un pochino come teorizzava Michelangelo in negativo, conforme al diritto sempre di più e con piccole scalpellate. Articola sempre in una direzione di progressiva affermazione della giustiziabilità a livello comunitario delle scelte giudiziali dei giudici dei Paesi membri e delle scelte politico-normative dei legislatori, ponendo ad essi in modo progressivo, con una serie di paletti che si articolano sempre di più, dei vincoli e dei limiti di carattere legislativo. Più la Corte interviene, più precisi sono i limiti ed i vincoli che derivano al legislatore civile (pensate alla materia della concorrenza, regolamenti sulla concorrenza, commerciale), con riferimento ad ambiti che non sono così precisi, non sono elencati in modo tassativo come di competenza e di attribuzione specifica dell’UE oggi; mentre più facile è individuare le situazioni, le materie in cui continua ad esistere una competenza concorrente fra i vari Paesi e l’U.E.. Quindi, io ho visto questa tendenza, ma so che non é solo una mia opinione, particolare del comunitarista a dare come dato indiscusso ed estremamente interessante i pronunciati di principio della Corte di giustizia.
Ora, un’altra caratteristica dei penalisti è quello di testualizzate il proprio ragionamento. Essi si muovono di fronte alla domanda se sussista o meno una potestà penale dell’U.E. esattamente come si muovono nella vita quotidiana quando debbono dare una lettura di una norma incriminatrice contenuta nel codice penale; si avvicinano alla disposizione, ne esaminano il carattere testuale, il significato delle parole, nel loro linguaggio, seguendo il linguaggio originario ed eventualmente ne danno una lettura di carattere sistematico. Adottano lo stesso atteggiamento quando esaminano quelle che potrebbero essere delle disposizioni che sono contenute nei trattati che caratterizzano l’U.E. e quindi dicono: “Quella norma mi sembra poter prevedere una competenza penale o amminist6rativa dell’U.E.”.
Una considerazione che non trovo nelle discussioni che si fanno in materia (segnalerò poi alcuni lavori importanti) sull’ambito in cui può profilarsi un problema di interferenza fra una normazione di rango comunitario e una normazione statale o statuale. Se pensiamo al primo, vediamo che per ragioni storiche per lo più si è in un ambito che, da un’angolazione nazionalistica, secondo una cultura penalistica, è extrapenale. Di tutto e di più potevano occuparsi le C.E.E., ma non di beni che tradizionalmente erano considerati come appartenenti al diritto penale classico. Altri erano gli scopi per cui le comunità erano nate. Quindi il nostro settore, il settore comunitario, è un settore extrapenale.
La norma penale, questa è la domanda, che carattere ha ?
Adesso non voglio scomodare le solite diatribe se abbia un natura enciclopedica, un carattere sanzionatorio, rispetto a degli illeciti che sono già previsti come tali nell’ordinamento, né se il diritto penale si caratterizza per essere un diritto frazionato.
Sicuramente al di là del diritto criminale classico (omicidio, lesioni…) la norma penale ha un carattere estremamente selettivo, frazionato, ed il rapporto, la calibratura, fra una scelta di incriminazione con una sanzione criminale, penale (tenete conto che a livello europeo si parla di diritto criminale, è difficile che si parli di diritto penale. Si parla di diritto penale quando si dice “sanzionatorio, afflittivo, punitivo”). In generale, la scelta di optare a livello nazionale per una norma che abbia una sanzione criminale è una scelta che si giustifica in termini storici, per quanto riguarda il diritto criminale, ma oggi spesso è una scelta casuale. Si ritiene di addebitare una sanzione penale, che ha una dose di afflittività notevole, quando si ritiene che soltanto attraverso la sanzione penale si possa ingenerare un effetto di prevenzione generale, se non speciale, molto efficace e quindi si possa sostanzialmente pervenire alla tutela, attraverso il divieto, di beni importanti.
Ma sarebbe interessante – e ci torneremo successivamente – esaminare quale sia il rapporto tra quelle sanzioni criminali che per la prima volta tutelano certe situazioni giuridiche o di fatto o aspettative meritevoli di una certa tutela e quelle sanzioni penali che si aggiungono a dare una ulteriore tutela già prevista nel diritto interno. Questo è un problema delicato, che tocca poi di rimbalzo i cardini del diritto sanzionatorio comunitario, i principi di sussidiarietà, di proporzionalità del diritto comunitario rispetto alle competenze nazionali.
Oggi, infatti, si sposta il fuoco del diritto criminale dal diritto nazionale all’ambito comunitario perché solo oggi si discute di fenomeni criminali che sono riconducibili in qualche modo al diritto criminale ma che hanno una portata extraterritoriale (riciclaggio…).
Ora dicevo che la norma penale nel contesto nazionale ha carattere selettivo, perché o interviene da sola per proteggere una certa situazione giuridica oppure interviene successivamente all’intervento di norma che ha un carattere extrapenale, appoggiandosi ad essa per l’individuazione di quelle che sono le condotte vietate attraverso gli elementi extrapenali od i concetti di antigiuridicità speciale o alte connotazioni che fanno sì che essa, a livello di prescrizioni, di modalità di condotta vietata si arricchisca ed abbia senso soltanto grazie a delle iniezioni giuridiche che avvengono a livello extrapenale, con norma amministrative, con norme civilistiche, di carattere commerciale, o di provenienza comunitaria.
Il problema della sussidiarietà dell’intervento penale rispetto ad altre forme di interventi che caratteristica invece il diritto comunitario rispetto al diritto nazionale a livello di affermazione di principi, non è mai stato codificato a livello nazionale.
Solo oggi che è stata elaborata una cultura delle sussidiarietà e della (vedremo poi con riferimento al Trattato che cosa intendiamo con questi principi, anche se sono già stati introdotti nelle precedenti lezioni) proporzionalità si affronta il problema di diritto interno se il diritto penale sia conforme a questo canone logico e, secondo alcuni anche costituzionalizzato, che sarebbe quello dell’extrema ratio e della c.d. sussidiarietà e della proporzionalità – se la sanzione minacciata abbia un carattere afflittivo che in qualche modo venga giustificato dall’importanza del bene (io preferisco parlare di situazione giuridica tutelata, anziché di bene, perché con la teoria del bene rischiamo di andare fuori e sono assolutamente critico, ma non voglio esprimermi verso alcuni lavori che sono stati fatti in ambito comunitario da certa dottrina penalistica comunitaria che ha trapiantato la teoria del bene tutelato di matrice penalistica all’ambito della tutela sanzionatoria comunitaria. Ci torneremo quando faremo un breve riferimento al Corpus Juris).
L’idea che si possa ricorrere alla sanzione penale soltanto quando essa è inevitabile ed assolutamente indispensabile perché il semplice ricorso di una sanzione ad una previsione di ordine pubblico in materia civile o commerciale, o di una previsione amministrativa o tributaria non è sufficiente, utile, funzionale allo scopo di tutelare una certa situazione giuridica privata o pubblica che sia, è un’idea relativamente nuova. È vero che esiste un percorso attento della nostra dottrina costituzionalistica o della stessa Corte Costituzionale, che è intervenuta a più riprese sindacando alcune scelte del legislatore, ma é anche vero che le Corti Costituzionali (quella italiana, quella tedesca e quella spagnola) sono state sempre estremamente restie ad intervenire attraverso un sindacato di razionalità sulle scelte di opzione per un tipo di sanzione piuttosto che un’altra fatta dal legislatore, ritenendo che la questione semmai avrebbe dovuto porsi con riferimento non al principio di sussidiarietà quanto ad un’effettiva lesione di alcuni principi fondamentali nell’ordinamento costituzionale.
Ora, dicevo, la norma penale tendenzialmente – se pensiamo alla nostra legislazione, ma lo stesso vale per la legislazione tedesca o francese – non si caratterizza per essere tendenzialmente sussidiaria; non esistono dei paletti contenuti nell‘ordinamento giuridico nazionale che definiscono quale deve essere il rapporto fra sanzioni di diversa matrice (civili, amministrative e penali), non stabiliscono delle regole di un loro eventuale assorbimento e sul loro eventuale cumulo. Siamo molto in difficoltà anche dopo una bella legge quale quella sulla depenalizzazione o sull’illecito amministrativo (Legge 689/1981) a verificare quando norme ad esempio penali ed amministrative tocchino gli stessi fatti, invadano lo stesso campo e si pongano fra loro in un rapporto di concorso apparente; l’opzione per la specialità, il criterio di specialità (è principio che conosciamo noi, ma ad esempio nei Paesi europei non esiste. Non ho bisogno di citare il Prof. Prosdocimi che ha chiarito molto bene già dieci anni fa che non vi è una sovrapponibilità tra situazioni incriminatici contenute in norme diverse nel caso in cui queste norme invadono in tutto od in parte lo stesso ambito di difesa; vale a dire prevedono la difesa di situazioni giuridiche che in qualche modo sono sovrapponibili tra di loro e come tali non siano sommabili) è stato da noi adottato e pone tutta una serie di problemi di matrice aristotelica: il rapporto tra genere e specie è problematico. In Francia mi sembra che giungano a risultati analoghi ai nostri senza utilizzare il principio di specialità, ma facendo riferimento ad una teorica del fatto che giustificherebbe chiaramente e presupporrebbe il divieto di prevedere due volte in una disposizione lo stesso fatto, con delle conseguenze giuridiche sanzionatorie che siano sommabili anche se diverse (ne bis in idem sostanziale in base al quale non possono essere applicate più sanzioni ricollegate a più precetti che vietano la stessa situazione di fatto o situazioni di fatto tra di loro omologabili).
Il problema del raffronto tra situazioni normative che sicuramente vanno a toccare gli stessi ambiti del normabile giuridicamente o situazioni giuridiche omologhe, analoghe però con delle sanzioni di tipologia diversa, non trova nessun tipo di soluzione, nessun tipo di istituto nel nostro ordinamento giuridico.
Tolti i casi rarissimi in cui c’è un’espressa presa di posizione, noi ci troviamo costantemente di fronte di dottrina e giurisprudenza a dichiarazioni apodittiche in base alle quali si dice ogni settore ha una sua autonomia qualificatoria e sanzionatoria e come tale stante il principio di ………. della legge, non si pone un problema di assorbimento tra sanzioni che hanno natura o caratteri diversi. Tenete conto che questa è sicuramente una petizione di principio, o quanto meno è una soluzione che può andare bene in un contesto nazionale, dove l’ordinamento è unificato, dove esso può portare delle multiqualificazioni del medesimo fatto senza prevedere espressamente delle modalità di articolazione in questa situazione complessa di articolazione; ma questo non vale nei rapporti tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento comunitario, dove invece non si pongono problemi di questo tipo, addirittura, vedremo, andando ad investire gli istituti – presenti od assenti – che caratterizzano il diritto nazionale, nel senso di modificarli.
L’azione comunitaria è per definizione amministrativa o civile, almeno dalle sue origini. Tutela certe sfere extrapenali che solitamente sono sfere economiche. Però la parola amministrativa e civile che ho usato dipende senz’altro da un’opzione nominalistica che io ho adottato e che normalmente si adotta perché non troviamo teoricamente delle sanzioni che noi qualificheremmo come penali. Non le qualificheremo penali perché sono esterne al nostro ordinamento giuridico, e se noi riteniamo che solo nel nostro ordinamento giuridico, in base al principio di tipicità, possono essere presenti delle sanzioni penali, per definizione quelle che provengono da fonti non riducibili al nostro ordinamento giuridico non possono chiaramente essere definite penali. Quindi, se adottiamo un criterio di fonte, quello che viene dal diritto comunitario non può essere penale; se adottiamo un criterio formalistico, non lo qualificheremmo comunque mai, anche in questa maniera, come sanzione di carattere penale, perché non proviene da un giudice, secondo un procedimento giurisdizionale.
Effettivamente la Corte di Giustizia non è un giudice che irroga sanzioni penali; le istituzioni che prevedono delle sanzioni sono, ad esempio, il Consiglio o la Commissione europea, nei limiti in cui si ritiene ammissibile questo, anche se vi sono state discussioni in materia nel senso che il Consiglio non possa delegare alla Commissione la scelta della tipologia e del quantum, del quomodo delle sanzioni amministrative, ma tale competenza dovrebbe riservare a sé medesimo.
Ma proprio questi problemi, che hanno caratterizzato l’importante sentenza della Corte di Giustizia del 1990 in una causa contro la Germania (che sosteneva che da una parte la Commissione non era competente a precedere certe sanzioni, che avevano carattere penale perché si caratterizzavano per una particolare afflittività, perché avevano carattere stigmatizzante). La Corte non era intervenuta, pur dicendo che in realtà non si trattava in quel caso di sanzione penale, senza definire la sanzione penale, cosa che invece ci si aspettava che facesse.
L’ambito delle attribuzioni dell’U.E. è sicuramente, istituzionalmente, non storicamente destinato alla tutela dei beni della vita che in qualche modo si possono ricondurre al diritto penale classico, per cui – direi – un profilo di interferenza tra potestà penale ipotetica ed astratta dell’U.E. con la potestà penale classica non si è posto. Si pone oggi in materia dei cd. beni economici. Quindi l’ambito delle funzioni che sono tipiche del diritto penale tradizionale nel contesto comunitario sono pochissime. La Corte di Giustizia ha elaborato però, partendo dai profili che caratterizzano le sanzioni amministrative, dei principi che svolgono una funzione di cuneo rispetto ai principi generali penalistici, che invece caratterizzano i diritti nazionali. Si è creato un fenomeno curioso: attraverso delle potestà in materia economica che sono state in via progressiva sempre più esercitate dalle istituzioni comunitarie, attraverso regolamenti e, in veste minore, delle direttive, si è verificata la situazione per cui spesso la Corte, nell’esaminare profili vuoi in via interpretativa delle norme comunitarie vuoi in caso di procedimenti per infrazione, per situazioni di contrasto tra alcune disposizione derivate delle istituzioni comunitarie con delle situazioni giuridiche soggettive o diritti soggettivi dei privati, sono state elaborate nell’ambito delle sanzioni amministrative dei principi caratteristici del diritto sanzionatorio che via via sono andati ad incidere su principi direi del diritto nazionale sanzionatorio che tendenzialmente ne hanno portato una modificazione. Brevemente, vedremo in materia di sanzioni amministrative quali sono questi principi.
Quindi, il diritto criminale oggi caratteristico dei vari Paesi ha subito a livello di principi alcune modifiche anche sotto il profilo della parte generale dei principi generali.
Ho fatto questo discorso molto generale perché mi premeva sottolineare che ci troviamo di fronte, quando guardiamo all’insieme dei trattati ed alle disposizioni di legge comunitaria derivate o comunque di atti equiparabili come forza e valore alle leggi, ad una situazione molto diversa rispetto a quella che siamo abituati a trovare quando guardiamo al diritto nazionale nel suo rapporto con il diritto costituzionale. Io non condivido – come ho già detto alla tavola rotonda in materia di fonti alla fine del primo modulo – quelle impostazioni in base alle quali la norma nazionale può essere interpretata anche con delle forzature per renderla conforme alla Costituzione. Se la Costituzione italiana e le altre hanno delle parti programmatiche, si tratta di parti politiche, che sono rivolte ai legislatori, al Parlamento; le elezioni politiche esistono proprio perché esiste uno spazio politico dei Parlamenti e, quindi, una libertà che le carte costituzionali danno sotto il profilo programmatico ai legislatori. Quello che più importa, invece, secondo me è il contenuto negativo delle carte costituzionali, quali sono i divieti che esse pongono al legislatore. Non ritengo quindi che esistano delle norme direttamente prescrittive che in qualche modo attribuiscono diritti e doveri o in via diretta dei poteri o diritti soggettivi ai privati o agli enti pubblici, se non nella parte istituzionale della giurisdizione, dove si prevedono certe autorità importanti (penso alle magistrature superiori o ad altre situazioni). Sicuramente la Costituzione non è un trattato: dalla costituzione non sono evincibili delle attribuzioni per materia delle istituzioni che a loro volta possono, a livello di normazione derivata, svolgere un’attività di politica attraverso delle norme. Invece i trattati si caratterizzano per questa peculiarità e, quindi, danno delle indicazioni alle istituzioni che a loro volta emanano delle norme. Quindi, il rapporto che c’è tra la Corte di Giustizia ed i trattati o il potere legislativo comunitario ed i trattati non è lo stesso che invece caratterizza il Parlamento nazionale rispetto alle carte costituzionali. Questa è una considerazione molto generale, ma in qualche modo influenza il modo in cui il giurista deve affrontare il tema della potestà penale.
I comunitaristi estremi ritengono che sia prevista, perché non esclusa, per forza di cose in capo alle istituzioni comunitarie una potestà di emettere norme penali. Questa attribuzione ci sarebbe nel senso che, essendo attribuite in via esclusiva o concorrente delle competenze per materia alle istituzioni comunitarie (quindi all’U.E. in questo caso) su quelle materie, in maniera esclusiva o concorrente con i poteri legislativi nazionali, l’U.E. può legiferare, ponendo dei divieti e sanzionando, esattamente come succede in ossequio al principio di tipicità e comunque al principio di tassatività anche in materia civile – non è soltanto un principio che caratterizza la materia penale, ma caratterizza anche la materia civile e la materia amministrativa – nell’ambito delle fonti interne. Una fonte è abilitata attraverso delle forme previste dalla legge ad emanare delle norme in certi ambiti, in certe situazioni e le norme, si sa, si caratterizzano tendenzialmente con delle previsioni, per lo più a carattere negativo, perché la legge ha e deve avere contenuto generale ed astratto, e prevedendo delle conseguenze a delle violazioni. Quindi, secondo i comunitaristi estremi, dove le istituzioni europee hanno il potere di intervenire con degli atti aventi forza normativa, in quanto atti aventi forza normativa, sono abilitati ad esprimere sanzioni.
Secondo i penalisti, invece, questa situazione non sarebbe ammissibile, perché i penalisti, o almeno coloro che si oppongono alla potestà penale dell’U.E. (penso a Grasso di Catania, allo stesso Bernardi, Picotti, o a Manacorda di Napoli), ritengono che non sia ammessa una potestà penale, in quanto la medesima sarebbe abilitata a prevedere le condotte vietate, ma non a prevedere le sanzioni. È curioso.
In due bellissimi lavori, Riondato e Bernardi hanno lavorato nel senso di dire: sì, indirettamente l’U.E. incide sulla norma penale perché svolge un ruolo di eliminazione, abrogazione (lo ha accennato la volta scorsa il Prof. Ambrosetti), di integrazione del precetto penale. Se la norma comunitaria contrasta con la norma nazionale e se la norma nazionale integra il precetto penale (in materia economica, per lo più, le norme hanno questa struttura, non sono sempre norme in bianco, però in parte rinviano per la previsione delle condotte vietate a dei concetti che stanno al di fuori della stessa norma che si chiama penale perché viene inserita in un codice penale o nella legge penale speciale), e quindi come tali vanno a modificare costantemente e ad integrare il precetto. Questo lo possono legittimamente fare, ma non possono prevedere una sanzione penale, che è caratteristica del legislatore nazionale. Una volta si diceva perché esiste il deficit democratico, perché le istituzioni comunitarie non hanno fondamento democratico; oggi il problema è superato attraverso la possibilità dell’utilizzo della possibilità della codecisione, e quindi il problema sostanzialmente sarebbe risolto da un punto di vista politico.
Ma non è questo che interessa a noi; a noi interessa sapere che la Corte non è un giudice penale, che a livello comunitario non esistono giudici penali. A noi interessa sapere che mai attraverso norme di legislazione di rango primario, comunitario, è stata prevista una sanzione a presidio di un precetto che prevede la reclusione. Noi sappiamo che la Commissione od il Consiglio prevedono attraverso regolamenti, quando non demandano la medesima previsione alle autorità nazionali, delle sanzioni amministrative e sappiamo anche che non esiste una magistratura, o una giustiziabilità, nel senso che queste sanzioni amministrative non vengono applicate direttamente da un’autorità amministrativa comunitaria e che non è previsto un giudice, a livello comunitario, che irrighi delle sanzioni amministrative previste nel caso di violazione di certi precetti di rango comunitario. Sicuramente non abbiamo la possibilità di sovrapporre la situazione istituzionale comunitaria rispetto a quella nazionale: sappiamo che questo potere non è stato esercitato o è stato esercitato soltanto nell’ambito delle sanzioni amministrative.
Ora, torniamo un attimo alle disposizioni che sono contenute nel Trattato: lo faccio per correttezza rispetto a tutti coloro i quali si sono occupati dell’argomento, anche se non ritengo che il riferimento sia significativo più di tanto.
L’art. 280 del Trattato istitutivo della C.E. nella nuova numerazione costituisce una riformulazione del vecchi art. 209 A) del Trattato di Maastricht così come è stato modificato dal Trattato di Amsterdam con la decisione del Consiglio CE del 2 ottobre 1997, ratificato il 16/06/1998, che ha sostituito e modificato l’articolo: “La Comunità e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari della comunità stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli stati membri”.
A questo punto si è ritenuto da alcuni che l’art. 280 (vedremo poi meglio subito dopo) possa costituire una base giuridica della potestà in materia penale di cui stiamo discutendo. Si sarebbe usciti dal profilo della semplice e pura armonizzazione e si sarebbe giunti sostanzialmente a livello di trattato alla convinzione che vi sarebbe stato un obbligo condiviso per tutti gli Stati membri di ricorrere in certe materie (frodi lesive degli interessi finanziari della comunità) alla possibilità di adottare delle misure dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli stati membri. Il riferimento alle misure dissuasive ed all’efficacia sarebbe stato una prima impalcatura per radicare una competenza normativa che non si estendesse chiaramente ad un applicazione giudiziaria, giudiziale delle sanzioni ma quanto meno che potesse giungere alla previsione di una potestà di sanzioni eventualmente applicabili in altri ambiti.
Art. 280, II comma: ” Gli Stati membri adottano per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari delle comunità le stesse misure che adottano per combattere contro le frodi che ledono i loro interessi finanziari”.
Ora, con il II comma si sarebbe posto un obbligo di parificazione o di assimilazione per gli Stati membri, nel senso che ad essi sarebbe derivato l’obbligo di applicare internamente a tutela vediamo, di questi beni comunitari, interessi finanziari delle comunità, le stesse condizioni sanzionatorie adottate a tutela dei propri beni (va fatta una precisazione che, probabilmente è nota: quando si parla di interessi finanziari non bisogna pensare a qualcosa di lontano dall’attività professionale di tutti i giorni, e ciò anche per i professionisti che ritengono di non trattare questioni di diritto comunitario, perché per interessi finanziari delle comunità si intendono cose molto vicine a noi: non solo il mancato pagamento dei dazi doganali – e questo potrebbe interessare il professionista che si occupa di diritto doganale – o l’indebito utilizzo di contributi comunitari – ed anche questo può interessare quelli che si occupano di questa materia – ma un tipico esempio è quello dell’I.V.A., laddove una parte del gettito IVA è di competenza del bilancio comunitario, per cui si tratta di un imposta di origine applicata da tutti gli stati membri che hanno anche la gestione e la responsabilità della riscossione, ma poi una percentuale di questo gettito va a finire nelle casse comunitarie).
Sostanzialmente, con riferimento a beni come il bilancio comunitario ed a tutte quelle fattispecie che sono già sanzionate nei singoli Paesi da anni e, quindi, dal 1995 sicuramente con l’approvazione del Regolamento del 1988, di cui parleremo, che disciplina in via generale le sanzioni amministrative afflittive, parapenali e penali, dell’U.E., formulando dei criteri univoci e molto dettagliati sulle c.d. sanzioni sui generis, che poi debbono essere applicate dalle autorità amministrative nazionali e sono opponibili davanti ai giudici ordinari nazionali (quello della legge 689/1981 nel nostro paese, per intenderci), tutte queste condotte sarebbero già sanzionate a livello amministrativo, sarebbero sanzionate in alcuni Paesi anche con delle norme amministrative interne, ad oggi sono sicuramente in parte sanzionate dalla legislazione nazionale (ci sarà una lezione apposita sulla truffa comunitaria ex artt. 640 bis, 316 bis e ter c.p. e 2 della legge 698/1986, disposizioni che alcune precedono la nota Convenzione PIF in materia di tutela degli interessi finanziari, diversamente attuata nei vari Paesi con disposizioni completamente diverse; a livello comunitario si sarebbe ritenuto, con il Trattato di Amsterdam, di effettuare un’espressa previsione – questa può essere una lettura, però diversa da quella che dà ad esempio Picotti sull’art. 280 – dopo una convenzione, che non è diritto comunitario, se non nella misura in cui rimanda o venga espressamente richiamata come parte integrante del diritto comunitario, perché si è prevista questa divisione del Trattato dopo una convenzione che già aveva posto degli obblighi dopo la sottoscrizione, di attuazione dei vari Paesi; con l’art. 280 si attribuirebbe, secondo una certa dottrina italiana, all’istituzione comunitaria la possibilità di intervenire sulla materia).
Con il primo comma che ho letto prima si stabilisce l’obbligo degli Stati di combattere contro le frodi mediante misure adottate a norma del presente articolo che siano dissuasive e tali da…….………… Se gli Stati membri (II comma: principio di assimilazione) hanno una disciplina, con la medesima devono promuovere a livello normativo interno la tutela di questi interessi finanziari; e, se penale, con una disciplina penale, con sanzioni che quantomeno abbiano lo stesso carattere e che abbiano anche il carattere della proporzionalità, della utilità, dell’efficacia, della dissuasività
Al III comma si dice: “Gli Stati membri coordinano l’azione diretta a tutelare gli interessi finanziari delle comunità contro la frode.” Qui sembrerebbe che si sia nell’ambito del c.d. terzo pilastro, perché si parla di semplice coordinazione dell’azione.
Ma con il IV comma si dice “Il Consiglio deliberando secondo le procedure di cui all’art. 251, previa consultazione della Corte dei Conti, adotta (quindi la Comunità) le misure necessarie nei settori della prevenzione e lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari delle Comunità “ e qui si parla solo di tutela degli interessi finanziari delle Comunità, mentre al I comma, dove si pone l’obbligo agli Stati, si parla anche di altre attività illegali. Quindi, nel IV comma, quando si attribuisce nel Trattato al Consiglio (organo legislativo) in codecisione (art. 251 Trattato) con il Parlamento europeo, la competenza (la parola misure è ampia, tende, secondo la Corte di Giustizia a significare si la previsione che la sanzione) adotta le misure necessarie per la lotta contro la frode; dove si dice “necessarie” secondo la Corte significa che debbono essere delle misure che possono essere tutte quelle possibili a livello normativo e che debbono essere necessarie, mente impostate secondo i principi di sussidiarietà (perché potrebbe esservi un’attribuzione in questa materia, ampia) ma che anche in ossequio al principio di sussidiarietà possono essere prese se le disposizioni normative interne dei vari Paesi non sono ritenute sufficienti.
Necessarie vuol dire anche che debbono avere un tasso di proporzionalità, siano ossequiose del principio di estrema ratio, ma che possono giungere ad una portata adeguata rispetto agli scopi (questo è il ragionamento che fa la Corte) che debbono essere raggiunti, che consistono nella tutela (divieto) contro la frode che lede gli interessi finanziari della comunità, al fine di pervenire ad una protezione efficace ed equivalente in tutti gli Stati membri. Per efficacia equivalente si intende una previsione normativa (che ha carattere generale); soltanto con essa si può attingere il requisito dell’equivalenza.
Poi, ed è questa la difficoltà degli interpreti e della dottrina che ha cercato di trovare una spiegazione a questo articolo: per un verso si prevede la potestà anche di carattere penale, che al IV comma prevede solo la frode e gli interessi finanziari delle Comunità, mentre al I si parla solo di attività illegali.
A questo punto sicuramente la potestà è ritagliata sugli interessi finanziari dell’U.E., che costituirebbero, secondo certa dottrina, beni tipici a carattere sovranazionale secondo alcuni, a carattere ipernazionali secondo altri, a carattere comunitario secondo altri ancora; beni tipici della Comunità, perché rientrerebbero nel patrimonio di questa e come tali sarebbero tutelabili esclusivamente attraverso normazione comunitaria. A questo punto ci sarebbe una attribuzione della relativa materia per appartenenza, per titolarità, e quindi un potere di normare in materia in modo completo.
La difficoltà prevista nell’ultimo comma, alcuni hanno cercato di superarla. La frase che mette in difficoltà è questa: ”…tali misure non riguardano l’applicazione del diritto penale nazionale o l’amministrazione della giustizia negli Stati membri”.
La traduzione è quella che è, ci sono sempre problemi di traduzione in ambito comunitario, per cui volendo si possono fare salti mortali e dare priva di capacità esegetica ed ermeneutica; la dottrina prevalente in Italia ritiene che sicuramente questa disposizione significa che non è previsto a livello comunitario un giudice che applica sanzioni penali, che sono i giudici nazionali che debbono applicare queste sanzioni penali; altra dottrina ritiene che la parola sia soltanto quella di “applicazione del diritto penale nazionale“ e che con tale parola non si parli di previsione di un diritto penale e di norma penali. Questa seconda opinione è sicuramente più convincente. Ma io osserverei che, volendo, si potrebbe dare anche un’ulteriore lettura, anche se queste letture normative dei trattati lasciano il tempo che trovano, perché una corretta esegesi dei poteri di attribuzione va fatta leggendo complessivamente l’ordinamento comunitario nei suoi rapporti con l’ordinamento nazionale, alla luce dei principi che vengono ormai comunemente accolti e che entrano a far parte dell’ordinamento – vedremo poi come – in modo piuttosto chiaro. Dicevo, quindi, che si può dare alla frase una terza lettura: questi poteri attributi alle istituzioni comunitarie non toccano le competenze in materia di applicazione della giustizia che hanno i singoli Paesi membri; anche in alcune pregevolissime decisioni della Corte di Giustizia, si enuncia un principio e si usa questa espressione: “Comunque in questa situazione rimane impregiudicata la possibilità del singolo Paese di emanare una norma penale”, cioè, in qualche modo, si autorizza il singolo Paese, lo Stato, ad emanare norme penali. Vedremo quando. Quindi si potrebbe anche dare questa lettura e dire che questo è un campo completamente diverso; qui la Comunità ha una competenza che non interferisce con la separata competenza che hanno le legislazioni nazionali parlamentari o governative.
In una luce come quella che si è ricordata, la dottrina italiana è quasi concorde nel ritenere che esistano sostanzialmente due piani completamente separati e paralleli, in materia di fonti nazionali e di fonti comunitarie, e che quindi la potestà eventualmente penale comunitaria sia una potestà normativa sussidiaria penale non a carattere giurisdizionale o applicativo, e che tuttavia questa potestà sia esercitatile con delle norme di diritto derivato che siano ossequiose del principio i sussidiarietà, nel senso di poter ricorrere a sanzioni di carattere criminale qualora negli ordinamenti interni non si ricorra efficacemente a questo tipo di misure.
Questo tipo di soluzione però non risolve completamente il problema della strumentazione che dovrebbe essere utilizzata con riferimento a questo tipo di base giuridica.
Si è detto molto, in sintesi si può dire con il Prof. Durazzo, che in un lavoro estremamente attento aveva espresso in modo abbastanza chiaro, che non sarebbe corretto ricorrere ad un regolamento, perché questo tipo di lettura testuale dell’art. 280 porrebbe seri problemi in materia di applicazione del diritto penale, avrebbe dei problemi di interferenza con le giurisdizioni nazionali in materia penale. La direttiva non sarebbe adatta perché lascerebbe uno spazio di ampia discrezionalità ai Parlamenti interni, per cui il problema della universalizzazione di questi istituti e quindi della parità di trattamento e della coerenza di disciplina nei vari Paesi non potrebbe essere facilmente raggiunto con il meccanismo della direttiva.
Si era suggerito ad un certo punto (ad esempio De Vero lo aveva sostenuto, anche se assolutamente contrario alla potestà penale) addirittura una modifica del Trattato con l’introduzione di un art. 280 bis che prevedesse espressamente la potestà giurisdizionale penale del giurista nazionale attraverso norme di carattere derivato, la regolamentazione delle competenze e delle ipotesi di reato minimale. Il Corpus Juris è andato in questa direzione, con il progetto che è poi rimasto fermo, nel senso di individuare otto fattispecie incriminatrici poste a tutela di questi interessi finanziari della Comunità con meccanismi di integrazione con il diritto interno, nel senso di prevedere una specie di criterio di specialità che facesse prevalere la disposizione comunitaria e poi delle disposizione di parte generale (è stato definito una specie di microsistema questo ritrovato de jure condendo) che però rinviasse, per tutto quanto non previsto, sia come parte generale, sia come istituti di cautela tra parte generale e parte speciale, al diritto nazionale. Prevedendo che se ne occupasse il diritto nazionale individuando poi un apparato procedurale di regole parziali, da integrarsi con il diritto nazionale, e l’istituzione del P.M. europeo, che agisca separatamente e parallelamente ai PM nazionali, portando però al giudizio con dei criteri molto elastici di scelta del foro davanti al giudice nazionale chi fosse stato colpito da un’imputazione per violazione di questa norme penali di carattere comunitario. Questo è il quadro direi molto sintetico della discussione che si è fatta sino ad oggi sul tema.
In realtà altri autori hanno suggerito altre norme cui fare riferimento, soprattutto muovendo dai poteri sanzionatori in materia di diritto penale amministrativo o amministrativo sanzionatorio, di cui agli artt. 40, 43 e 172 del Trattato per derivare se effettivamente esista un’espressa competenza (Riondato).
Alcune norme che sono state richiamate nella discussione sul punto fino al quale si estenderebbe la potestà dell’U.E. in materia di sanzioni penali sono state: l’art. 229 del Trattato (“I regolamenti adottati congiuntamente dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo in virtù delle disposizioni del presente Trattato possono attribuire alla Corte di Giustizia una competenza giurisdizionale anche di merito per quanto riguarda le sanzioni previste nei regolamenti stessi”), in senso negativo rispetto al potere si è argomentato (così ad esempio De Vero), per quanto riguarda il diritto nazionale l’art. 11 Cost. e poi si è fatto riferimento all’art. 308 del Trattato ed, infine, all’art. 203 del Trattato C.E.C.A.. Si tratta comunque sempre di osservazioni che in qualche modo sono la conseguenza di alcune assunzioni di principio che si sono fatte.
Occorre dire che anche le opinioni minoritarie, di chi ritiene che ci sia una espressa legittimazione penale, vengono argomentate da una lettura sempre un po’ estesa di singole disposizioni, però il problema è molto più ampio, più vasto, ed andrebbe rivisto. Anche gli artt. 40, 43 e 100 del Trattato potrebbero sicuramente, nella misura in cui prevederebbero “un potere anche in materia sanzionatoria della Comunità”, dare indicazioni in tale senso. Infatti l’art. 40, ora 34, del Trattato statuisce al II comma che “per raggiungere gli obbiettivi previsti dall’art. 33 l’organizzazione comune nelle forme indicate può comprendere tutte le misure necessarie al raggiungimento degli obbiettivi definiti dall’art. 33 ”; l’ex art. 43, oggi 37, al IV comma prevede che “su proposta della commissione previa consultazione del Parlamento europeo il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, stabilisce i regolamenti o le direttive oppure prende decisioni senza pregiudizio delle raccomandazioni che potrebbero formulare ”. Si tratta comunque sempre di indicazioni puramente formali e che andrebbero rivisitate.
Fino ad adesso, anche se non si può in un tempo così limitato esaminare tutti i profili dell’incidenza indiretta o diretta delle fonti normative comunitarie sui precetti e sulle sanzioni nazionali, abbiamo avuto l’idea che esistono sicuramente diversi ordini di fonti che operano e che per utilità (come ha fatto molto spesso la Corte Costituzionale italiana) consideriamo distinti gli ordinamenti nazionali e comunitari, per cui si potrebbe parlare di ordinamenti che si integrano e che sono, però, caratterizzati da una pluralità di fonti, ciascuna delle quali ha un’incidenza parziale sull’organizzazione normativa dei precetti da cui conseguono le sanzioni di natura penale, teoricamente caratteristiche degli ordinamenti nazionali, mentre la separazione, diciamo lo spezzarsi in due, secondo la classica strutturazione della norma, tra precetto da un lato e sanzione dall’altro, sarebbe un po’ una situazione nuova del panorama teorico, nel senso che ciascuna fonte avrebbe sostanzialmente una portata limitata, cioè non ci sarebbe una potestà di normazione esclusiva sulla fattispecie né per una fonte né per l’altra, né per l’ordine nazionale delle fonti né per l’ordine comunitario delle fonti. Non solo, ma la misura del dosaggio dell’intervento teorico e previsto di una fonte o dell’altra sarebbe eventuale, nel senso che non vi sarebbe un’unificazione temporale dell’intervento legislativo: questa sarebbe una delle caratteristiche della convivenza tra questi meccanismi integrati delle fonti.
Un’altra considerazione flash: il modo con cui queste fonti si integrano per andare a trovare una soluzione normativa dipende molto dal modo con cui giustizialmente, cioè grazie agli interventi molto importanti della Corte di Giustizia, sono stati risolti alcuni problemi applicativi della convivenza tra i principi nazionali e comunitari. Vedremo che nel contesto delle sanzioni amministrative, dopo alcuni interventi della Corte di Giustizia, le istituzioni comunitarie hanno provvisto un regolamento basato su principi molto articolati, caratteristici proprio delle tradizioni degli ordinamenti penalistici europei, principi cristallizzati dalla giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’Uomo che ha un effetto qualificatorio vincolante nei singoli Paesi, i quali, dunque, arrivano dal diritto penale nazionale e attraverso la loro generalizzazione in principi della Corte dei Diritti dell’Uomo (che però non interferisce con la competenza della Corte di Giustizia) sono stati inglobati nel Trattato nella I parte in quanto già previsti dalla Carta fondamentale dei diritti dell’uomo. Quindi, dalle tradizioni comuni dei vari Paesi questi principi arrivano a livello comunitario e poi vengono riaffermati e rigeneralizzati con la giurisprudenza della Corte di Giustizia e così ritornano nei vari ordinamenti, data la portata universale delle decisioni della Corte di Giustizia, e vanno a interferire e a condizionare tutti gli istituti classici del diritto penale. Chiaramente sono principi che vengono utilizzati dalla Corte di Giustizia in materia normalmente di sanzioni nei settori economici, per cui quel diritto che è tipico dei diritti speciali, cioè quelli economici, dei vari Paesi spinge in tema di responsabilità delle persone giuridiche, in tema di concorso dei terzi coi soggetti legittimati all’erogazione di contributi, nella dimensione processuale (si pensi al diritto al silenzio, che la Corte di Giustizia e la Corte dei diritti dell’uomo hanno riconosciuto in misura diversa: la prima, ad esempio, non l’ha riconosciuto per le persone giuridiche, ma solo per i privati), per cui quelle norme nazionali anche dal carattere processuale vengono disapplicate dai giudici nazionali.
Caso eclatante del 2003 è quello portato alla Corte di Giustizia sul ne bis in idem, che ha condotto alla disapplicazione di una parte del nostro codice di procedura penale, che definisce il giudicato, giudicato che per la Corte di Giustizia è anche quello fatto dal Pubblico Ministero con una transazione, con una rinuncia all’azione, in modo tale da poter garantire il divieto di doppia sanzione, cioè il ne bis in idem, in ambito comunitario.
Altro caso rilevante si è avuto in materia di personalità della responsabilità penale: sia la Corte dei diritti dell’uomo sia la Corte di Giustizia hanno ritenuto che esiste un del legislatore nazionale di adottare il principio di colpevolezza pura, quindi o di colpa o di dolo, per la responsabilità personale dei soggetti sia in sede penale che in sede amministrativa, per cui ci sarebbe l’obbligo del legislatore di prevederla anche quando opera con delle sanzioni penali e, se non la prevede, devono essere disapplicate le norme contrastanti coi principi comunitari enunciati dalla Corte di Giustizia pensando alle tradizioni comuni, i quali principi, però, una volta che vengono recitati nella sentenza diventano vincolanti e generalizzati. La Corte di Giustizia, ad esempio, ammette in certi casi la responsabilità oggettiva anche in ambito penale, purché sia in qualche modo collegata a dei doveri funzionali alla c.d. teoria del rischio di organizzazione e, quindi, in qualche modo informata ai coefficienti tipici della colpa. Nell’ambito dell’interpretazione della lettura delle norme del d.lgs 231/2000 in materia di responsabilità penale amministrativa delle persone giuridiche, anche se i penalisti continuano a qualificare la responsabilità come responsabilità penale, si tratta comunque di una responsabilità amministrativa per colpa.
Tutti questi sono esempi “telegrafici” che finiscono, schermati dalla Corte di Giustizia, negli ordinamenti interni e comportano la costante disapplicazione di tutti quegli istituti di diritto penale che non sono adeguati. Quindi il diritto penale del contenzioso diventa importante, perché, ad esempio, sia il giudice ordinario penale che civile, competente in materia di opposizione alle sanzioni amministrative comunitarie oppure nazionali, ci deve essere per forza, perché se non c’è le sanzioni vengono comunque annullate secondo le decisioni della Corte di Giustizia, per cui anche la creazione di un giudice diventa una condicio sine qua non per l’applicazione di una sanzione. Quello che è rilevante sottolineare è che più interviene la Corte di Giustizia più enuncia principi più intervengono le istituzioni comunitarie più si erode lo spazio di intervento normativo del legislatore nazionale. Se il legislatore nazionale interviene in modo adeguato anche non attraverso la sanzione penale, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, se la sanzione non penale o extrapenale ha i requisiti dell’efficacia, della dissuasività, della proporzionalità e tutti quei requisiti che vengono prescritti dai legislatori nazionali (si veda la c.d. sentenza sul mais greco del 1989, con cui la Corte di Giustizia aveva condannato la Repubblica ellenica ad adeguare sostanzialmente la propria legislazione di tutela per evitare il caso di acquisto di prodotti dalla Jugoslavia, che venivano commercializzati senza pagare i dazi comunitari come prodotti tipici greci) allora essa impedisce al medesimo legislatore nazionale di interferire con la funzione penale, perché questa deve avere il carattere della sussidiarietà, per cui se non è necessaria, se non è extrema ratio, non può intervenire, viceversa se è necessaria ci sarebbe il vincolo del legislatore a provvedere a quel certo tipo di sanzione. Dunque le opzioni di politica legislativa comunitaria tolgono spazio normativo al legislatore nazionale sia in campo civile che amministrativo che penale: dove c’è un esercizio della potestà normativa delle istituzioni comunitarie non c’è più possibilità di esercizio della competenza normativa concorrente del legislatore nazionale. Questa situazione ci porta al c.d. criterio di competenza o di prevalenza, nel senso che il rapporto tra le fonti nazionali e le fonti comunitarie, che viene impostato dalla nostra Corte Costituzionale come un rapporto di parallelelismo o non di interferenza, nel senso che le due rette parallele non si toccherebbero mai e si toccassero ci sarebbe la c.d. teoria dei controlimiti, cioè qualora ci fossero interferenze sui diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione (che comunque non dovrebbero esserci perché comunque le istituzioni comunitarie hanno recepito i diritti fondamentali che tendenzialmente coincidono con quelli costituzionali) per legge queste interferenze non dovrebbero esserci, in ogni caso nella misura in cui non ci fosse un contrasto, cioè un’interferenza, tra queste due rette parallele, ma il progressivo estendersi, ampliarsi, gonfiarsi dell’ambito normativo comunitario andasse a sovrapporsi al diritto nazionale, lo attraverserebbe – secondo la dottrina costituzionalistica italiana – senza esserne impedita e questo continuerebbe a rimanere in vigore e valido, ma non sarebbe più efficace, da cui la teoria della non applicazione, perché non si può dire né abrogato né annullato, perché questo esiste, sopravvive, per cui sarebbe diritto valido ma non applicabile dal giudice nazionale, che è giudice sia del diritto nazionale sia del diritto comunitario (che peraltro, come prevede la stessa Costituzione, fa parte del nostro ordinamento in quanto abbiamo aderito ad esso col Trattato). Dunque secondo il paradigma nazionalistico statualistico le rette sono parallele, quindi non possono interferire, ma se interferiscono per un’interferenza apparente la fonte interna continua per definizione a produrre una norma valida anche se illegittima dal punto di vista comunitario, per cui in questo caso il giudice nazionale è tenuto ad applicare, sulla base dell’ordinamento giudiziario e dei vincoli costituzionali, la norma, che, per adesione ai Trattati e per competenza è partecipante del diritto nazionale, mentre la Corte di Giustizia sarebbe competente solo sul diritto comunitario. In realtà questa è un’affermazione dietro cui la Corte di Giustizia si è sempre trincerata, che però incontra un’eccezione, secondo la quale la Corte di Giustizia è competente a decidere, quindi la questione è ammissibile, se esiste un collegamento, quindi un interesse ad avere un’interpretazione della Corte di Giustizia, quando la norma comunitaria è espressamente collegata ad una norma nazionale che viene in questione davanti al giudice. In parole povere questo vuol dire che la Corte Costituzionale attraverso il rapporto che è nelle norme indica il contrasto, e non solo più la corretta lettura, della norma sulla base del vecchio art. 177 del Trattato, oggi art. 234, e da qui ne deriva la validità in termini kelseniani della norma, ma la sua inefficacia. Quindi oggi scopriamo una vecchia categoria che era andata in disuso, quella della non coincidenza tra una norma valida, legittimamente emanata sulla base del rispetto della gerarchia delle fonti, e una norma efficace, cioè applicabile, per cui distinguiamo tra validità ed applicabilità della norma.
Quanto detto ci porta a ritornare al discorso sulla sussidiarietà e sulla proporzione. Non dimentichiamoci che siamo nell’U.E. dentro la quale coesistono delle dottrine continentali e delle dottrine di common law, ma non dimentichiamoci neppure che il diritto nazionale (si pensi alla cultura penalistica attuale) ha una teorizzazione piuttosto recente, in quanto l’epoca delle codificazioni risale grossomodo all’Ottocento, per cui sono duecento anni di storia in cui si parla di diritto penale, di esclusività del Parlamento in materia penale, e in cui si dice che la norma penale deve essere prevista (artt. 2 e 202 c.p.) e che la Corte deve regolare l’intera fattispecie con precetto e sanzione e non è delegabile questo tipo funzione. Esistono, però, delle situazioni molto rilevanti sotto quest’ultimo profilo, si pensi alle leggi delega, ai decreti delegati e ai decreti legge: queste soluzioni non toccano tradizionalmente il diritto criminale, ma in molti aspetti lo hanno toccato, come negli anni ’80 con la previsione di cause di giustificazione per gravi delitti approvate con decreti legge. Questa dottrina della in materia di normazione sia sul precetto che sulla sanzione in capo al Parlamento è relativamente recente, perché contempla la previsione di una potestà pubblica o di un diritto soggettivo pubblico tutelato da una norma incriminatrice attraverso la previsione del precetto e la predisposizione di un meccanismo sanzionatorio che viene applicato dal giudice e che come tale definisce la norma come penale secondo un criterio formale. Ma la tradizione giuridica occidentale piuttosto che anglosassone è completamente diversa: si muoveva dall’idea dell’azione esercitata davanti al giudice e successivamente quel giudice riconosceva l’ammissibilità dell’azione andando ad enunciare come conseguenza della decisione l’esistenza di una situazione giuridica che era meritevole di tutela, analogamente a quanto accadeva con le actiones nel diritto romano e a quanto accade ancora oggi nel mondo anglosassone, molto e profondamente influenzato dal diritto romano, non solo in ambito civile ma anche in ambito penale. Per cui l’idea che il diritto soggettivo sia scorporato o scorporabile dalla sanzione o che la potestà penale sia disancorata dalla tutela giurisdizionale e, quindi, prescinda dal profilo della sua giustiziabilità è di creazione piuttosto recente.
Oggi probabilmente siamo in un contesto diverso: proporzione e sussidiarietà sono concetti che dovrebbero valere per il diritto nazionale e che oggi sono stati normativizzati nel diritto comunitario; nel momento in cui sono stati normativizzati nel diritto comunitario valgono, in quanto istituti giuridici che regolano il rapporto tra il diritto comunitario e il diritto nazionale, anche per quanto riguarda il diritto nazionale indipendentemente dal fatto che siano previsti in norme costituzionali. Si dice comunemente in dottrina che l’operatività della proporzione e della sussidiarietà in ambito nazionale è costituita da una retta parallela alla retta che costituisce l’operatività di questi due principi in ambito comunitario, pur tuttavia esiste un’interferenza della seconda sulla prima, nel senso che la Corte di Giustizia ha il potere di valutare se le scelte dio politica sanzionatoria interne sono conformi al modo con cui i beni su cui le istituzione comunitarie, avendone in astratto il potere, hanno deciso di intervenire normativamente regolandole, con la conseguenza che anche la Corte di Giustizia che, quando venga richiesta, può pronunciarsi su questi principi, nel momento in cui interviene rende non più contestabile il rapporto che passa tra la sfera normativa delle istituzioni comunitarie e la sfera nazionale. Quindi più interviene la giurisprudenza comunitaria più vengono regolati i rapporti fra ambiti diversi comunitario e nazionale. In questa prospettiva il problema della teoria delle fonti nel momento in cui si ritiene di unificare i campi attraverso il giudice nazionale diventa un problema di giustiziabilità ed allora occorre non dimenticarsi che l’azione davanti ad un giudice è strettamente ancorata alla situazione giuridica soggettiva che si vuole far valere. Sia nel Corpus Juris sia nel Libro Verde sul Pubblico Ministero europeo, che sono simili ma nel secondo si rinuncia alla parte generale invece prevista nel primo, si escogitava un Pubblico Ministero comunitario che però andava a portare in giudizio qualcuno davanti al giudice nazionale: in questi progetti – per fare una battuta – l’unica cosa a cui non si era pensato era l’unica cosa giusta. Essi, infatti, sono stati criticati per vari motivi, ma l’unica ragione per cui non sono criticabili è quella che prevede che sia il giudice del diritto sostanziale che si applica che dovrebbe giudicare, cioè essi hanno sì distinto tra P.M. comunitario e giudice nazionale (che in quella veste è comunque giudice comunitario in quanto giudica su reati comunitari), ma hanno rispettato il principio di giurisdizione, perché è il giudice del diritto sostanziale che giudica. Questa scelta è stata molta apprezzata dagli inglesi, poiché per loro non è tanto importante il diritto soggettivo (che sia in campo civile che in campo penale è di matrice austriaca e non francese, dei primi del secolo scorso) quanto agganciare l’azione al diritto è molto importante, quindi in questa veste la procedura ed il diritto sostanziale si riavvicinano. Quindi, a questo punto il pensare ad un meccanismo giustiziale di riconoscimento e di scoperta di certi principi non è poi un qualcosa che contrasta con la tradizione giuridica occidentale, per cui ci sarebbero un ritorno dell’azione e la previsione di un suo riconoscimento giurisdizionale, laddove il prodotto di questo riconoscimento giurisdizionale non sarebbe un prodotto legislativo, bensì giuridico, per cui noi di tradizione giuridica precettesca dovremmo stare ben attenti quando facciamo le traduzioni e cominciare a distinguere nuovamente tra legge e diritto (noi ci laureiamo alla facoltà di Giurisprudenza e non di Legge!), in quanto nel common law il prodotto delle decisioni giurisprudenziali è sicuramente diritto, peraltro scritto avente una valenza generale e astratta, perché pur essendo focalizzata su un caso specifico enuncia un principio che vale per l’avvenire, ma lo enuncia soltanto quando è richiesto di verificare se se non ci siano antinomie nell’ordinamento giuridico, che è quello nazionale più quello comunitario, perché nel momento in cui esistono delle antinomie sulla base del concetto di applicabilità, e non di validità, esse vengono risolte. Nel momento in cui il giudice di diritto comune accoglie un principio e lo applica, la sua decisione rappresenta una decisione significativa che può anche costituire un precedente per tutti i giudici, per cui si profila veramente un’ipotesi di decentralizzazione dei meccanismi di decomposizione dei conflitti e una nuova prospettiva di teoria del precedente, che è fondato sull’applicazione di decisioni. Dunque vi è un’influenza reciproca di un ordinamento rispetto all’altro, nel momento in cui, in conformità coi principi enunciati dall’alto, vengono ulteriormente specificate e articolate le questioni di difficoltà.
Recentemente il Professor Bacigalupo, presidente della seconda sezione della Corte Suprema spagnola, nonché professore di diritto penale a Madrid, ha scritto un’apologia della nomofilachia: in Spagna l’istituto della pregiudizialità non c’è, per cui occorre rendere vincolanti le sentenze del giudice della Corte Suprema, nel senso che i giudici si devono adeguare al precedente. Da noi in Italia non c’è questo tipo di vincolo.
La Corte di Giustizia è un organo di nomofilachia? No, probabilmente no: il maggior numero dei casi viene deciso dal giudice di diritto comune, che prima si è chiamato prima nazionale, poi ordinario ed ora di diritto comune. Il giudice di diritto comune applica la legge direttamente, la può interpretare, in caso di dubbi può chiedere una sentenza alla Corte di Giustizia, ma se chiede questa ritiene la richiesta inammissibile l’interpretazione sul punto è finita, quindi può anche esserci un interesse dei giudici nazionali ad occuparsene essi stessi in prospettiva nel momento in cui siano sufficientemente convinti da dei precedenti delle questioni interpretative. L’effetto dovrebbe allora essere quello di una omologazione progressiva dei vari diritti nazionali, ciascuno portando un po’ di esse attraverso delle unificazioni necessarie, a livello di Corte di Giustizia, agli altri. Questo tipo di situazione, ad esempio in ambito penale, è stata definita come problematica: si è detto “adesso le Comunità hanno scoperto i propri beni finanziari e vogliono subito “. Quando Benigni ha sollevato questo dubbio io ero d’accordo, perché si era creata molta velocità in materia penale per l’esigenza di penalizzare a livello comunitario a cui era seguita una doppia velocità caratteristica delle singole Nazioni, sia a livello di crimini tradizionali che a livello di delitti economici che invece si caratterizzerebbero secondo altri criteri (Paliero ha teorizzato l’abbandono del dolo, che è molto problematico nella sua forma eventuale, una nuova costruzione dell’elemento comune che in qualche modo si avvicina alla colpa e che nell’ambito economico è in qualche modo sia una responsabilità per rischio creato oppure una forma di colpevolezza per l’organizzazione, cioè una forma di volontaria responsabilità). Al di là delle questioni di etichettatura degli istituti, c’è un altro fenomeno particolare, nel senso che – come si è detto in precedenza nel contesto dell’illecito amministrativo della depenalizzazione dei vari Paesi, come l’Italia – garantire tipi del diritto sostanziale penale e del diritto processuale è di portata del diritto amministrativo. Invece garantire istituti tipo il divieto di retroattività, personalità della responsabilità, cause di giustificazione, errore di diritto, inesigibilità di un comportamento altrimenti non evitabile, sono state trapiantate dietro la spinta della Corte di Giustizia e della Corte dei diritti dell’uomo dal diritto penale al diritto sanzionatorio amministrativo e da questo diritto sanzionatorio amministrativo vengono ribaltate nell’ambito del diritto penale interno attraverso la disapplicazione degli istituti contrari fatta da parte del giudice penale.
Un caso tipico che interessa proprio il problema del parallelismo delle fonti è quello di un certo avvocato italiano si era laureato in Germania, dove aveva superato l’esame da procuratore, aveva poi iniziato a lavorare in Italia, dove era stato sottoposto a processo penale per esercizio abusivo della professione.
Dall’ambito amministrativo comunitario i principi vengono poi portati all’ambito del penale comunitario. A questo punto si è detto che l’art. 5 del Trattato, che stabilisce il principio di attribuzione specifica delle competenze implicitamente ma che impone agli imputati l’obbligo di collaborazione e, quindi, l’obbligo di fedeltà – come stabilito dalla corte di Giustizia – si caratterizzerebbe per attribuire per un verso una competenza esclusiva alla Comunità e per l’altro una competenza concorrente. Nel campo dei concetti di sussidiarietà e di proporzionalità si è detto che il principio comunitario di sussidiarietà opera come limite per la normazione penale interna soltanto però nel caso in cui la competenza comunitaria sia una competenza concorrente con la competenza dei singoli Paesi per certe materie, mentre invece il principio di proporzionalità è caratteristico sia della competenza esclusiva della Comunità che della competenza concorrente, nel senso che in entrambi i casi il principio di proporzione imporrebbe, e vieterebbe quelle situazioni che non corrispondono al medesimo principio, che la scelta di adottare delle sanzioni penali sia idonea rispetto ai risultati comunitari che devono essere raggiunti, sia indispensabile, cioè sia extrema ratio, non sia cioè altrimenti evitabile, e che non debbano esistere dei mezzi non penali, che sono afflittivi, per raggiungere lo stesso risultato. A questo punto si è creata proprio a livello di indicazione anche di creazione giurisprudenziale una teoria che è stata definita strumentalistica, economicistica, cioè costi e benefici, nel senso che le indicazioni della Corte di Giustizia, la quale può disporre delle perizie anche ai fini di valutare la conformità al Trattato di un avvenuto esercizio di una potestà anche in materia penale da parte dei singoli Paesi, dovrebbe rispondere a questa logica e di ciò se ne è lungamente parlato in ambito comunitario: un Consiglio europeo del 12 dicembre 1992 di Edimburgo ha stabilito, sulla base anche di certa giurisprudenza della Corte, che “il problema dei motivi per concludere con obbiettivo comunitario non può essere sufficientemente analizzato dagli Stati membri, può essere meglio analizzato a livello comunitario e devono essere comprovati da indicatori qualitativi o se possibile quantitativi”; la Commissione europea, con una Comunicazione al Consiglio e al Parlamento del 27 ottobre 1992 aveva parlato della previsione di test di efficienza comparativa tra la realizzabilità degli scopi comunitari a livello dei singoli Stati membri; c’è poi stato un Accordo interistituzionale di Lussemburgo dell’ottobre 1993; un VII Protocollo del Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997; una XXIII Dichiarazione sul futuro dell’Unione contestualmente al Trattato di Nizza; si è parlato di verifiche cumulative negative e positive sull’insufficienza del ricorso a legislazioni nazionali per l’aggiornamento degli scopi prefissati e di un test positivo sulla prognosi di una migliore capacità di intervento della legislazione comunitaria, ecc.. Occorre precisare che rispetto alle Corti Costituzionali nazionali ci sarebbe un limite estremo di sindacabilità delle scelte legislative, nel senso che le Corti Costituzionali avrebbero un divieto di fare giudizi di fatto relativi all’efficacia delle leggi (altra peculiarità del diritto comunitario). A ciò si aggiunga l’art. 33 del Trattato C.E.C.A.: “L’esame della Corte non può vertere sulla valutazione dello stato risultante da fatti e circostanze economiche in considerazione dei quali sono state prese e dette decisioni e raccomandazioni, salvo che siano mosse accuse ad alta autorità per aver commesso uno sviamento di potere, di aver misconosciuto in modo palese disposizioni del Trattato con ogni forma giuridica concernente la sua applicazione”.
Dunque, il profilo futuro dei criteri anche di controllo della verifica del rispetto sia della sussidiarietà che della proporzionalità diventa un profilo che appartiene sicuramente al discorso strumentale, ma è anche un discorso che caratterizzerà l’evoluzione del giudice di diritto comune.
Occorre purtroppo tralasciare, per ragioni di tempo, un discorso importantissimo, che è quello del mandato d’arresto europeo, su cui ci sono degli studi molto attenti sul fatto che queste leggi interferiscono sul diritto penale sostanziale, nel senso che creano un’estensione, sotto certe forme, della territorialità, dietro la veste apparente del diritto processuale, della cooperazione tipica del Terzo Pilastro, sulla base di una distinzione tra diritto sostanziale e diritto processuale che peraltro non è condivisa da nessun Paese europeo.
Si dice comunemente che le sanzioni penali sono quasi tutte indirette, essendo pochissime le sanzioni che organizza direttamente la Commissione europea. Si è detto anche che l’art. 172, che prevede la giurisdizione della Corte di Giustizia sulle sanzioni, è stato letto, ad esempio da Riondato, come norma cardine per dimostrare la potestà penale delle istituzioni comunitarie, perché – si dice – se la Corte di Giustizia può giudicare sulle sanzioni abbiamo affiancato a potestà, discussa, di prevedere dei divieti la possibilità di prevedere delle sanzioni e la loro giustiziabilità, non però la loro applicabilità, perché il giudice penale, ad esempio, applica sì le sanzioni, mentre la legge le commina, invece nel campo del diritto comunitario le sanzioni amministrative o parapenali (definite anche penali dalla Corte dei diritti dell’uomo per distinguerle da quelle risarcitoria, laddove vengono definite penali quelle sanzioni dal carattere afflittivo, ristorativo e soprattutto retributivo e dall’efficacia astratta e generale, un’efficacia di prevenzione generale e speciale, per lo più generale). Dunque l’art. 172 complicherebbe il campo, nel senso di dare anche ad un giudice che non è quello dell’applicazione, perché l’applicazione la fa la Commissione europea, la possibilità di giudicare sulle sanzioni. Nell’ambito delle sanzioni amministrative comunque esiste da parte del Regolamento una disciplina specifica sul rapporto in materia di concorso apparente tra le sanzioni di natura amministrativa comunitarie e quelle nazionali: tendenzialmente si applicherebbero entrambe, addirittura il Regolamento prevede la possibilità del giudice amministrativo o del giudice ordinario davanti cui si oppongono le sanzioni amministrative di sospendere il giudizio in attesa della definizione di un processo penale, di cui deve tener conto nel momento in cui decide la quantificazione di una sanzione. C’è un certo ibrido sulla discrezionalità dell’Amministrazione oppure sulla discrezionalità della Commissione nel momento in cui prevede in via anticipata la procedibilità delle sanzioni amministrative, ma questo è un problema difficile, di cui non c’è tempo di parlare.
Quindi, vi sarebbero sostanzialmente delle facoltà dei giudici nazionali di intervenire con la sanzione penale a condizione che la sanzione penale sia già prevista per le materie nazionali analoghe, in virtù cioè del principio di assimilazione (art. 280 del Trattato), per il quale il legislatore nazionale deve prevedere in certi casi la medesima tutela per i beni di rilievo comunitario, che non sono solo più gli interessi finanziari, ma possono anche essere proprio i beni delle attribuzioni delle istituzioni comunitarie. In certi casi il legislatore nazionale avrebbe un obbligo di ricorrere ad una sanzione dissuasiva qualora le altre disposizioni interne non siano sufficienti; in altri casi vi sarebbe un obbligo di dare una soluzione dissuasiva che sia comune, cioè prevista nello stesso modo nei vari Stati. Questo obbligo, in rispondenza alle norme del Trattato, obbligo che viene esercitato anche a livello comunitario, può essere esercitato in vari modi: o prevedendo specificamente delle sanzioni a livello centrale, quindi a livello della Commissione e di Consiglio, oppure, invece, dando delle indicazioni di massima, con un regolamento o con una direttiva, al legislatore nazionale, che poi è tenuto ad attuarle, oppure prevedendo semplicemente una libertà del legislatore nazionale di utilizzare gli strumenti che ritiene più opportuni.
A questo punto torniamo al discorso penale. Spesso la Corte nazionale, interna, ha la possibilità di fare ricorso ad una tipologia di sanzione che viene reputata adatta, la quale deve però rispettare i criteri della sussidiarietà, della proporzionalità e dell’efficacia. Però, nei casi in cui sia stata esercitata bene una potestà in materia penale da parte del legislatore interno nazionale, questa potestà è esaurita secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, nel senso che non può più essere esercitata la medesima potestà, cioè una disposizione che tutela un certo bene non può più essere modificata, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia. Se viene fatta una legge che tutela in misura minore un bene (una situazione giuridica soggettiva come la concorrenza) che è considerato primario, rilevante, non appartenente in via esclusiva all’Unione ma rientrante fra le materie di cui la comunità è attributaria e sulla quale esiste una competenza concorrente, essa dovrebbe essere disapplicata dal giudice se questi se la sente di dare una diretta lettura delle norme comunitarie in questo senso o altrimenti adeguandosi ai principi della Corte di Giustizia, a condizione che questa si sia pronunciata proprio su quella situazione pre-normativa, di fatto. Quindi, se il legislatore penale ha invaso una sfera che non è sua, la norma penale dovrebbe essere immediatamente non applicata, dichiarata inefficace, perché contrastante con la norma comunitaria, invece se ha esaurito il proprio potere non può chiaramente ritornarvi, ad esempio abrogando una norma penale che verrebbe rivista e comunque dovrebbe essere dichiarata inapplicabile. È vero che c’è la dottrina contraria che ritiene che soltanto le situazioni giuridiche soggettive dei privati possono essere meritevoli di tutela davanti alla Corte di Giustizia e che invece non siano meritevoli di tutela le situazioni giuridiche soggettive di diritto pubblico; è anche vero che – secondo la Corte di Giustizia – una situazione giuridica di cui è parte attiva la Comunità, che peraltro è anche ammessa a costituirsi parte civile nei processi penali allo stesso modo delle istituzioni pubbliche (anche se a rigore dovrebbe corrispondere un diritto soggettivo) sarebbe azionabile anche davanti alla Corte di Giustizia. Quasi sempre la Corte di Giustizia, nel momento in cui fa salva la potestà penale nazionale, afferma che in via di principio nulla osta che il legislatore nazionale emani o abbia emanato una norma penale in materia, cioè autorizza ora per allora nelle proprie sentenze il corretto esercizio da parte del legislatore, però ancorando sempre questo tipo di giudizio al modo con cui è stato esercitato il potere di punizione, in senso penale, da parte del legislatore nazionale. Dunque viene fatta salva la potestà nazionale di intervenire in materia, per cui in buona sostanza la Corte di Giustizia riconosce la “libertà” del legislatore nazionale quando si comporta bene, cioè fa salva la sua facoltà di fare norme in materia penale. Allora chi è che decide? Qual è la competenza? La Corte di Giustizia decide sui poteri che ha l’Unione, ma chi è il titolare dei poteri astratti di normazione nelle materie in cui c’è competenza esclusiva o concorrente dell’Unione europea?
Non si tratta di poteri esercitati, precetto più sanzione; non sono previste dai Trattati delle possibilità di istituire degli organi giurisdizionali; la Corte non impone alla Comunità i mezzi, non li impone in certi casi neppure agli ordinamenti nazionali, non sono applicabili le disposizioni successive nazionali contrastanti al diritto comunitario anche in materia penale; è ammesso il principio di retroattività o la riviviscenza di disposizioni penali nel momento in cui sono commessi i fatti (si veda il falso in bilancio, rispetto a cui molti teorizzano la possibilità di applicare retroattivamente l’abrogazione o la dichiarazione di incostituzionalità delle norme qualora contrastanti col diritto comunitario perché non garantiscono a sufficienza il bene della trasparenza che vuole essere garantito sotto il profilo concorrenziale della Comunità); la tutela penale è una tutela centrata; il legislatore non era libero di tornare su questa scelta; la Corte di Giustizia non è intervenuta sull’argomento, mentre la Corte Costituzionale, dando una certa lettura, sulla base del nuovo art. 117 potrebbe o non potrebbe intervenire.
Dunque i principi fin qui emersi sono i seguenti: le leggi in contrasto col diritto comunitario non dovrebbero essere applicabili; più il diritto comunitario c’è, più c’è probabilità che le leggi nazionali siano in contrasto con esso e meno spazio c’è per successive leggi nazionali che interferiscono con la stessa materia; le leggi precedenti possono essere disapplicate, come pure quelle successive, quindi sarebbe preclusa la previsione di nuove norme penali modificatrici delle situazioni normative conformi al diritto comunitario; rievocazione di sanzioni penali incompatibile con i diritti fondamentali; l’applicazioni di norme nazionali in norme penali incompatibili (ad esempio si è acquisita nell’ambito della Corte di Giustizia una diversa nozione di recidiva).
In un giudizio del 13 luglio 1990 davanti alla Corte di Giustizia europea contro la Germania, l’Avvocato generale Jacob aveva chiesto alla Corte di Giustizia di dargli definizione della distinzione tra diritto penale e non. La soluzione della Corte sembra banale, invece merita una riflessione: essa non ha dato una definizione ed un suo componente, ormai in pensione, poco prima di morire ha confidato a degli amici di cosa si era parlato in camera di consiglio. Ad ogni modo la Corte avrebbe dovuto dare la distinzione richiestale.
La vicenda riguardava due magistrati italiani molto noti, perché sono sempre sui giornali, di cui uno è iscritto ad un partito politico e l’altro è un massone, si sono visti comparire sul giornale ed hanno agito davanti alla Corte di Giustizia per il risarcimento. Il magistrato iscritto al partito è riuscito ad avere un risarcimento miliardario con la sentenza della Corte di Giustizia; nei confronti dell’altro, che è massone, è stato detto che non era ben chiara la circolare del C.S.M. dove veniva stabilito che non si può essere iscritti alla massoneria, così condannando lo Stato italiano a dare un’ingente somma a questo giudice come indennizzo. Al di là di questa vicenda, si vuole evidenziare che la Corte di Giustizia non incide sul diritto, non lo modifica, ma enuncia un principio che soltanto trasversalmente può essere fatto valere davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il componente di cui si stava parlando ha riferito che la Corte non ha enunciato la distinzione e non ha detto che le istituzioni comunitarie sono competenti anche in materia penale, e la Corte era libera di dirlo, perché altrimenti avrebbe potuto qualificare una nozione di penale in cui rientravano le sanzioni amministrative, così scoraggiando l’armonizzazione indiretta dei diritti penali, perché nel momento in cui fosse stato detto che la Comunità è abilitata a fare norme penali immediatamente si sarebbe solo parlato di quali reati inserire. Effettivamente il ricorso ad un’organizzazione penale pone problemi teorici molto importanti, sicuramente attraverso il diritto penale nazionale, via via articolato e modificato e armonizzato, si ottiene un lavoro più efficace e più consono alle varie tradizioni giuridiche, che poi tendono a conformarsi, mentre con una scelta centrale si porrebbe davvero un conflitto tra il fare una convenzione o una direttiva oppure legiferare direttamente, con predilezione di questa seconda scelta. Quindi, il problema è quello dello snaturamento della Comunità e, soprattutto, se la Corte di Giustizia riesce in linea teorica a fare questa analisi, questo sindacato sulla sussidiarietà, sulla proporzionalità e sull’efficacia, questo lavoro verrebbe a questo punto fatto dal legislatore comunitario. Ma se i legislatori nazionali non riescono a capire se è opportuno prima fare una norma amministrativa o civile o rispondere se il diritto penale si sostituisca o si aggiunga al diritto extrapenale può la Commissione fare un lavoro così raffinato?
Oggi il penale non è ancora oggetto di competenza, è sostanzialmente esercitato.
Sul discorso del parallelismo delle fonti c’è una sentenza del Tribunale di Milano del 1° marzo 2001 sull’esercizio della professione abusiva di avvocato in virtù dell’art. 348 c.p.. Il giudice qui doveva assolvere l’imputato perché in materia c’erano delle espresse indicazioni normative comunitarie che equiparano le professioni e prevedono tutta una serie di obblighi che il legislatore italiano aveva attuato solo parzialmente. Ma il giudice si domandava con quale formula poteva assolvere l’imputato, per cui ha ritenuto, secondo quella che è l’opinione maggioritaria, di applicare anziché l’art. 51 c.p., che avrebbe scriminato il reo, l’art. 3 c.p. sull’obbligatorietà della legge penale: “La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini e stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno e dal diritto internazionale” (I comma). Il giudice ha così ritenuto che sostanzialmente si ponga il problema di quale sia il destino della disciplina contrastante col diritto comunitario, cioè è abrogata, annullata o va semplicemente disapplicate? La dottrina dice che, quando c’è una successione cronologica tra due disposizioni vertenti sulla stessa materia, la precedente è abrogata, purché le due norme siano pariordinate, cioè appartengano alla stessa fonte, perché qualora la fonte sia sovraordinata si può parlare di abrogazione o di annullamento. Per ora la Corte di Giustizia ha detto “non applicazione”, però non ha mai esposto un regime unico per i vari Paesi europei: ad esempio in Germania ci sono principi completamente diversi in materia di abrogazione e di annullamento delle legge. Dunque certi Paesi potrebbero ritenere che le norme contrastanti sono definitivamente espunte dall’ordinamento giuridico, anche se la soluzione pragmatica è quella del riferimento ad una dottrina che la Corte Costituzionale italiana ha più volte richiamato e che è quella delle fonti-fatto, credibile però fino ad un certo punto.
Occorre tenere conto che nell’ambito dell’ordinamento comunitario non esistono, nel senso che non sono normati nei Trattati e non sono neppure utilizzati, alcuni principi invece tipici del nostro ordinamento come: il concetto di abrogazione; il concetto di invalidità distinto da quello di efficacia; la teorica del gravame; il principio di gerarchia delle fonti (le fonti comunitarie non sono in un rapporto gerarchico, ma sono in un rapporto di concorrenza eventuale); il concetto di giudicato (esiste quello di ne bis in idem, ma non quello di giudicato).
Il problema di fondo è che abbiamo sempre pensato alla legge come frutto di una volontà desiderata, mentre invece, data l’alternanza di fonti, dal punto di vista operativo la decisione del singolo giudice non è un qualcosa di imprevisto ma non è un qualcosa di espressamente previsto, anche a livello di norma penale, cioè tutti le integrazioni e i precetti che avvengono a livello comunitario, ma anche a livello regionale e a livello amministrativo, cioè in ogni settore, non è previsto dal legislatore penale. Il problema è che il reato viene innanzitutto costruito in modo diverso, ma poi c’è una dimensione dell’illecito, che è composta, nel senso che ogni reato ha sì una struttura ma poi si sviluppa in senso spaziale ed ha una durata giuridica a livello teorico (si pensi alla prescrizione): questa è la disciplina dell’illecito, cioè esiste uno sviluppo concreto che non è solo lo sviluppo disegnato in una certa norma. Allora succede, ad esempio, che i singoli Paesi hanno criteri diversi sul locus commissi delicti, si pensi alla Germania dove il principio universalistico tedesco fa sì che teoricamente il P.M. tedesco può iniziare un’azione penale semplicemente dicendo “Io sono competente”, per cui se non si uniformano i criteri di territorialità, cioè se non si emana una norma che incida sui criteri di territorialità sostituendo alla locuzione “territorio dello Stato” la locuzione “territorio dell’Unione” non si risolvono i problemi, con la conseguenza che una persona è più o meno libera di scegliere dove essere processata, perché in qualche modo c’è il diritto del suo Paese a riuscirsi ad agganciare a questo fenomeno.