I REATI PRESUPPOSTO DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE
ED I RAPPORTI CON LA RESPONSABILITA’ PENALE DELLA
PERSONA FISICA.
Cenni sull’oggettività dei reati configurati come evento naturalistico nella struttura degli illeciti amministrativi previsti e sanzionati a carico degli enti collettivi per effetto della Legge delega 29.09.2001 n.300 così come disciplinata dalla D.Lgs. 08.06.2001 n.231.
1.Premesse sulla residualità della trattazione. Sfondi problematici e istituti utili. Enfasi sulla misura unitaria dell’illecito.
Per quanto riguarda i punti da cui storicamente trae origine la ragione dell’esame del concorso delle responsabilità e del concorso nelle responsabilità, si può – e lo vedremo tratteggiato in seguito- per quanto riguarda il primo punto toccare il tema della cosiddetta disposizione sull’infedeltà patrimoniale, che è uno degli elementi sintomatici dell’influsso e (diremmo noi) della natura tendenzialmente enciclopedica delle fattispecie penali in materia, ove la responsabilità a quel titolo presuppone la prefissazione di criteri di regolare adempimento degli obblighi degli amministratori delle società controllanti ovvero dei gruppi di controllo in relazione con quelli delle società controllate e correlativamente dei rapporti con le figure di controllo e questi enti.
Il secondo punto coinvolge il complesso tema degli elementi normativi quali ad esempio il danno rilevante, le connessioni del dolo con il complesso tema della causalità ed in particolar modo il nesso di causalità che andrebbe – e lo suggeriremo nel testo – studiato anche con riferimento al suo rapporto con il dolo (il tema delle riflessioni delle concrete modalità dell’atteggiarsi del nesso di causalità delle sue forme astratte e concrete in relazione all’elemento psicologico).
Col terzo punto, vuole necessariamente prescindere – come correttamente osservato da più autori e da noi in separata sede[1] rilevato – dalla “ambigua”[2] necessità di collocazione della tipologia della responsabilità sotto il profilo della sua vocazione naturale tra il cosiddetto tertium genus ovvero il carattere amministrativo ovvero la cosiddetta natura penale della responsabilità. Noi propendiamo per la natura seccamente amministrativa della responsabilità, con la conseguenza dell’integrale applicabilità dello statuto (prevista dalla L. 689/1981) sull’illecito amministrativo, con le connessioni relative all’elemento psicologico.
Per il quarto tema (connessioni responsabilità penale e responsabilità tributaria: v. nota1) valgono le considerazioni appena fatte, mentre sui codici di comportamento la meditazione ricade sulla – per un verso – natura non scriminante del rispetto dei medesimi, per l’altro per considerazioni molto più generali relative alla – nella misura in cui ne è consentita l’autonomizzazione – progressiva eventuale crescita dei coefficienti oggettivi della colpa con un reticolo di responsabilità innovative che, ove si giungesse ad un eccessivo dettaglio dei suddetti codici, parallelo ed in aggiunta rispetto ai codici sindacali o comunque approvati in linea generale nel contesto dell’ordinamento si correrebbe il rischio di un esorbitante ampliamento dei cd. profili oggettivi della colpa, sui quali rinviamo alla miglior dottrina[3]. Di ciò in ogni caso infra.
Per quanto riguarda il tema appena accennato si dedicheranno separate riflessioni in materia di indicazioni sui rischi delle cd. figure professionali anche nuove per quanto concerne gli organi deputati alla sorveglianza in materia di responsabilità amministrativa per reato.
Le considerazioni che seguiranno in definitiva ruoteranno intorno a: a) modalità di nascita e di costruzione dei caratteri oggettivi e strutturali dell’illecito tipico commissibile dalle figure societarie e dalle figure personificate delle società o non personificate degli enti sotto i profili delle varie responsabilità; b) svilupparsi dei nessi eziologici a causa attiva o a causa omissiva con riferimento ai fatti consequenziali vietati da cui discendono i vari tipi di responsabilità, da quelle contrattuali a quelle amministrative, da quelle tributarie e a quelle penali (vedremo il tema subito dopo); c) necessità di una costruzione unitaria sotto il profilo degli elementi costitutivi e strutturali dell’illecito, che funzioni per i vari titoli di responsabilità e consenta di raffrontare le varie forme di illecito muovendo da elementi strutturali omologhi in modo tale che sia possibile un raffronto e lo studio di eventuali profili di concorso tra i medesimi e la sovrapposizione delle strutture di illecito onde evitare illegittime duplicazioni; d) sovrapposizione di queste note strutturali (in certi casi giustapposizione) che consenta in maniera più stringente di osservare come da una struttura di illecito si possa passare ad un’altra struttura di illecito; e) come si atteggi l’insieme dei nessi eziologici fra le condotte e gli eventi in modo tale da – appunto, partendo da questa nozione unitaria dell’illecito – giungere alla stringente applicazione del principio di direzione, vale a dire di carattere diretto, del nesso eziologico.
Sommessamente osserveremo come, purtroppo, talvolta in certe aperture dottrinarie e in certi insistiti orientamenti giurisprudenziali, si faccia ricorso a pseudoconfigurazioni di elementi normativi non espressamente previsti dalla legge ovvero a forme di ampliamento di nessi eziologici paranormativi o normativi, trasferendosi a vere proprie creazioni di forme di causalità non tipicizzate che potremmo definire “nessi eziologici per trascinamento normativo”.
- Premessa. Basi istituzionali civili delle responsabilità intrasocietarie e societarie alla luce della riforma
I momenti di riflessione di queste considerazioni (che appunto sono organizzate, per così dire, a ritaglio, in negativo rispetto alle puntuali trattazioni istituzionali degli istituti), coinvolgono un esame per così dire “gestalltico ” dei caratteri di fondo, delle linee tendenziali delle forme di responsabilità ricorrenti che siamo abituati a conoscere (non apertamente approfondite nei temi che ci occupano) muovendo dal diritto civile. Forme analoghe ed implicite di organizzazione teoretica dell’individuazione delle responsabilità, sia pur con i connotati strutturali – ad esempio nella materia penale, della struttura del reato e, per derivazione, anche se con maggiori difficoltà e con una certa ritrosia, direi, nel contesto dottrinario e pretorio odierno – possono, per un verso manifestare delle matrici comuni, per l’altro delle sottili e impercettibili differenze che, tuttavia, andrebbero eliminate o quantomeno riavvicinate a livello dottrinario.
Brevi esempi degli istituti che conviene accennare e su cui con estrema sintesi si ritornerà nel testo: si pensi al curioso andamento causale della responsabilità prevista dall’art. 1218 c.c. (responsabilità del debitore) ove il legislatore presume una forma di causalità normativa fra l’obbligo assunto appunto dal medesimo e il danno che deriva dal mancato assolvimento dell’obbligo, dove l’enfasi può ricadere sulla parola “esattamente” riferito alla prestazione dovuta. Parliamo di normatività, perché non è – se non ripresa successivamente, in linea strutturale in materia di responsabilità extracontrattuale – disegnata l’ enfasi sulla causalità reale, in modo che il nesso di causalità normativa venga escluso dalla esistenza – sempre in tema di 1218 c.c. – di una causa esterna che genera l’impossibilità dell’adempimento della prestazione, ove il debitore, per così dire, non versi in illecito, vale a dire non l’abbia causata egli stesso, munendo la causazione di un coefficiente colposo rimproverabile, nel qual caso l’impossibilità dovrà a lui addebitarsi.
Un effetto di questa individuazione della causalità può aversi, fra i tanti, all’art. 1221 c.c. (effetti della mora sul rischio), ove l’inadempimento del debitore non scusabile nel modo appena descritto, vale a dire attraverso un evento incontrollabile che per così dire va ad interrompere il nesso di causalità, si pone in una situazione di rischio, dovuta alla sua mora, qualora intervenga un fattore esterno a lui certamente non addebitabile, che coinvolge l’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, a meno della prova dell’irrilevanza sotto il profilo causale di questo elemento estraneo che genera l’impossibilità della prestazione. L’art. 1222 c.c. stabilisce una connessione molto meno complessa in materia di obbligazioni negative, ove sarebbe interessante studiare se vi è un’estensione del rischio della responsabilità, in quanto sembrerebbe che all’evento/mancato adempimento dell’obbligazione si pervenga in modo automatico attraverso la violazione dell’obbligo negativo di non fare.
L’art. 1223 c.c. che è norma cardine si limita ad individuare l’evento-danno sul fondamento tuttavia del principio cardine (che sorge e che poi si ripresenterà anche in materia di art. 2043 c.c.) del concetto di danno ricollegabile al fatto vietato come conseguenza immediata e diretta [4].
Il 2043 è sintetico nella definizione della connessione fra il fatto doloso o colposo ed il danno ingiusto risarcibile, con riferimento alla pura e semplice parola “cagionare” che ci rimanda alle omologhe espressioni caratteristiche del coefficiente tipico del nesso eziologico dei reati i o illeciti penali cd. a forma libera (pensiamo al caso dell’omicidio). Un punto su cui si deve riflettere, tuttavia, è il seguente.
La responsabilità penale è soggettivamente ancorata alla commissione volontaria o negligente di un fatto. Espressamente deve essere prevista ai fini della responsabilità penale la pura e semplice rimproverabilità od evitabilità del fatto (vedremo poi il tema del carattere soggettivo ovvero oggettivo dei cosiddetti “coefficienti colposi”) [5]. In materia civile il principio è di natura diversa e tuttavia è interessante ricordarlo, ed in particolar modo ricordare la norma cardine della responsabilità colpevole, che in qualche modo va ad influenzare l’estensione della responsabilità non dolosa in materia penale sotto il profilo anche dell’individuazione dei temi della colpa e dell’indebolimento del rapporto fra elemento psicologico, anche colposo, con le concrete modalità dell’atteggiarsi dei nessi eziologici.
L’art. 1225 c.c., rubricato “Prevedibilità del danno”, recita “se l’inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore “ (e ci limitiamo ad osservare – e lo rifaremo – che il dolo del debitore ha una natura ed un carattere tendenzialmente non omologabile a quello penale), “il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione”.
Ora, è chiaro che in questo momento l’art. 1225 c.c. va ad occuparsi del danno in materia di responsabilità contrattuale. E verosimilmente il tema del danno nella responsabilità contrattuale è un tema che non si identifica – dalla struttura del titolo – con l’obbligazione dedotta nell’obbligazione, ma ne costituisce – per così dire – un elemento ulteriore come comprova la quantificazione del danno ex artt. 1222 o 1223 o 1224 c.c. nelle obbligazioni pecuniarie. Ora però vorremmo limitarci a focalizzare, in via di pre-introduzione dei temi, il punto della prevedibilità del danno – che qui configuriamo come evento dell’illecito civile ( e questo sarà importante ai fini extracontrattuali) – al tempo di nascita dell’obbligazione. Direi, quì in maniera lungimirante il diritto civile non rimprovera un evento (sanzionato attraverso la cd. sanzione civile o pena civile a scopo ristoratorio o di indennizzo) per il puro e semplice fatto che l’obbligato (in questo caso contrattualmente, ma il discorso vale anche per la responsabilità extracontrattuale, ma questo interesserà poi la società in una situazione di rischio colpevole dalla quale derivi tout court la sua responsabilità per il danno – vale a dire l’evento civile, in questo caso secondo (2°) evento rispetto alla prestazione dedotta nell’obbligazione civile e quindi evento che si aggiunge al primo evento dedotto nella prestazione –) o per il semplice fatto che l’obbligato abbia violato la propria obbligazione in maniera colpevole. Il danno viene riportato e pertanto è ricollegato alla responsabilità di chi a ha violato l’obbligazione non in via prettamente eziologia, ma viene per così dire ancorato un coefficiente di non imprevedibilità del medesimo, vale a dire alla non inappartenenza del pregiudizio ad una ragionevole prevedibilità. Diremo che l’Antolisei, nel correggere la automatica eziologia derivante dalla rigorosa applicazione della teoria della condicio sine qua non si è discostato dal modo di presentarsi della responsabilità civile sotto il profilo della calibratura del nesso eziologico. In questa misura ci si muove su un piano oggettivo e non su un piano soggettivo, ove il legislatore fa propria una modalità di ordinario (e non quindi straordinario) imprevedibile atteggiarsi dell’eziologia dei comportamenti a prescindere dal tasso o dall’intensità della negligenza, dell’imprudenza o dell’imperizia, e se si vuole, dai profili della cd. colpa specifica ovvero anche normativizzata in regolamenti, ordini e discipline (che pertengono al profilo oggettivo della causalità in materia di illecito).
Vedremo in seguito la problematica dell’ancoraggio necessario al carattere diretto ed immediato della relazione causale, che si interrompe, anche per gli illeciti tributari, per gli illeciti amministrativi (sia amministrativi in senso stretto che amministrativi da responsabilità per reati dell’ente), in base all’immediato e diretto iatus della conseguenza eziologica.
Sempre secondo questa linea si spiega l’art. 1227 c.c. che attenua la responsabilità per il danno nel ipotesi del concorso al cagionamento del medesimo – sempre sotto il profilo eziologico – del fatto colposo del creditore, ove l’incidenza ed il contributo diversificato del soggetto debitore e del soggetto creditore non sono collegati da un legame psicologico intercorrente tra i due soggetti. Qui il diritto civile si articola secondo la teoria della indipendenza, per così dire, delle cause che non hanno però reciprocamente un effetto esclusivo dell’evento inteso come elemento unitario, ma dove si perviene ad una acuta separazione – anche difficile da quantificare – del danno unico in danno frazionato, ove ad ogni frazione di danno corrisponde un contributo causale. Nell’ambito della responsabilità penale il tema chiaramente può essere ripreso per quanto riguarda la quantificazione del danno se parallelamente vi è l’esercizio dell’azione civile; il tema può semmai essere influenzato ai sensi dell’art. 132 o 133 del c.p. ma non tocca il profilo della rilevanza, sia pur parziale, della diminuzione del cd. contributo causale sul fatto vietato. Vanno infatti tenuti distinti i profili del danno e i profili del fatto vietato. In ambito (penal) societario il profilo si complica se si esaminano ad esempio i reati dall’art. 2621 c.c. in poi .
- Cenni ad alcuni riflessi del danno civile quale elemento normativo di fattispecie penali societarie.
Ove i reati siano ancorati, come sviluppato dalla recente riforma, al dato del danno ai soci, del danno sociale, con una unificazione nella nozione di danno che va a rappresentare un elemento costitutivo del reato in parecchi episodi, a cui sinteticamente e per brevità rinviamo, quì è difficile una distinzione sotto il profilo del danno, che è ancorato causalmente solo secondo criteri civili ed il profilo del fatto vietato (vale a dire dell’evento di reato) che invece consegue naturalmente e indipendentemente dal concorso del debitore o comunque dell’avente titolo alla tutela o, se vogliamo, dal pregiudizio che giunge al soggetto passivo del reato, inteso come titolare del, o di uno, degli interessi protetti, o dei beni tutelati dalla norma [6].
Nel capitolo successivo apposito si osserverà come, per giustificare le forme di responsabilità contrattuale in materia societaria (ma anche extracontrattuale), ci si deve riferire agli istituti non solo dell’art. 2049 c.c. (responsabilità dei padroni e dei committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei dipendenti adibiti alle incombenze) o dell’art 2050 c.c. (responsabilità per attività pericolose, che è ancorata alla condotta relativa a non aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno e chiaramente è un coefficiente oggettivo della condotta, pensiamo al tema della circolazione dei veicoli) o al tema del 2051 c.c. (ove la responsabilità è in qualche modo connessa ad una colpa di organizzazione, poiché chiaramente, ove il caso non sia fortuito, l’evento danno rientra in un tema di astratta prevedibilità che poi il magistrato in fase penale riconduce ad una situazione di prevedibilità).
I punti comunque ruotano intorno al 2043 c.c. già citato, e intorno ai temi comunque centrali dell’imputabilità del fatto dannoso (con tutte le correlazioni, ad esempio, del 2046 c.c. (principio del divieto di versare in re illecita, ad esempio qualora sia stato causato lo stato di incapacità).
Non possiamo esimerci nel testo da un riferimento al centrale 2055 c.c. in materia di responsabilità solidale : “Se il fatto dannoso è imputabile a più persone tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno.”. E viene previsto poi il regresso di colui che ha risarcito il danno verso gli altri in proporzione alla gravità della rispettiva colpa e all’entità delle conseguenze – direi – sulla presupposizione della possibilità di una graduazione dell’incidenza causale, con tutti i problemi correlativi che meriterebbero un separato approfondimento.
Vorremmo unicamente focalizzare l’attenzione sulla imputabilità a più persone ove per ‘imputabile’ qui si intende casualmente determinato da più persone sulla presupposizione che il fatto dannoso sia in qualche modo unificabile, concepibile come una realtà naturale misurabile unica e venga ad essere determinato in via diretta dall’attività di più persone. Riteniamo in questo caso che ci troviamo di fronte ad una situazione verosimilmente identica a quella costituita dalla zona disciplinata ed organizzata normativamente dall’art. 110 e 115 del c.p. con l’ammissibilità della nozione di contributo causale a condotta frazionata, ove è sufficiente aver posto in essere uno dei “pezzi” della “condotta vietata” per essere in qualche modo attinti dalla responsabilità delle conseguenze immediate e dirette purché sussista una relazionalità causale col fatto, diretta e originata dalla condotta di ciascuno. Il problema della causalità per fatti indipendenti fra di loro non concertati in materia di 2055 andrebbe tuttavia ampliata.
Il punto centrale è quello dell’individuazione del tema della responsabilità solidale, che è una responsabilità di carattere civile che però ritroveremo in materia di responsabilità da fatto illecito tributario. Questa parentesi ci consente di anticipare alcuni temi della discussione in modo tale che, ove nel testo si affrontino questi problemi di riflessione degli istituti civili sul penale o sull’amministrativo o sul tributario e viceversa, potranno non riprendersi espressamente i temi che si intendono richiamati.
- Concorso nella responsabilità a diverso titolo. Concorso di norme e specialità; mancanza di discipline esterne del concorso e delle specialità.
Altro profilo che consegue al carattere residuale della presente trattazione è quello relativo al complesso tema del concorso sia nelle responsabilità che delle responsabilità.
Se noi schematizziamo (al di là dell’ipotesi cod. miste) in otto le forme di responsabilità in cui possono incorrere a titolo individuale o di concorso gli operatori – sia gestori che controllori che professionali interni e sotto altri aspetti esterni – nelle varie forme di responsabilità (un tema aperto è quello della fattibilità del cd. concorso esterno e dell’inesistenza sotto un profilo generale di classici istituti tipici del diritto penale in materia di estensione soggettiva della responsabilità: si concorso dei soggetti) vediamo che possiamo tratteggiare nell’ambito civile la responsabilità extracontrattuale (e precontrattuale) e la responsabilità contrattuale. Questi temi comportano una sovrapposizione ed interferenza con le forme di responsabilità tributaria tout court, responsabilità amministrativa tributaria, responsabilità amministrativa tout court, responsabilità penale amministrativa per gli enti da reato. Sono otto forme di responsabilità: potrebbero moltiplicarsi a loro volta per otto, nel senso di giungere ad un numero di sessantaquattro, che rappresenta i momenti di possibile connessione in astratto di un concorso tra una forma di responsabilità e l’altra forma di responsabilità.
Il discorso si complica in ragione del numero di soggetti o della tipologia di soggetti che possono essere coinvolti (operatori gestionali, controllori, operatori professionali, organi di controllo), con una potenziale moltiplicazione dei cosiddetti sessantaquattro per il numero delle connessioni fra questi vari soggetti.
E’ un tema per così dire che dà i brividi, ma che comunque rende ancora più opportuna la seguente considerazione.
Viste dall’alto, per così dire nella loro astratta presentabilità, queste forme di responsabilità non sono tuttavia istituzionalmente prevedute e legate nei loro rapporti. Se esiste all’interno di un “settore” (penale) dell’ordinamento la struttura del concorso, se esiste nell’ambito dell’ordinamento tributario il riferimento alla nozione di “solidarietà” o di “coobbligazione”, “del contribuente”, se esistono i principi generali in materia di responsabilità amministrativa, ove espressamente non derogati, nella legge n. 689/1981, non esistono istituti che in qualche modo possano accomunare queste forme di responsabilità nel senso di dare un’espressa regolamentazione dei loro rapporti.
Mi riferisco in particolar modo, come istituti per così dire mancanti, ai profili del concorso apparente di norme, del principio di specialità, del principio del cumulo giuridico. Ad esempio in materia di responsabilità civile non esiste un principio di cumulo giuridico per quanto riguarda la sanzione civile, mentre l’istituto é conosciuto nel diritto penale ove si regolamenta il concorso formale, il concorso materiale con le attenuazioni che conosciamo. Il principio di specialità é conosciuto nell’ambito penale, é conosciuto nell’ambito amministrativo limitato, ma i profili delle loro connessioni non sono trattati [7].
I temi divengono ancora più scontati (come si vedrà in appresso) quando si esaminino i rapporti fra le responsabilità civili e quelle penali con le novelle in materia di responsabilità amministrativa tributaria, di responsabilità amministrativa degli enti, per reati degli apicali o dei dipendenti [8].
- Brevi anticipazioni sulla specialità tributaria amministrativa.
Il punto è che non esistono regole di specialità per così dire esterna in materia di concorso apparente fra più disposizioni sanzionatorie che si muovono a titolo diverso[9]. Sia in via amministrativa, ove concorrono una responsabilità amministrativa ed una responsabilità amministrativa – tributaria, sia in via di raffronto fra la sanzione penale e la sanzione amministrativa. Sicuramente il profilo dell’apparenza del concorso della responsabilità è un profilo che si aggancia strettamente alla sovrapponibilità del bene tutelato in modo tale che il suo mancato rispetto da parte di chi abbia agito scorrettamente non debba portare alcuna esacerbazione sanzionatoria. Tuttavia il problema che può sembrare puramente astratto è un problema che è stato concretamente trattato dal Legislatore nella sua breve storia cui ci limitiamo.
Con la L. 7 gennaio 1929 n. 4 (che è entrata in vigore lo stesso giorno del codice penale e che chiaramente era articolata in funzione del medesimo) non si era ancora sviluppata la complessa problematica relativa alla natura civile o meno della sanzione amministrativa tributaria, quando si stabiliva il principio di sussidiarietà della sanzione amministrativa. L’art. 3 della L. 4/1929 stabiliva il principio che la violazione delle norme contenute nelle leggi finanziarie portava all’obbligo di pagare una somma di denaro a titolo di pena pecuniaria a favore dello stato quando – così è stato ritenuto – alla violazione delle norme finanziarie non derivasse l’applicabilità di una sanzione penale. Era un principio normativo di presunzione del carattere speciale della norma tributaria. Il principio fu poi abbandonato [10]. La specialità, o comunque il ricorso al principio di specialità, presuppone un’interferenza fra norme con riferimento all’identità del fatto vietato. Nel momento in cui ci si sposta da un ambito conformato a diversi principi valutativi di titoli differenti di sanzione, sorge una certa difficoltà nell’individuazione di un unico momento di disvalore del fatto, poiché appunto le angolazioni valutative sono differenti.
Il problema tuttavia è serio per quanto concerne l’identità del fatto tipico e, cosa che accade frequentemente anche nei rapporti fra la sanzione penale e l’illecito civile, quando la sanzione consegua ad un fatto che viene richiamato senza una sua diversa presentazione qualificatoria sotto i profili valutativi da parte della fattispecie che prevede la sanzione. Dicevo “viene richiamato” puramente e semplicemente, come accade ad esempio in materia di responsabilità degli enti morali per fatti evento di reato.
E’ in ogni caso corretto riferire alla legge 9.10.1971 n. 825 (c.d. riforma tributaria) il disancoraggio rispetto a questo rapporto che noi definiremmo di “residualità”, anche se non vedremmo un divieto, contenuto in quella disposizione, alla accensione di forme di sanzione tributaria anche in presenza di illeciti penali.
Riteniamo di leggere l’art. 3 della Legge 4/1929 come regolativo del principio di tassatività della sanzione tributaria e in materia di sanzioni che non esistono e che non si collocano su fatti di reato. Il tema comunque meriterebbe un approfondimento.
Alto tema di fondo è il cosiddetto principio di specialità bidirezionale che si trova nella l. 24.11.1981 n. 689 all’art. 9 che, occupandosi al comma I del principio di specialità, stabilisce “Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale”. Qui siamo veramente in presenza di un istituto di grande interesse e di grande complessità sul quale possono svolgersi le seguenti brevi considerazioni.
La disciplina si colloca difatti in un momento regolativo del passaggio da una responsabilità penale ad una responsabilità amministrativa, ove si istituiva con l’art.7 il principio della non trasmissibilità dell’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione agli eredi, con l’enfasi sul carattere direi sanzionatorio, equiparabile alla sanzione penale; all’art.8, dove si regolava il profilo delle più violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, lasciando ferma la possibilità di una diversa disposizione di legge, prevedendo in caso di concorso formale di illeciti amministrativi attraverso la violazione di diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative con un’unica azione od omissione o all’ipotesi di più violazioni della medesima disposizione attraverso più comportamenti spalmati nel tempo, il principio direi del cumulo giuridico della sanzione, esteso anche all’ipotesi di chi, con più azioni od omissioni (II comma) esecutive di un medesimo disegno posto in essere in violazione di norme che stabiliscono sanzioni amministrative, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse norme di legge in materia di previdenza e assistenza obbligatoria [11].
Va anche collocandosi in questo profilo l’art.9 della L. 689/1981 che si riferisce al caso in cui un medesimo fatto venga ancora sanzionato sia penalmente che amministrativamente, stabilendosi che si applica la disposizione speciale. Si stabilisce appunto una regola analoga a quella dell’art. 15 del c.p. che statuisce – e questo, a differenza del c.p., in maniera innovativa in quanto si àncora a due forme diverse di responsabilità, mentre nel codice penale verosimilmente si potrebbe giungere alle medesime conclusioni indipendentemente dalle definizioni di principio – polarizzando il principio sulla medesimezza del fatto e collocando questa nuova regola nel contesto della associazione e della omologazione delle sanzioni amministrative a quelle penali sotto il profilo del trasferimento da quelle penali a quelle amministrative di moltissime forme di illecito. Quindi collocherei questo principio di specialità al momento storico in cui la legge ha operato lo slittamento e non lo focalizzerei più oltre. Il tema comunque è importante anche per la responsabilità da reato per gli enti morali.
Difatti il principio può essere applicato solo se il concorso delle norme sia apparente e non se esso sia formale nel senso che l’applicabilità della norma amministrativa in vece di quella penale, o della norma penale in vece di quella amministrativa, vale nell’ipotesi in cui le disposizioni si riferiscono a aree di fatti vietati puramente omologati sotto un profilo materiale ma che comunque si connotino di diverso disvalore (rectius: diventi del “fatto”). Qualora vi sia una apparenza del concorso, vale a dire qualora sia in astratto che in concreto sia applicabile [12] una delle due, il profilo trattato o può essere inteso come di puro chiarimento o può essere inteso come regola nuova in materia di raffronto fra due titoli e forme di responsabilità.
Tema più delicato é quello dell’eventuale applicabilità dell’art. 9 in materia di principio di specialità al concorso sia reale che apparente (sia formale che apparente) fra più disposizioni amministrative ove alcune delle quali abbiano carattere tributario.
Osserveremo infatti (ma comunque lo anticipiamo) che l’ambito di applicazione previsto dall’art. 12 della L.689/81, che fa comunque riserva della loro compatibilità “in quanto applicabile salvo non sia diversamente stabilito”, si applichino a tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, con l’unica eccezione della sanzioni delle violazioni disciplinari [13].
Antecedentemente alla riforma si era notato da alcuni autori (Spoto, Bellini, Pizzuto) che il D.L. 10.07.1982 n. 429, convertito nella L. 7.8.1982 n. 516 all’art.10, stabiliva che l’ “applicazione delle pene previste nel presente decreto non esclude l’applicazione delle pene pecuniarie previste da disposizioni …. in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto” come, appunto, avevamo ricordato a livello di principio successivo alla legge del 1929. Si osservava anche da questi Autori che dopo la riforma sulle sanzioni tributarie di cui al D.Lgs. 472 del 1997 si era personalizzata la sanzione pecuniaria, colpendo la persona fisica (amministratore ed altri). Sarebbe apparso contrario al principio del ne bis in idem sostanziale (con tutti i profili di criticità ricollegabili alla nozione ontologica se non sostanzialistica di matrice germanica, con tutte le difficoltà di accertamento formale del ne bis in idem sostanziale collegato ad aspetti prettamente formali). La mancata previsione di una specialità tra penale ed amministrativo avrebbe potuto comportare dei rilievi significativi. In dottrina si era notato che fosse ovvio quindi che, ad esempio, la legge delega (art.3 comma 133 L. 662 del 1997) avesse prescritto al governo la previsione dell’applicazione della sua disposizione speciale se uno stesso fatto fosse punito da una disposizione penale e da una che prevede una sanzione amministrativa.
A prescindere dalla rinuncia all’esercizio della delega prima ricordata, ci sembra che vada fatta chiarezza sul punto, sia richiamando quanto detto prima sulla portata dell’art.9 della L. 689/1981 disciplinante il passaggio da una sanzione penale ad una sanzione amministrativa, pur fatte salve dalla medesima 689 le divergenze disciplinatorie in materia di rapporto fra la sanzione penal- tributaria e la sanzione tributaria con riferimento al medesimo fatto, perfettamente ammissibili in quanto espressamente previste dalla legge e non vietate al livello costituzionale (o quanto meno da norma preordinata costitutiva di principi generali dell’ordinamento ai sensi delle preleggi), ci pare che il problema fosse stato mal posto. Sicuramente l’art. 9 stabilisce un principio che si inserisce su un’apparenza di concorso ed è applicabile al concorso apparente in materia di sanzioni amministrative. Fra queste sanzioni amministrative sicuramente rientrano anche le sanzioni amministrative tributarie, per le quali non è espresso un principio contrario.
Queste considerazioni preliminari ci consentono ancora di fare riferimento ai temi della delega di funzioni nell’ambito delle società e degli enti, ai temi della tutela dell’apparenza come nuovo coefficiente di individuazione della natura della responsabilità in fase civile ed eventualmente anche in fase penale.
Ora, cercheremo di articolare intorno a cinque nuclei (indipendentemente dalla numerazione dei paragrafi) la trattazione.
In un primo profilo considereremo l’incidenza della riforma societaria sui principi dianzi carrellati ed enucleati. In secondo luogo l’individuazione, per quanto già non anticipato, di alcuni punti di vista di istituti giuridici privilegiati scelti tra i molti che consentono di portare ad una individuazione di un nucleo comune dell’illecito, con riferimento ai rapporti fra la responsabilità civile contrattuale ed extracontrattuale con la responsabilità penale, che costituisce il secondo ambito della trattazione. Un terzo (che segue a questi profili introduttivi), dedicato, ove già non anticipato, alla responsabilità tributaria. Un quarto alla responsabilità amministrativa degli enti (non sotto il profilo istituzionale sul quale rinviamo a separato lavoro) unicamente con riferimento all’applicazione della struttura organica e monistica dell’illecito amministrativo ai fini di sovrapporre detta struttura, per eventualmente evitare confusioni ed interferenze reciproche, con le strutture dell’illecito nelle forme diverse di responsabilità, anche ai fini di misurare ed escludere il concorso delle responsabilità. Un tema finale, ancora, e ricorrente, relativo alle ricadute professionali della recente disciplina, con peculiari riferimenti alle figure dei controllori, alla situazione relativa ai modelli sociali.
- Premessa sul tema assegnato
Ritengo utile trasformare il tema assegnato nella enunciazione contenuta nel sottotitolo per ragioni di semplicità in quanto il problema della responsabilità penale delle leggi commentate fra gli elementi costitutivi dell’illecito amministrativo va, per ragioni logiche e normative,tenuto distinto dalla responsabilità cosiddetta amministrativa introdotta per autonomo titolo in capo agli enti economici o associativi individuati dalla legge quali soggetti attivi degli illeciti.
Poiché i reati richiamati costituiscono, quali fatti tipicizzati assistiti dal prescritto elemento psicologico, elementi di fattispecie dell’illecito e come tali presentano caratteri di elemento normativo “extra amministrativo” del fatto illecito nella prospettiva della legge in commento, il loro sintetico esame in questa sede dovrà limitarsi agli aspetti di collegamento con gli illeciti preveduti dal D.Lgs 231/2001.
E’ opportuno quindi affrontare prima di tutto le questioni che concernono i caratteri dell’illecito di cui i reati sono parte.
Utilizzerò inoltre per ragioni di chiarezza concettuale l’espressione reati evento, anziché reati presupposto. Sappiamo difatti che l’espressione reati presupposto, in nuce presente negli studi sulla ricettazione e sull’incauto acquisto, venne tecnicamente coniata con riferimento ai primi studi sui cosiddetti delitti di riciclaggio, ove la materialità, questa volta non più riferita genericamente a delitti ma a specifiche fattispecie come tali da qualificarsi dal Giudice, da specifici delitti veniva prevista come antecedente logico e temporale, appunto presupposto dalla fattispecie incriminatrice. Trattasi chiaramente di materialità assistita dalla colpevolezza.
Nel tema che ci occupa, invece, è vero che il reato precede perché temporalmente distinto rispetto al momento della affermazione di responsabilità, ma segue la condotta dell’ente la quale difatti viene rimproverata in quanto causatrice appunto del reato.
Di seguito vedremo le dimensioni del rapporto causale, a mio avviso imposto sia dalla Legge commentata che dai principi generali desumibili anche dalla materia dell’illecito extrapenale, se non dovesse bastare.
Concludo questa premessa sinteticamente rispondendo alla questione affidatami col tema di convegno anticipando il dato finale in base al quale a mio sommesso avviso l’ente collettivo potrà ritenersi responsabile se, come dice la Legge all’art.6 comma I lettera a) D.Lgs 231/2001, la commissione anche in forma tentata del reato ad opera di soggetti apicali o delegati può intendersi come conseguenza rimproverabile di colpevoli attività o inattività individuabili in capo a organi “dirigenti” impersonificati da persone fisiche diversi dagli autori o coautori, o compartecipi, dei reati descritti.
In definitiva, impregiudicato il riferimento ai principi generali dell’illecito, vi è la necessità, peraltro presupposta in via generale dall’art.2 della L.689/1981, che il fatto illecito possa essere iscritto a titolo colposo ad u soggetto anche collettivo cui sia psicologicamente riferibile come proprio e, appunto, come tale, rimproverabile in quanto evitabile.
- Anticipazioni sul metodo adottato al fine di sgombrare il campo da equivoci conseguiti a profili qualificatori sulla natura degli illeciti e delle sanzioni.
Mi si scuserà la battuta che mai come di fronte a questa Legge l’interprete di diritto positivo (purtroppo talvolta indotto a riflessioni de jure condendo imposte da insormontabili questioni interpretative relative allo jure condito) deve fare iure condito per interpretare una forma jure condendo dal legislatore tuttavia presentata come jus conditum.
I primi lettori della legge avranno di fatto notato che essa manca gravemente di una parte generale idonea a dirigere la applicazione della sua cosiddetta parte speciale nel senso di poter risolvere le questioni interpretative derivanti dalla sua applicazione soprattutto con riferimento ai reati evento ad oggi previsti, mentre vede buona parte della pur monca parte generale caratterizzarsi con riferimento a reati non inseriti allo stato ma pur previsti nella legge delega. E’ così visibile che il primo interprete deve prendere atto, se ragiona in termini di diritto positivo, che salienti aspetti degli istituti di cui va compreso il funzionamento normativo sono in realtà stati incompletamente costruiti quasi che dovessero essere successivamente integrati da altri diversi istituti giuridici che li integrassero.
Di fronte a tale situazione di reale normativo, chi studia la legge in commento nel suo aver spostato l’oggetto della delega non può esimersi dall’accostarsi ai problemi qualificatori ed interpretativi nella maniera più aderente al testo di legge, pur con le ( sempre imposte dalla legge) regole normative di comprensione del testo.
Il dovere etico del giurista incorre tuttavia nell’esigenza, pur muovendosi all’interno del paradigma scientifico elaboratosi e sviluppatosi con riferimento all’ordinamento giuridico del Paese di riferimento, di cercare di seguire le dilatazioni del paradigma giuridico conosciuto sulla materia dell’illecito operate da Legislatore. La difficoltà di configurare con semplicità la novità legislativa cresce tuttavia ancora in ragione del fato che il Legislatore ha voluto introdurre istituti extraparadigmatici pur muovendosi secondo nozioni invece appartenenti alla consolidata idea del carattere personale della responsabilità.
In un certo senso, possono prevedersi gli sviluppi applicativi della legge così come è oggi e, come temuto da autorevole dottrina in sede di recentissimo commento alla estensione ad altre ipotesi di reato evento, possono prevedersi ulteriori interventi problematici sul testo normativo. Conseguenza sarà che il lettore fedele della legge dovrà spostarsi tendenzialmente da un carattere normale ad un carattere in un certo senso rivoluzionario della scienza giuridica per comprendere fenomeni, se non noùmeni, normativi quale il presente.
La licenza introduttiva che mi sono permesso di prendere mi consente di anticipare che le semplici considerazioni sulla struttura dell’illecito che in seguito accennerò penso possano prescindere ed essere comunque utili indipendentemente dalla qualificazione quale amministrativa o penale della responsabilità introdotta, ovvero dalla risposta positiva o negativa alla domanda se nell’ordinamento giuridico italiano possa legittimamente introdursi qualche forma di responsabilità penale di enti collettivi (più che “ persone giuridiche”).
Questa riflessione faccio perché la tendenza qualificatoria del giurista italiano già si è recentemente espressa con riferimento a taluni e a tale legge nel senso del carattere penale della responsabilità delle imprese lucrative.
Basta richiamare le difficoltà insormontabili degli studiosi della natura della pena pecuniaria in ordine al reperire criteri ontologici univoci per separare il carattere penale da quello non penale di una sanzione per preferire, allo stato, il più lineare criterio intraordinamentale di individuazione del carattere penale dell’illecito con riferimento al pescarsi dalla L. sanzione con riferimento al suo appartenere ai tipi di sanzione nominativamente previste nei principi generali di parte generale della legislazione penale interna.
Se ci si muove in questa prospettiva, che certo non è l’unica possibile ma che ci appare più semplice, le sanzioni pecuniarie ed interdittive in commento non paiono potersi ricondurre né alla pena pecuniaria penale, né alle sanzioni accessorie, né alle misura di sicurezza.
Parimenti, poiché ci troviamo di fronte a titoli autonomi di responsabilità, peraltro non riconducibili a schematismi di responsabilità cosiddetta oggettiva (civile, tributaria, urbanistica, etc.), allo stato non mi sembra interessante complicare le questioni qualificatorie pensando ad eventuali analogie con nozioni quali “responsabile civile”, “soggetto solidarmente obbligato”, o altre (tema anche della responsabilità del terzo).
Si impone difatti all’interprete l’orientamento più semplice delinerae, ancorato al testo normativo.
Se poi per comprendere e spiegare il testo normativo sia necessario fare riferimento a principi generali o ad altri istituti, per dargli significato, questo si potrà fare, cercando di sciogliere, sempre con riferimento al diritto positivo, le apparenti difficoltà che dovessero incontrarsi, magari, mi si passi l’espressione, ricercando trinci razionali di non normativizzata specialità logica.
Se il testo della legge in commento fosse lacunoso e se non vi fossero divieti di analogia, grazie alle preleggi, se il problema non già risolto da argomenti qualificatori, potrebbe per così dire pescarsi dalla L. 689/1981 per i principi generali dell’ ordinamento ovvero dai principi generali dell’ordinamento tout cour,, ovvero, come sarò di necessità, da altre zone dell’ordinamento.
Vedremo alcuni dei problemi relativi a questo tema, sia pur senza volere proporre soluzioni definitive.
In sintesi, riteniamo possa ricercarsi la struttura dell’illecito introdotto ex novo, indipendentemente dalle varie possibili soluzioni dei problemi solo in parte quai accennati.
- Ancora sul problema dell’ipotizzata natura penale degli illeciti.
Mi permetto di ritenere in conferenti rispetto alle necessità del convegno di oggi le pur autorevoli considerazioni sulla non dichiarata natura penale degli illeciti, sia pur mascherata dalle definizioni del contesto legislativo, dalla relazione ministeriale e, conseguentemente dalla necessitata conclusione che sia stata introdotta, come in altri Paesi, responsabilità penale delle persone non fisiche.
Non si equivochi sul fatto che personalmente condivido le intelligenti aperture sulla necessità di apertura logica e giuridica del solo apparente divieto costituzionale ex art. 27 italiana con conseguente ammissibilità della responsabilità penale collettiva, sia per il mutare della sanzione per sospetti di retributività-afflittività-prevenzione generale che si sposti dalla libertà personale verso la compressione della libertà economica che di strutture consortili che si presentano nella società civile e nella grande società non più come schermi ma come soggetti di scelta e di imputazione di relazioni e di norme che meritano a pieno titolo di essere considerate pezzi della realtà giuridica.
Ma non penso che la pur giusta opzione verso la fatt6ibilità del rimprovero penale della ontologia societaria rilevi per la soluzione dei problemi di oggi.
A mio avviso, difatti, è certamente possibile argomentare in astratto il carattere penale delle sanzioni introdotte muovendo dalla natura affittiva o recuperativa delle sanzioni, dalla loro applicazione non in vi amministrativa, dalla previsione per la prima volta di un’azione pubblica che se riferita ad illeciti amministrativi non consentirebbe di considerarli come tali, dall’ancoraggio a principi analoghi a quelli di responsabilità penale, dal principio optato verso il processo simultaneo condotto non solo dal Pubblico Ministero ma dal Giudice del reato, dalla necessità di trovare una fondazione sostanziale della natura dell’illecito penale, sia attraverso l’incisione del medesimo su beni giuridici general-pubblici o quanto meni di evidenza pubblica, sia attraverso l’individuazione di criteri comuni a vari Paesi (afflittività, dissuasività, proporzionalità, adeguatezza, idoneità a tutelare beni fondamentali, etc) in ordine alla qualificazione come penale della sanzione, non necessariamente detentiva riferita alla persona quindi, quasi a ricercare non più attraverso criteri formali ma attraverso criteri struttura-funzionali una nozione universale di diritto penale.
O quanto meno universalizzabile, come pare stia accadendo ad esempio nel contesto della Comunità Europea.
Le difficoltà attuali di riconoscimento in sede comunitaria di una potestà normativa indiretta in materia penale più che di ordine costituzional-comunitario (leggasi i noti problemi dovuti ai pilastri nel Trattato di Amsterdam) sono certamente di natura politica, in quanto è noto come non solo l’ordinamento comunitario abbia incorporato i vari ordinamenti nazionali così da integrare quotidianamente e direttamente i precetti delle norme penali italiane, sia attraverso glie elementi normativi sia attraverso le colmature delle norme in bianco, ma addirittura come le sovraordinate istituzioni comunitarie, politiche e giurisdizionali attraverso i vari rispettivi strumenti (sottolineo quello pur depotenziato per via della facoltatività sostanziale e costituto dall’interpretazione pregiudiziale della Corte, come è stato di recente osservato) a volte impongano alle potestà legislative nazionali l’uso della norma penale, a volte ne vietino l’uso, a volte ne obliterino l’uso anche se in via mediata attraverso la Corte di Giustizia.
Questa semplice notazione va associata alla parallela tendenza delle istituzioni comunitarie a dichiararsi indifferenti al carattere formale dato dagli ordinamenti nazionali alla sanzione sia pur ai medesimi imposta a presidio di beni fondamentali comunitari od internazionali (poco sviluppata è la ricerca delle influenze del diritto internazionale convenzionale sulla natura dell’illecito penale nei vari ordinamenti nazionali).
Questi due orientamenti divergono ed appaiono difficilmente conciliabili in quanto l’uno, pur senza definirne la natura e sostanza presuppone una precisa nozione di diritto penale criminale e non criminale (potrebbe ricercarsi in futuro un’impostazione formale sul piano comunitario), l’altro rinvia all’aspetto puramente definitorio del “mondo penale” tipico delle predilezioni dei vari Paesi in ordine alla sensibilità interna sull’uso del marchi penale. A questo secondo aspetto meriterebbe fossero dedicate riflessioni adeguate sul rivoluzionario spostamento che ha avuto ad esempio in Italia la cosiddetta natura della pena a definire la quale natura non ausiliano più le concorrenti od alternative funzioni della retribuzione, della prevenzione speciale, della rieducazione etc., ma piuttosto oramai gli aspetti strutturali della sanzione. Dal prevalere vieppiù progressivamente delle pene pecuniarie ed interdittive e ripristinatorie rispetto alle pene privative della libertà personale, in conseguenza dell’invasività del diritto penale nel settore economico ed ambientale (come dello sviluppo delle leggi speciali rispetto ai codici in materia di reati colposi, dell’incentramento sempre più sulla colpa, del carattere programmatico di diritto penale etc.), e contemporaneamente dallo sgretolamento al suo interno della reclusione che diviene sempre più qualcosa di diverso (istituti premiali, pene alternative etc.) ne è derivato uno spostamento del fuoco del cosiddetto marchi penale, piuttosto che amministrativo 8che ben può essere più privativo in termini concreti), più sull’aspetto simbolico ed infamante che su quello dell’adeguatezza alla tutela dei beni presidiati dalla norma di rafforzamento delle regole di giusta condotta. Indipendentemente dalle opzioni verso autonomia o carattere enciclopedico del diritto penale.
Probabilmente la segnata inconciliabilità dipende dal fatto che entrambi gli orientamenti pur presupponendo un’astratta idea di diritto penale comune o quanto meno universalizzabile non riescono ad individuarla con riferimento a caratteri sostanziali e certamente questa difficoltà è dovuta al fatto che, a fini comunitari od internazionali, non sia sufficiente ricavare la sostanza penale dalla mera sovrapposizione della sostanza penale tipica dei vari ordinamenti individuandone il punto comune. L’ordinamento comunitario individua beni propri meritevoli di tutela nel momento in cui integra fra di loro e con sé stesso e si integra con tale processo di integrazione degli ordinamenti attribuisce meritevolezza di tutela a beni sia tipici che comuni ai vari ordinamenti, ma non trova allo stato da tutti gli ordinamenti nazionali concordia sulla qualificazione come penale dei beni generali meritevoli di tutela, sia a causa di ragioni sostanziali che di ragioni formali, o a causa di diversità o difficoltà nel ricavare un concetto di diritto penale che sia tanto effettivo quanto simbolico.
Le considerazioni generali che precedono e questa attuale divaricazione costringono l’interprete a muoversi nell’osservare le norme con estrema semplicità senza correre il rischio di trarre dalle qualificazioni peraltro incerte delle conseguenze operative in tema di applicazione degli istituti.
Analogo discorso va condotto con riferimento alla responsabilità delle persona giuridiche. Le considerazioni che seguiranno pertanto vanno presentate come se ad esse fossero indifferenti le propensioni qualificatorie sulla natura del penale che pur l’interprete legittimamente possiede.
- Il problema della configurabilità dei comportamenti vietati dal D. Lgs. 231/2001 come illeciti amministrativi.
Le sanzioni previste dalla legge in commento agli enti collettivi non sono formalmente riconducibili alla nozione di sanzione penale.
Non occupandosi le legge di munire soggetti privati o pubblici del diritto di azionare la tutela di sfere giuridiche eventualmente violate che siano riconducibili al contesto delle relazioni civilistiche presidiate da leggi civili in senso smpio attributive di diritti soggettivi, obbligazioni, o obblighi non ritengo possa parlarsi di illeciti civili.
Parimenti non ritengo che l’appostazione del Giudice in luogo dell’Autorità amministrativa ai fini del primo accertamento dell’illecito, in uno con la previsione, dato il carattere pubblico dell’interesse tutelato dalla previsione della fattispecie illecita, dell’Autorità giudiziaria P.M. in luogo dell’Autorità amministrativa quale titolare del diritto di agire a tutela dell’interesse pubblico violato, vale a dire per la prima volta, analogamente alla materia di famiglia e in certi casi delle persone e fallimentari, la creazione di azione amministrativa in capo ad un organo terzo rispetto all’Amministrazione – Stato ed al trasgressore muti il carattere amministrativo dell’illecito e della sanzione.
Ben consociamo difatti che la nozione di diritto amministrativo nasce come strettamente associata a quella di diritto penale distinta dal diritto civile, ma che si sviluppa fino ai tempi attuali come residuale rispetto per un verso al diritto penale e per l’altro al diritto civile.
Ciò detto, non ci sembra che i principi generali dell’illecito amministrativo rifiutino di accogliere la presente legge al loro interno.
Ad esempio l’art. 12 della L. 689/1981 prevede in via generale la vigenza della medesima legge con riferimento a sanzioni amministrative di pagamento. Va altresì notato che l’intera legge è ancorata sulla sanzione e non è condizionata dalla definizione dell’illecito. Le eccezioni si sono già richiamate,ove il legislatore ha voluto escludere l’applicazione dei principi dell’illecito amministrativo.
Nella presente legge ciò non è stato fatto.
Se l’illecito è quindi ad azione pubblica in quanto pubblico è il bene tutelato, non ci pare che certo contrasti con l’art. 13 della L. 689/1981 e in particolare con l’espressione di cui al primo comma “organi addetti al controllo sull’osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa” la natura dell’Autorità giudiziaria, né il principio previsto dalla legge in commento del ne procedat iudex ex officio.
- Cenni alla struttura dell’illecito.
Tornerò in seguito sui problemi accennati sopra. Ciò sarà necessario in quanto l’esegesi dei principi generali e dei criteri di attribuzione della responsabilità amministrativa di cui al capo I del D. Lgs. 231/2001, pur utili ai fini di configurare la struttura della fattispecie amministrativa dell’illecito e dei suoi elmenti costitutivi, unitamente ai loro rapporti, in uno con il rapporto dell’elemento oggettivo della fattispecie con il prescrito elemento soggettivo della medesima, no consentono di risolvere le ulteriorio questioni applicative che sorgono dalla lettura dell’intero testo normativo.
Farò cenno ai soggetti di cui all’art. 1 del D. Lgs 231/2001 unicamente con riferimento alle questioni affidatemi.
A questo punto i temi del principio di legalità e della successione di leggi di cui agli articoli 2 e 3 altresì possono esere omessi in questa sede, se si eccettua la riflessione dovuta in ordine al fatto che ove le enunciazioni generali della legge si differenziano da quelle della legge sull’illecito amministrativo parrebbe di pensare che qui il Legislatore ha voluto distinguere e regolare diversamente la materia.
Dobbiamo quindi concentrarci pressoché integralmente sui principi di costruzione dell’illecito disegnati insieme dagli articoli 5, 6 e 7 della legge.
Nella Relazione Ministeriale si afferma che il legislatore delegato avrebbe integrato la legge delega quasi a correggerla in un punto fondamentale relativo ad una denegata fondamentale diversa disciplina apparentemente voluta dalla legge delega in ordine al criterio soggettivo di attribuzione della responsabilità all’ente con riferimento rispettivamente al collegamento con la responsabilità penale degli apicali per un verso e dei sottoposti per un altro.
Più precisamente il legislatore delegato parrebbe avere dichiarato in relazione ministeriale che la necessità di eliminare la pur delegata oggettività della responsabilità dell’ente per il fatto di reato del soggetto apicale, a differenza del non apicale, ha comportato di salvare il principio di colpevolezza della società anche per il fatto di reato dell’apicale.
Se andiamo a leggere l’art. 11 della Legge 300/2000, al comma I lettera e) la delega avrebbe avuto per oggetto l’introduzione della responsabilità dell’ente per il fatto di reato, vantaggioso o di interesse per l’ente, commesso da rappresentanti, amministratori o direttori, ovvero da gestori o controllori anche di fatto per un verso ovvero ancora da chi fosse sottoposto alle citate direzioni o vigilanza degli appena citati soggetti apicali, qualora la commissione del reato fosse stata “resa possibile dall’inosservanza degli obblighi connessi a tale funzione” (ove tali funzioni pare riferire agli apicali, muniti di “funzioni di rappresentanza o di amministrazione o di direzione…”; anche se la parola funzioni non ricorre nell’espressione di cui alla lettera e) “ovvero da chi esercita, anche di fatto, poteri di gestione e di controllo”).
A prima lettura della legge delega parrebbe che la medesima ha introdotto la necessità del nesso di causalità tra l’inosservanza degli obblighi connessi alle funzioni apicali … anche di fatto e il (conseguente) reato. Come è noto, difatti, il riferimento di cui all’art. 3 della L. 689/1981 al dolo o alla colpa porta, comunque, a richiamare, tramite l’art. 43 c.p., in materia di illeciti colposi (la materia non è comunque certo contraddetta dall’art. 2043 c.c.), il principio di cui all’art. 40 c.p. sul rapporto di causalità, così eventualmente come integrato dal principio di cui al secondo comma che “non impedire l’evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
La stessa indicazione semantica della delega che fa riferimento alla possibilità porta alle stesse conclusioni, se si tiene conto che appare pacifico che per gli illeciti commissivi mediante omissione, posto che esista un obbligo di attivarsi per impedire l’evento (reato), se il reato non sarebbe stato commesso se l’obbligo fosse stato adempiuto, il nesso di casualità si è perfezionato.
Torneremo successivamente sulla nozione extra amministrativa di obbligo, ove non sia riempibile dalla lettura della legge in commento.
Ora, non vorremmo che il legislatore delegato avesse equivocato su detto tenore testuale.
Più in termini, il riferimento della legge delega alla eventuale inosservanza di obblighi funzionali quale causatrice della commissione del reato da parte di apicali o sottoposti autonomi sicuramente allude alla introduzione di tratti di colpa, più specifica che generica. Sempre nella lettera e) si dice che la responsabilità è da escludersi nel caso in cui il reato del soggetto fisico, vale a dire il cosiddetto reato evento, sia stato commesso nell’esclusivo interesse del medesimo soggetto o di un terzo, direi a prescindere dal fatto che vi sia stata inosservanza degli obblighi funzionali dei soggetti apicali diversi dagli autori del reato, autore che sia apicale o non apicale.
Questo è il tenore letterale e chiaro della lettera e) della legge delega. In altre parole, sembra che nel caso in cui il reato, per la delega, non sia stato commesso nell’interesse dell’ente, anche se vi sia causalità tra una comprovata omissione funzionale di un obbligo, il legislatore delegato abbia ritenuto, forse ritenendo il rapporto causale e/o psicologico interrotto, di non affermare la responsabilità dell’ente.
In ogni caso la delega non avrebbe differenziato il criterio di attribuzione soggettiva e oggettiva della responsabilità all’ente, oggettivo e soggettivo, in base al se il reato sia commesso dall’apicale o dal non apicale, vale a dire che anche se il dirigente fosse stato a commettere per sé o per terzi il reato, l’ente non ne avrebbe risposto pur in presenza di omissioni che se non effettuate in ipotesi avrebbero potuto impedire il compimento del reato.
Ora, tuttavia, se passiamo al testo di legge delegato, con le perplessità accennate sulla non corretta lettura da parte della relazione ministeriale della lettera e), effettivamente dal raffronto degli articoli 5, 6 e 7 emergono previsioni affatto diverse.
Preferisco che eventuali aspetti di esorbitanza in meno o in più rispetto alla delega vengano oggettivamente ricavati dal raffronto fra le esposizioni o emergano in sede di discussione successiva al presente intervento.
A fronte della numero 1 dell’art. 5, raffrontato con il comma 2, sembrerebbe che la delega sia stata attuata.
Tuttavia con l’art. 6, se non si seguisse l’interpretazione di cui sopra, si derogherebbe a tale disposizione di cui all’art. 5, vale a dire che non è più vero che l’ente non risponderebbe in ogni caso nell’ipotesi di azione nell’interesse proprio o di terzi da parte dei dirigenti.
Ci sembra vi sarebbe uno strappo alla delega, se fosse vero quanto dichiarato nella Relazione ministeriale. In questa relazione infatti si dice che, per evitare una responsabilità oggettivo-organica dell’ente senza colpa, si sarebbe con l’art. 6 comma I, per gli apicali che avessero commesso il reato, voluto esimere l’ente ponendo a carico del medesimo tuttavia l’onere di provare quanto contemplato dalla lettera a) alla lettera d).
Difatti, nel comma I dell’art. 6, articolo dedicato soltanto al reato evento commesso dagli apicali ed ai conseguenti criteri di attribuzione di responsabilità all’ente, sarebbe sparita completamente l’interruzione del nesso di causalità nel caso del reato apicale nell’interesse proprio o di terzi, interruzione anzi sostituita dalla responsabilità per l’ente anche per tali fatti, salvo la prova a cura dei dirigenti non autori del reato di avere posto in essere i modelli, di avere vigilato e quant’altro, nonché che vi sia stata da parte degli autori del reato addirittura una fraudolenza elusiva dei modelli. Ci si allontanerebbe così dalla nozione di interesse proprio e di terzi, sostituita da quella ben più gravosa di inversione dell’onere probatorio (la prova di chi agisce per l’illecito dovrebbe ricadere secondo la relazione ministeriale, implicitamente, sulla mera commissione del reato, mentre la prova contraria non si comprenderebbe se debba investire l’inesistenza di un nesso di causalità commissiva mediante omissione, anche se non pare, in quanto riteniamo il nesso di causalità sia comunque onere di prova attorea, piuttosto che un onere di prova contraria avente ad oggetto sia la mancata violazione degli obblighi di predisposizione di modelli idonei e di vigilanza sul loro funzionamento tramite organismi sia il dolo di reato dell’apicale arricchito dalla evidentemente incontrollata ed incontrollabile fraudolenza elusiva del modello. Oltre chiaramente alla lettera d) del comma I.
Nel comma II dell’art.6, se i modelli si riferiscono altresì alle deleghe, se i modelli si riferiscono altresì alle deleghe di funzioni dai dirigenti ad altri dirigenti appunto delegati ad hoc, secondo la relazione ministeriale e secondo l’espressione “se prova che …”, i modelli oggetti di prova contraria dovrebbero essere arricchiti appunto dai caratteri di cui alle lettere da a) ad e) del comma II.
Per inciso, tutte le lettere dell’art. 6 ci sembrano dovere essere, secondo l’intenzione del legislatore delegato, oggetto di prova contraria congiunta.
A prescindere dal contenuto dei modelli delegati di cui al comma II – per i quali già è stato da più parti sottolineato che essi sembrano essere impostati, per essere scriminanti, su il concetto imperscrutabile di idoneità, così che la colpa specifica, per giunta oggetto di onere di prova contraria, corre sicuramente il rischio di, se così interpretata, identificarsi con una nozione oggettiva di idoneità, con tutti i problemi conseguenti – vi è la conseguente considerazione.
Il legislatore delegato, se si pensasse diversamente da quanto proposto, avrebbe ristretto, tramite l’inversione dell’onere della prova e l’incisione sia sul coefficiente oggettivo che su quello psicologico, l’apertura garantistica in termini di colpevolezza contenuta nella legge delega per i reati degli apicali.
Curioso è tuttavia che nella Relazione ministeriale si dica cosa affatto diversa sostenendosi che addirittura si sarebbe reso più ampio il coefficiente psicologico richiesto per i non apicali, prevedendo due diversi profili di riferibilità del fatto di reato all’ente.
Difatti, nell’art. 7 (soggetti sottoposti all’altrui direzione e modelli di organizzazione dell’ente) si riproduce la necessità del nesso causale e della colpa sopra descritta e resa dalla legge delega indifferenziatamente.
Addirittura, indipendentemente da questioni di causalità, si escludono obblighi di direzione o di vigilanza diversi in capo all’ente da quelli dell’adozione e dall’attuazione dei modelli organizzativi idonei a prevenire reati relativi al rischio specifico di impresa e di settore.
Qui non si tocca più la questione dell’onere della prova.
Viene da osservare che nel caso in cui i reati siano stati conseguenza e quindi causati dall’inosservanza degli obblighi di direzione e di vigilanza, la colpa generica sussiste in capo all’ente, ma che un reato pur causato dalla violazione di tali obblighi non possa comportare responsabilità all’ente se non sussista per il medesimo la colpa specifica della violazione dei modelli adottati. Sorge quindi un problema di coordinamento tra i comma I e comma II dell’art. 7, imposto dalla necessità di non escludere la colpa generica se in presenza di una possibile colpa specifica, a meno di non identificare completamente le due nozioni.
In altri termini, potrebbe il dirigente dell’impresa non avere adottato alcun modello, ma avere bene vigilato.
Ciò impone tuttavia di riempire di contenuto la nozione di obblighi di direzione e di vigilanza.
Poiché sicuramente la colpa generica non può essere riempita dalla legge in commento in quanto l’ente è responsabile della conseguenza dolosa che aveva l’obbligo di impedire, sarà nell’applicazione pratica problematico individuare tale contenuto. Il mero riferimento automatico agli obblighi civilistici ( si pensi ad esempio all’art. 2392 c.c. che regola la responsabilità verso la società degli amministratori della S.p.A., ovvero dell’art. 2260 c.c. per le società di persone) di apicali e non potrebbe a volte rivelarsi infruttuoso essendo le norme civilistiche dettate con riferimento a tutele di interessi interni alle società.
Certamente il riferimento alla diligenza generica può essere utile, ma ciò potrebbe essere meritevole di approfondimento.
- L. 300/2002 e D. Lgs. 231/2001. Colpevolezza dell’impresa da reato. Premessa su concorso e causalità. Struttura dell’illecito amministrativo. Interruzione del nesso eziologico.
Fatte le premesse, si può rapidamente transitare alla “responsabilità amministrativa degli enti per gli eventi- reato che potevano evitarsi” e, subito dopo, alle nuove responsabilità relative agli organi di nomina per la sorveglianza.
Poiché le presenti note hanno carattere residuale alla trattazione istituzionale della struttura della responsabilità – per cui rinviamo a separato lavoro, bastino alcune premesse ed alcune osservazioni di sfondo. Necessario è recuperare le notazioni fatte in premessa ed in nota sulla diretta vigenza anche in materia civile dei principi regolativi del concorso penalistico dei soggetti nella causazione dell’evento divietato. Si è detto che manca una disciplina espressa negli artt. da 1218 a 1229 c.c. circa i momenti di collegamento fra le compartecipazioni soggettive dei titolari di obbligazioni intrasocietarie e comunque civilistiche nella violazione di obbligazioni la cui conseguenza siano uno o più eventi dannosi ingiusti, ove la risarcibilità del danno dipende dagli individuali contributi causali al medesimo. Apparentemente ammettesi per la responsabilità civile non tanto la ‘cooperazione colposa’ nell’illecito a prescindere dell’intervento del dolo per un concorrente, quanto il suo originarsi per effetto di contributi indipendenti nessuno dei quali interrompa il nesso eziologico dell’altro. Se di fatti si applicasse la nozione di ‘contributo causale’ in presenza, ove ammessa nel civile e nell’amministrativo, di un puro e semplice frazionamento soggettivo della condotta tipica, detto contributo andrebbe misurato in relazione al contributo di uno dei soggetti verso l’evento vietato, attraverso per così dire meccanismi di causalità per riflessione.
Con la conseguenza di ammettere, anche in presenza di forme tipizzate di condotta illecita ( la responsabilità civile si basa su condotta per lo più a “forma libera”), la rilevanza ai fini della responsabilità di forme libere di condotta (di gestione, di mancata vigilanza …) unicamente individuabili attraverso la “propria idoneità” causale verso altri contributi all’evento.
Tuttavia, va enfatizzata la necessità del carattere diretto ed immediato della causazione, ove non vi sia concertazione volontaria o volontaria agevolazione che sola, in base ai principi concorsuali analogicamente trapiantati dal 110 115 c.p.c., non possa che portare all’evento illecito.
Come detto per la responsabilità amministrativa tributaria, disciplina espressa sulla estensione soggettiva ed obbiettiva della responsabilità a titolo di concorso (necessario o eventuale plurisoggettivo, doloso o colposo) manca tanto nella parte generale ex 689/681 quanto nella più limitata parte generale del d.lgs 231/2001 “attuativo” della delega ex L.300/2000. Il regime di concorso comporta estensione della responsabilità sotto il profilo soggettivo e richiede espressa statuizione come per il 110 e ss. c.p. per il divieto di analogia in malam partem delle sanzioni amministrative (istituto). Ma questo avviene se si ammette l’eseguibilità frazionata del fatto tipico, che in materia di responsabilità degli enti da reato riteniamo non configurabile. Se invece ci si muove secondo il principio della necessaria realizzazione dell’intera condotta vietata ad opera del responsabile, l’applicabilità dei principi concorsuali ex 110 c.p. può essere ricuperata costituendo momento di garanzia e limitazione della responsabilità in quanto si ricuperano i principi di immediata e diretta causalità “naturale” (sic) e giuridica. In altre parole, se non si richiede l’accordo, è necessario che la condotta separata porti all’evento anche a titolo colposo in quanto in modo esaustivo integrativa dell’omissione vietata o dell’azione vietata. Se invece il concerto delle volontà si chiede fra i concausatori, la condotta anche frazionatamente integrata dai medesimi acquista unità perché voluta ed in relazione ad essa può misurarsi il suo eventuale effetto causale diretto sull’evento (reato).
Come si vedrà, nello “statuto” della responsabilità dell’ente per l’evento-reato del “titolare” o dell’ “dipendente” vale la configurazione, sopra strutturata in via generale, dell’illecito costituito oggettivamente da una condotta colposa degli organi rappresentativi o di vigilanza dell’ente che abbia direttamente causato – nel caso in cui appunto il nesso eziologico non sia stato interrotto dal fatto volontario del terzo (apicale o dipendente) diretto all’elusione verso gli organi rappresentativi o di vigilanza ed assistito dall’elemento psicologico doloso, intenzionale ed eventuale, verso la condotta tipica di reato – appunto l’elemento oggettivo di fattispecie criminosa. Invero, la parte generale del d.lgs.231/2001 dovrebbe (ma non sembra: vedi infra) essere strutturata potendo ospitare quali reati-evento dell’illecito amministrativo, reati colposi. Così, la l. 29.9.2000. n. 300 (art.11.lett.b, c, d). Richiamiamo altresì il protocollo della convezione 26.7.95 e segg. in base all’art. k3 di trattato U.E.
- Si deve tenere conto della “ospitabilità” dei reati colposi in base alla L. 300/2000 secondo i principi generali del D. Lgs. 231/2001.
Detta riserva, non ancora sciolta dal legislatore delegato, impone (delega) di strutturare oggettivamente l’illecito tenendo conto della possibile interruzione del nesso eziologico non ad opera di condotte fraudolente di apicale e dipendente, ma di colpose condotte positive e negative che in violazione di specifici obblighi abbiano causato eventi- reati (e danni ingiusti a terzi). Così, l’incidenza interruttiva sul nesso eziologico ad opera di condotte colpose deve valutarsi secondo i principi civilistici e penalistici della causalità diretta, con gli accorgimenti di cui sopra in materia di corretta applicazione della causalità anche per gli illeciti commissivi mediante omissione. Poiché i fatti colposi con evento-reato colposo possono essere dovuti anche ad apicali, ne deriva la necessità di configurazione oggettiva unitaria delle modalità oggettive del fatto di illecito amministrativo. L’esclusione della responsabilità deve concentrarsi sul momento eziologico oggettivo, se la causa generatrice dell’evento-reato è del terzo che abbia voluto sganciare la propria condotta dai modelli oggettivi di colpa specifica di cui infra. Con gli artt. 24 e 25, anche per gli enti privi di personalità giuridica, gli eventi reato erano presi dagli artt. 316 bis, 316 ter ,640 I comma n.1, 640 ter, 317, 318, 321 e 322 I e II comma, 319, 319 ter I comma 320, 321, 322 II e IV comma.
Con l’art.6 comma I D.L. 25.9.2001 n. 350, conv. con mod. ex L. 23.11.2001 n. 409 vi fu l’estensione agli artt. 453, 454, 460 e 461, 457, 464 c.p. Con l’art. 3 comma II D. Lgs. n. 61/2002 è stata infine estesa ai reati societari di cui infra, mentre con l’art.3 c. I l.14.1.2003 n. 7 ai delitti con finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico e, poi, con l’art. 5. comma I L.11.8.2003 n. 228 agli artt. 600, 600 bis, 600 ter, 601, e 602 c.p. Per l’ambito societario (art. 2621 e segg. c.c.), quindi, a parte i rilievi ipotetici di Salafia sulla inconfigurabilità della formazione fittizia del capitale, indebita restituzione dei conferimento ai soci , ripartizione illegale di utili e riserve, illecite operazioni su azioni o quote sociali della controllante, le considerazioni pur autorevolmente fatte sulla decisività a fini scusanti della predisposizione sia di idonei modelli esterni ed interni, sia del controllo preventivo e dell’approvazione preventiva delle decisioni di gestione non appaiono del tutto accettabili.
- La composizione oggettiva e soggettiva del reato-evento.
Sempre in tema di elemento strutturale dell’illecito, esso deve essere pacificamente corredato altresì dal prescritto elemento soggettivo in capo agli organi rappresentativi o di vigilanza (possiamo parlare così di “rappresentanza legale” dell’ente per vigilanza) che cada sul fatto del terzo, apicale o dipendente che sia.
L’organo che materialmente ha posto in essere il fatto illecito lo deve aver a sua volta commesso con il prescrritto elemento psicologico doloso o colposo, non riferito al reato, ma riferito alla esatta percezione della propria qualifica professionale e connotato dalla rappresentazione della deviazione della propria condotta dai fini istituzionali e dalle norme di correttezza legale e societaria o d’impresa .
Questa rappresentazione deve connotare la riferibilità della sua condotta al ruolo funzionale ricoperto ed è prevista dai principi sulla responsabilità soggettiva amministrativa. Questo coefficiente quantomeno colposo riferibile alla funzione deve tuttavia a sua volta essere riportabile ad un parallelo coefficiente colposo solo in parte ricavabile dalla oggettività della colpa specifica.
In altri termini, l’esistenza e l’idoneità ex ante (prognosi postuma), pur consigliata dalla miglior dottrina penalistica sul punto, del modello e il funzionamento della vigilanza non esclude la responsabilità, se sussiste causazione colpevole, mentre la mancanza o inidoneità anche astratta del modello nulla ha che a vedere con la causazione e la colpa dell’ente, applicandosi in ogni modo ai principi dell’illecito su tratteggiato.
- Rilievi sui codici di comportamento.
Acutamente sono stati difatti analizzati da Elena Busson (quelli che difatti non si sono qualificati come tali!) i “codici etici” (?), costituiti dalle “linee guida” ABI e Confindustria, pur diversamente impostate, in quanto esse “rinviano” all’autonomia del singolo ente la determinazione delle modalità indicate dalla legge. Appare, come detto, verosimilmente non consigliabile, alla luce della delegabilità incrementata con la riforma societaria, l’estensione formale della regolamentazione interna di profili tipici di colpa, in quanto essi potrebbero avere effetti di deformazione prospettica sulla individuazione pretoria dell’attitudine causale delle formali omissioni dell’impresa rispetto al fatto del terzo apicale o dipendente (o vigilatore che abbia co-partecipato all’illecito penale). Bene dubbi ha espresso S. Bartolomucci sulla rilevanza dei codici di comportamento comunicati al Ministero e da regolamentare, munibili esclusivamente di contenuto precettivo prevenziale ma generico. Anche l’autonomia dell’organo dell’ente di vigilanza potrebbe identificasi con il consiglio di sorveglianza, anche se difficilmente a nostro avviso in quanto rappresentativo. Il tema andrà sviluppato.
Ha pregio quanto osserva R.Rordoff sulle difficoltà di individuare le fonti di tali “parastatuti” (l’espressione è nostra) ipoteticamente quali norme relative al funzionamento della società (che l’art. 2138 c.c. include nello statuto), nonché i problemi di coordinamento con controlli e vigilanza già presenti. A meno di (come pare inevitabile) affidare ad un organo dell’ente, ma atipico in quanto “professionalizzato” con la presenza di terzi.
Questa difficoltà di vedere un sistema ulteriore e parallelo di “Corporate Governance” di modelli e per organi, concorrente internamente con quello codicistico (civile, penale, tributario) e statutario delle società e delle imprese non soggettivizzate, sembrerebbe lasciare irrisolto il problema della tipicità colposa in quanto riconducibile alla cd. “colpa di organizzazione”, che si vuole autonoma e sganciata da quella (sia pur articolata come sopra) dell’autore del fatto. Se consentiamo con la concezione normativa della rimproverabilità, ad essa tuttavia aggiungiamo il profilo psicologico della colpa sotto il profilo della necessaria presenza agli organi rappresentativi del vuoto di controllo, cui unicamente deve ascriversi la responsabilità, queste osservazioni devono concludersi con un reciso ritorno alla struttura oggettiva dell’illecito come fotografato esaminando il D.L. 231/2001 nell’immediatezza della sua approvazione, in quanto non ci pare che i pur diffusi ed autorevoli contributi del triennio decorso abbiano mutato il fuoco verso la più verosimile struttura esegetica della fattispecie di illecito. Anche se è indifferente la qualificazione quale penale o meno, certo essa non pare criminale solo per il dato – ad esempio – che non è applicabile rispetto ai reati la specialità ex art.15 c.p., né la disciplina del concorso fra ente e autori del reato. Difatti, non può essere ascritta la responsabilità alla società qualora tutti gli apicali commettano reato né qualora il titolare della rappresentanza organica, che unico potrebbe veicolare la responsabilità all’ente, sia compartecipe nel reato.
- La colpa non si presume.
Pur non condividendo la costante lettura in termini di presunzione di colpa che ancora troviamo nella recente magistratura dottrinaria condividiamo, dato lo stallo che ci induce a scrivere, la difficoltà dei requirenti di agire sull’erroneo presupposto si tratti di responsabilità oggettiva mascherata, posto che ancora “si presume” che la colpa “si presume” nell’illecito amministrativo.
Conviene così addentrarci in conclusione, seguendo i canoni ermeneutici formal-sistematici della scuola torinese, su alcuni malintesi (evitabili) in ordine a quanto la disciplina di settore dice sui criteri di imputazione all’ente dell’evento–reato accertato incidentalmente come completo del fatto e della sua rilevanza penale anche in termini soggettivi (l’art. 8 lett. a) che esclude l’irrilevanza agli effetti penali della non imputabilità non toglie la valutabilità dell’elemento psicologico). Le convezioni internazionali, comprese la PIF, attuate o inattuate internamente, indicano di sanzionare enti e rappresentanti qualora gli eventi reati siano stati resi possibili.
Il legislatore non ha introdotto forme di nuova responsabilità penale a carico delle persone poste all’apice, né, espressamente, fattispecie dolose “agevolative” dell’evento reato del soggetto apicale o dipendente comportanti obblighi dell’ente sanzionabili, se si eccettua l’insieme di enunciati normativi (tutti) in esame. Non è così necessario muovere da un’interpretazione riduttiva del portato normativo per rifiutare apoditticamente presunzioni in ordine ai criteri di imputazione della sanzione all’ente, poiché alla soluzione della compartecipazione psicologica degli organi rappresentativi che trasferiscano all’ente la responsabilità per immedesimazione si giunge sol se si considera che il “modello” generale, anche dovutamente specificato aziendalmente, di per se non è né necessario né sufficiente ad affermare la ricollegabilità della responsabilità alla possibile e conoscibile evitabilità del reato reso possibile dalla violazione degli specifici obblighi dell’ente di attivarsi. La disciplina societaria è oggi profondamente mutata e sono cresciuti e specificati gli obblighi diretti del codice civile e statutari, posti a presidio della corretta attività civilistica degli enti. L’oggetto dell’attività dei controlli ricade espressamente, data la riforma, su molti aspetti di legalità della gestione e integra di per se un sovraordinato modello legale. Anche la norma penale acquisisce qui valenza “sanzionatoria” nel senso accurato recentemente affermato da V. Mormando.
Pur nel suo rifiuto ci pare invero da accogliersi la necessità della “figura complessa di illecito punitivo (amministrativo o ulteriormente …) della persona giuridica, nella cui struttura il reato della persona fisica al completo degli elementi soggettivi ed oggettivi, si atteggi con una sorta di evento imputabile alla prima sulla scorta dei ripetuti momenti di collegamento (che a loro volta assumono una valenza tanto oggettiva che soggettiva) e detta configurazione deve prescindere dal trapianto, verosimilmente conseguente alla strumentazione esageratamente penalistica, di non introdotte nozioni di agevolazione anche nella pura forma colposa Infatti agevolare non è causare, né il dato normativo – come si vedrà- pare propendere in tal senso. Ci richiamiamo alle cospicue opinioni di De Vero e De Simone i quali hanno inteso come agevolazione criminosa colposa la formula “ rendere possibile” di cui anche alla lett.e) dell’art.11. l.300/2000, frazionatamente trasfusa nel testo delegato, muovendo da una ridondante lettura dei principi convenzionali europei. Altresì i chiari autori traggono la diversificazione anche dalla convinzione che il riferimento normativo al ‘vantaggio’ o all’ ‘interesse’ dell’ente costituisca obbiettivamente una forma sostitutiva del meccanismo eziologico di imputazione fra condotta ed evento, di relazionalità anziché meccanismo di descrizione della condotta dell’autore del reato, il quale “non abbia” “collegamento già sul piano della causalità materiale”…. “alcun criterio di imputazione aggiuntivo rispetto al …interesse o vantaggio della societas” (p. 9, op.cit.). Questa ritenuta cesura fra l’imputazione all’ente della colpa “non causativa” di amministratori, controllori e direttori dell’ente, anche di fatto se amministratori e controllori, ovvero preposti a centri direzionali e per altro verso l’imputazione all’ente della colpa per il reato del dipendente è sempre presa per data da De Simone tramite un paradigma costruito negativamente a mo’ di scusante per inversione probatoria, di colpevolezza di organizzazione- cosiddetta misura oggettiva di colpa, mentre per i sottoposti l’enfasi cade di più sul legame eziologico. De Simone riduce all’illecito nella parte oggettiva “del reato” quanto da noi definito ‘reato –evento’, sostanzialmente orientandosi secondo la configurazione di De Vero (che pur ci sentiamo di apprezzare per cautele sulla burocratizzazione dell’impresa economica, per quanto riguarda l’estensione della responsabilità amministrativa anche per eventi illeciti amministrativi e /o tributari amministrativi, chiaramente se de iure condito si verificherà normativa sul concorso di illeciti reale e apparente).
Abbiamo segnalato come le teoriche della agevolazione confliggano con gli schemi di imputazione delle sanzioni all’ente colpevole, secondo la necessaria circolazione di un modello di illecito amministrativo unitaria, nel civile, tributario, amministrativo e penale ambito. Peraltro, quella lettura non pare originarsi da una lettura univoca e sistematica delle norme di riferimento.
Così letta, inevitabili le espressioni valutative di idoneità “minimale”. Se i reati costituiscono elemento normativo “extra-amministrativo” del fatto illecito, essi devono collegarsi col resto del ’fatto’ illecito amministrativo, che si riduce in ragione dell’estensione del concorso di persone nel reato. Per l’art. 6 comma 1 lett. A) del 231/2001 anche il reato tentato rileva, mentre per l’art. 2 L. 689/81 il fatto deve ascriversi a titolo colposo (rimprovero perché evitabile).
- Riproponiamo la prima lettura della fattispecie. Va distinto il profilo della condotta delittuosa da quello del meccanismo di imputazione.
La parte generale è monca e va così integrata. Il paradigma giuridico è nuovo e ciononostante deve adattarsi, integrandoli, agli istituti applicabili.
Tutte le operazioni ermeneutiche debbono prescindere dai profili qualificatori di carattere ontologico, che peraltro risentono spesso di connotazioni simboliche variabili con la geografia e le culture. Meglio un criterio intraordinamentale, con riferimento alla sanzione ed alla parte generale regolativa dell’illecito. Se fosse lacunoso il testo, anche tramite le preleggi potrebbero pescarsi principi dalla L 689/81, ovvero dall’ordinamento. Non osta la natura pubblica dell’azione per altro conosciuta anche nel civile, e mancante nel processo amministrativo stante l’interesse privatistico e la giurisdizione di annullamento. Aggiungasi la residualità della nozione amministrativistica e la vigenza citata dell’art. 12 della L. 689/1981.
Certamente principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità di cui al capo I del 231/2001 sulla struttura della fattispecie e sugli elementi costitutivi, nei loro rapporti interni e con l’elemento soggettivo, non sono sufficienti a risolvere tutte le questioni applicative, ove le enunciazioni generali derogatorie non siano sufficienti.
Gli articoli 5,6 e 7 concernono i principi di costruzione dell’illecito.
L’art. 11 della delega al comma I lettera e) – come detto – prescriveva la responsabilità del reato reso possibile dall’inosservanza degli obblighi funzionali. Di qui la lettura in termini di causalità anche dato il riferimento ex art. 3 L. 689 a dolo e colpa i quali, tramite l’art. 43 c.p. (confermato dal 2043 c.c.), postulano il principio causale ex art. 40 c.p., integrato dal secondo comma “non impedire l’evento che si ha l’obbligo …. equivale a cagionarlo”. Difatti, per gli illeciti commissivi mediante omissione, posto che esista un obbligo di attivarsi per impedire l’evento (reato), se il reato non sarebbe stato commesso se l’obbligo fosse stato adempiuto, il nesso di causalità si è perfezionato. Si rimanda alla nozione extramministrativa di obbligo, ove non sia riempibile dalla legge in commento.
- Segue. La fondamentale indicazione della legge-delega.
Ci domandiamo se il legislatore delegato ha equivocato su tale tenore testuale, se è vero che la delega parlando di obblighi funzionali determinanti allude a tratti di colpa specifica, ad esempio nella lettera e) ove la responsabilità è esclusa se il reato è commesso per esclusivo interesse dell’agente o di un terzo, a prescindere dal fatto che vi sia stata inosservanza degli obblighi funzionali dei soggetti apicali diversi dall’autore del reato, autore che sia apicale o non apicale. Qui, nel caso in cui il reato non sia stato commesso nell’interesse dell’ente, anche se vi sia causalità tra una comprovata omissione funzionale di un obbligo, ritenendosi il rapporto causale e/o psicologico interrotto, non si affermava la responsabilità dell’ente. Non era così differenziato il criterio di attribuzione oggettiva e soggettiva all’ente, criterio oggettivo e soggettivo, in base al se il reato sia commesso dall’apicale o dal non apicale, vale a dire che anche se il dirigente fosse stato a commettere per sé o per terzi il reato, l’ente non ne avrebbe risposto pur in presenza di omissioni che se non effettuate in ipotesi avrebbero potuto impedire il compimento del reato.
Passiamo alla Legge delegata, con queste perplessità sulla lettura “ministeriale” della lettera e). Dal raffronto fra gli artt. 5, 6 e 7 emergono previsioni diverse.
L’analisi più approfondita delle fattispecie “confinata” nella successive note per ragioni di semplicità espositiva del testo e ad essa integralmente ci richiamiamo. Ci preme tuttavia qui sottolineare i seguenti punti. Come anticipato sopra, i riferimenti della legge alle modalità della condotta e del fatto posto in essere dagli autori dei reati non riguardano criteri di imputazione soggettiva della responsabilità all’ente come invece ritenuto surrettiziamente, ma costituiscono modalità descrittive del fatto tipico oggettivo che si identifica con l’evento che, appunto, ci si deve domandare in base a quali criteri, sia eziologici sia psicologici, possa essere imputato all’ente. Il comma II dell’art.5 (responsabilità dell’ente) non contraddice l’affermazione in quanto chiarisce che se gli autori apicali del reato “hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi “ la condotta e l’evento di reato non rileva (ai fini della responsabilità), mentre (comma I) detti reati rilevano in astratto se, da apicali o da dipendenti, in via generale, siano “commessi nell’interesse o a vantaggio” dell’ente. Non deve perciò sfuggire all’interprete[14] che l’evento della fattispecie di illecito amministrativo è costituito in primo luogo a) dal fatto penalmente rilevante oggettivamente e psicologicamente completo, ma in secondo luogo da due elementi ulteriori caratterizzanti un doppio quid pluris: b) un collegamento funzionale con l’ente del soggetto attivo del reato (fra soggetto e ente); c) una caratterizzazione di funzionalizzazione obbiettiva (interesse o vantaggio) rispettivamente della condotta–evento e dell’evento penalmente rilevante verso l’assetto parapatrimoniale dell’ente. Riteniamo che il suddetto coefficiente di antigiuridicità “societaria” sia elemento costitutivo oggettivo della fattispecie di illecito amministrativo e in quanto extra penale possa e debba essere riverberato nell’elemento psicologico dell’agente, il quale potrebbe così configurarsi, quantomeno nella forma dolosa attualmente esistente, come connotato da una finalità specifica che deve andare a ricoprire anche fatti la cui realizzazione non è necessaria tanto per la consumazione del reato quanto, sull’astratto piano oggettivo, che per la consumazione dell’illecito amministrativo. Questo dal punto di vista oggettivo del fatto in astratto rilevante, poiché successivamente il medesimo deve incorrere positivamente nei criteri di ascrizione eventuale all’ente.
- Un unico binario per l’imputazione ad apicali e dirigenti. Facoltatività dei modelli.
Il comma I dell’art. 5 così concerne le modalità descrittive delle caratteristiche del fatto di reato (a) connotandolo con b) più c). A questo punto la legge affronta, biforcandosi negli artt.6 e 7, i temi del criterio di imputazione. Nel caso in cui in astratto il fatto di reato connotato dal quid pluris sia conforme alla fattispecie astratta prevista dall’art.5, per le figure sia apicali che dipendenti, in relazione a quelle apicali la legge organizza il comma I dell’art.6, appunto (sempre) se il reato fu nell’interesse o a vantaggio commesso dagli apicali. Qui la medesima ha a disposizione due alternative: A) ritenere che oltre all’obbligo dell’adozione di modelli idonei a prevenire e l’esistenza dell’organismo autonomo di vigilanza, il quale abbia vigilato a sufficienza, il fatto di reato più quid pluris debba imputarsi per colpa consequenziale se l’autore del reato non ha eluso fraudolentemente i tre controlli di cui sopra; questa impostazione presumerebbe configurato il nesso di causalità fra l’attività dell’ente e l’evento-reato a interesse – vantaggio pur nella compresenza positiva dei tre requisiti appena detti (lett. a, b, d, comma I art.6) e comunque accollerebbe la responsabilità all’ente se non vi fosse (solo per il fatto che non vi sia) la interruzione del nesso eziologico dovuta al verificarsi della lett. c), vale a dire l’elusione fraudolenta dei modelli e della gestione da parte dell’autore del reato, la quale rappresenta, in realtà e in base al principio generale dell’evento imprevedibile interruttivo, certamente esclusione (assenza) dell’elemento oggettivo di fattispecie.
Questa lettura dell’art.6 presupporrebbe però che lettere da a) a d) siano da intendersi quali cumulative e non alternative.
- B) Dare invece per assodato che l’art. 6 (il comma II articola i modelli proporzionalmente all’estensione delle deleghe a rischio di impresa) si occupi del solo caso in cui vi siano modelli, mentre modelli potrebbero non esserci, in quanto l’esistenza di modelli serve per provarne negativamente l’elusione, in caso di perpetrato interesse o vantaggio dell’ente.
La prima impostazione pare da rifiutarsi (A) per via della lettera c) del comma I in quanto l’elusione fraudolenta esclude (comunque) la causalità e in quanto certamente le quattro lettere da a) a d) non possono essere neppure alternative.
Non resta che collocarsi nella prospettiva di B).
L’art.7 sui non apicali, non contraddetto ne dall’art.5 né soprattutto dall’art.6 come detto (che si occupa unicamente dei modelli facoltativi per consentire più facilmente di verificare la fraudolenza interruttiva dell’eziologia colposa), finalmente e con chiarezza recepisce il principio della delega ancorando alla colpa la responsabilità, per “inosservanza degli obblighi di gestione o di vigilanza”. Il comma I dell’art. 7 si occupa dei non apicali applicando il principio generale, mentre aveva con l’art.6 la legge dovuto affrontare (sempre in materia, come l’art. 7) per i reati per interesse o vantaggio dell’ente, dei delicati profili di vicinanza fra gli apicali, proprio per consentire all’ente di chiamarsi fuori attraverso la presa d’atto del difetto di rimproverabilità per colpa di elusioni non fraudolente da parte dell’apicale qualora i modelli fossero efficaci e la vigilanza prestata. In questa chiave pare serio il criterio di imputazione colposa, sulla base della causalità diretta a carattere omissivo. Qui il giudice dovrà verificare sia se il reato non si sarebbe verificato in virtù del rispetto dei modelli da parte dell’ente, quando non avrà verificato che il rispetto dei modelli non avrebbe comunque impedito il reato. Qui anche per gli eventuali reati presupposto colposi il carattere imprevedibile del reato anche non fraudolentemente eluso pare essere suscettivo in termini di causalità di interferire negativamente tanto con il lato normativo – specifico che con quello subbiettivo della colpa.
Per l’art. 7 viene, per i reati nell’interesse o a vantaggio dell’ente, accollato il fatto di reato che “non sia stato impedito”, pur potendosi sicuramente impedire adempiendo agli obblighi di direzione o di vigilanza (causato = non impedito). Il comma II consente di sostituire a cura dell’ente il complesso statutario e codicistico degli “obblighi di direzione o vigilanza” con l’adozione efficacemente attuata del modello. Anche qui lo spazio discrezionale del giudicante in ordine alla verifica della colpa è ristretto e causato.
Per i futuri reati-evento colposi richiamiamo quanto sopra in tema di “deformazione” interna della parte generale della legge in commento .
- Ancora sugli artt. 5, 6 e 7 del D. Lgs. 231/2001
Fatte queste sintetiche osservazioni, non ci sembra che l’interpretazione di cui alla relazione ministeriale possa essere vincolante, soprattutto se possa portare a profili di incostituzionalità.
Il particolare, ritengo che, per quanto osservato in precedenza, sia richiesto per la responsabilità amministrativa comunque tanto il collegamento causale citato quanto il coefficiente colposo psicologico, nel senso che sia comunque onere della prova per affermare la responsabilità sia la derivazione causale del reato dalla violazione di uno specifico obbligo fissato dalla legge in capo all’organo dirigente, tanto per i reati degli apicali quanto per i reati dei non apicali.
La lettera c) del comma I dell’art. 6 può interpretarsi alla luce della evidente considerazione in base alla quale il fatto che addirittura un dirigente vada a compiere un reato nell’interesse della società senza alcun accorgimento per evitare che tale reato venga accertato secondo le procedure dei modelli ovvero ad opera della vigilanza degli altri dirigenti non correi appare giustificare la responsabilità dell’ente impersonato da altri dirigenti.
L’omissione nell’art. 6 della scriminante (in senso atecnico) dell’interesse esclusivo proprio o di trerzi, può essere integrata dal comma 2 dell’art. 5, per cui la responsabilità è esclusa per l’ente.
- La nozione di reato commesso ad interesse o vantaggio anche parziale (art. 5 D. Lgs. 231/2001).
Un’altra condizione è fondamentale. Al comma I dell’art. 5 si richiede che i reati, per ritenersi collegati e comunque causati dalle omissioni colpevoli dell’ente debbano essere stati commessi (anche o solo) nell’interesse dell’ente o a vantaggio dell’ente stesso.
E’ chiaro che il problema non concerne eventuali ipotesi di concorso doloso nell’illecito di apicali o non apicali ad opera di altri apicali o non apicali.
Sorgerà spesso questione relativa ad un’area liminale rispetto all’illecito amministrativo ed ai reati conseguenza, con riferimento a quelle condotte attive od omissive poste in essere dagli organi dirigenti non correi, vale a dire che non costituiscono o per difetto di contributo causale concorsuale o per difetto dell’elemento psicologico diretto o indiretto ai fini della compartecipazione nel reato indice di esclusione da parte del dirigente che l’abbia poste in essere dall’ambito della responsabilità amministrativa dell’ente. Se è necessario, come anticipato, che l’omissione o l’azione colposa dell’organo dirigente sia riferibile all’ente in termini di coefficiente di riferibilità soggettiva, tale riferibilità deve essere veicolata da un soggetto fisico impersonante l’ente nelle sue funzioni dirigenziali e diversa dall’autore o dagli autori del reato, potrebbe darsi che in varie occasioni il rappresentante dell’ente sia rimasto inerte, consapevolmente, di fronte alla sua rappresentazione o alla previsione anche nella forma eventuale di reati comuni da parte di altri dirigenti, di delegati, o sottoposti muniti di poteri.
Chiarito che l’ambito oggetto di esame e costituito dal rapporto fra l’area della colpa dell’ente e l’area esclusiva dell’illecito penale, qualche breve considerazione va fatta sul significato del primo e del secondo comma dell’art.5. Al comma I in via generale il legislatore include fra i reati rilevanti quelli commessi rispetto alla società nel suo interesse o a suo vantaggio. Al comma II tuttavia, con riferimento ai soggetti apicali e solo quelli, esclude detta rilevanza del reato se compiuto dagli apicali nell’interesse esclusivo proprio o dei terzi.
Perciò nel comma I è enunciata la regola generale, con distinzione fra interesse a vantaggio, mentre nel comma II il collegamento tra colpa e reato viene escluso se sussiste frattura del nesso eziologico a causa di una condotta delittuosa o di reato effettuata nell’interesse non dell’ente. Data la distinzione tra i due concetti, varranno le considerazioni che effettueremo in seguito sulla dimensione soggettiva dell’interesse e su quella obbiettiva del vantaggio. Va in questa sede tuttavia rimarcato che detta interruzione del rapporto causale fra colpa in vigilando, generica o specifica, e reato non sussiste più in base all’art.7, molto più severo, nel caso dei reati commessi da sottoposti non apicali.
L’ambito della astratta responsabilità pertanto qui si estende a dismisura. A riguardo si richiama la dibattuta questione della delega di funzioni.
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Aggiungasi per completezza che il reato evento è preso come elemento costitutivo della fattispecie di illecito amministrativo attraverso una qualificazione della legge autonoma rispetto a quella penale, quale fatto materiale di reato assistito dalla colpevolezza prescritta. Il legislatore ha tuttavia mantenuto la nozione penalistica e si eccettuano le cause di estinzione del reato diverse dalla prescrizione o dall’amnistia propria.
Problemi potrebbero sorgere sulla prescrizione in quanto in apparenza essa apparirebbe considerata come condizione di procedibilità per l’illecito amministrativo, per cui alcuni interpreti avrebbero ritenuto che essa non precluderebbe gli effetti delle misure cautelari. A riguardo abbiamo alcune perplessità visto che la prescrizione del reato ha indubbiamente effetti sostanziali sullo stesso e il legislatore sembra averla inclusa.
Le condizioni di procedibilità del reato escluderebbero agli effetti amministrativi il carattere di reato evento ai fini della responsabilità dell’ente.
Anche il reato improcedibile ( per difetto di querela, istanza, richiesta etc….) è evento costitutivo dell’illecito amministrativo. A questo ultimo proposito si accenna solo alla questione paradossale, certo non voluta dalla scelta legislativa dell’”autonomia” fra illecito amministrativo e reato, costituita per così dire dalla confusione fra piano sostanziale dell’illecito e quello processuale.
Quid juris se la querela, ad esempio, non è ancora stata proposta.
Iniziata l’azione amministrativa di responsabilità, ne consegue il proscioglimento dell’ente (come sembra) o la dichiarazione di improcedibilità, o la sospensione del procedimento?
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L’espressione letterale “commesso nell’interesse”, se coordinata con il comma II dell’art. 5, dove si parla di “agire nell’interesse” senza menzione del “vantaggio” parrebbe poter alludere al fatto che “l’interesse” sia qualcosa di analogo all’oggetto di un dolo specifico, vale a dire ad una finalità di scopo. In altri termini, se la riferibilità del reato all’ente viene esclusa, vale a dire se il legame funzionale fra l’ente e l’evento reato viene interrotto dal comportamento fratturante dell’apicale o sottoposto infedele che polarizzi la sua condotta illecita al proprio esclusivo interesse, economico o non, e se detto legame e comunque interrotto a prescindere dal diretto o indiretto obbiettivo vantaggio economico o non per l’ente, ciò appare far propendere per una distinzione tra l’obbiettività del vantaggio e la soggettività dell’interesse, anche tenuto conto del fatto che la legge ha distinto tra le due nozioni.
Anche l’espressione “commesso nell’interesse” è diversa da quella di “agire a vantaggio”. Conseguenza interpretativa potrebbe quindi essere che la legge amministrativa considera come elemento costitutivo obbiettivo, come si vedrà anche nella forma puramente tentata, il fatto materiale di reato investito dal correlativo elemento psicologico in sé e per sé preso, prevedendo tuttavia che detto fatto sia soggettivamente direzionato al conseguimento di un interesse anche concorrente con quello di chi agisce obbiettivo dell’ente. Anche al comma I dell’art.5 la legge distinguendo tra interesse e vantaggio con la “o” alternativa, sembrerebbe voler sanzionare l’ente colpevole indipendentemente dal conseguimento di un vantaggio obbiettivo. Così parrebbe valere anche l’inverso, nel senso che, in linea generale, se ci si limitasse a tale comma I, non scriminirebbe la mancata polarizzazione dell’azione di reato verso l’interesse dell’ente, essendo sufficiente l’obbiettivo conseguimento del vantaggio da parte del medesimo. Questa apparente anomalia potrebbe spiegare da un punto di vista sistematico perché il legislatore sia intervenuto con il comma II escludendo la riferibilità all’ente delle conseguenze amministrative del reato tuttavia esclusivamente polarizzato verso l’interesse dell’autore.
Le seguenti considerazioni vanno tuttavia cautelate, ma se avessero pregio potrebbe ritenersi che l’elemento normativo costituito dal reato conseguenza sarebbe arricchito da un ulteriore elemento normativo extra amministrativo perché penale costituito da uno scopo dell’agente che lo rende rilevante indipendentemente dal suo conseguimento, con la correzione normativa di cui al secondo comma nella sola ipotesi in cui per così dire questo dolo specifico abbia per oggetto l’interesse proprio dell’autore. Così, per il comma I l’ente risponde anche se il vantaggio non si è verificato ma a condizione che il reo abbia commesso il reato nell’interesse dell’ente.
Per il comma II invece l’ente non risponde se il reato è stato compiuto avendo di mira non l’interesse dell’ente, anche se l’interesse dell’ente è stato oggetto del vantaggio del medesimo, pur non voluto.
Di scarso aiuto pare la Relazione ministeriale nel distinguere tra un giudizio ex ante ed un giudizio ex post, con riferimento rispettivamente all’interesse o la vantaggio. Semmai detta distinzione potrebbe essere di ausilio con riferimento al reato evento nella forma tentata, compiuta od incompiuta che sia.
Posto difatti che anche il reato tentato costituisce elemento costitutivo dell’illecito, potrà darsi che l’autore o i concorrenti con il medesimo abbiano voluto agire anche nell’interesse dell’ente o esclusivamente per è o per atri. La condotta potrà essere stata o meno perfezionata e nei reati ad evento è necessario che sia stata integrata compiutamente. Ma poiché per definizione il reato non è stato consumato, il vantaggio non si darebbe mai se non fosse distinto dall’interesse. Così, il profilo dello scopo sopra accennato pare riproporsi anche per il tentativo.
Il fatto che i reati attualmente previsti come reato evento non annoverino nella propria schiera forme colpose o, forse, forme ad evento naturalistico, non significa che il problema tuttavia non si possa porre, per eventuali, come voleva la legge delega, reati ad evento e colposi, commissivi od omissivi. In altre parole, nel caso in cui detti reati accedessero nel novero in futuro, dovrebbe affrontarsi anche con riferimento ad essi il profilo della distinzione fra interesse e vantaggio.(NOTA)
Il problema si è che, come ingenuamente riconosciuto nella relazione ministeriale, il legislatore delegato ha riconosciuto di aver costruito nella parte generale della legge la struttura dell’illecito come se esso presupponesse quali reati evento solo reati dolosi. Ci sembra difficile immaginare un reato colposo commesso nell’interesse di qualcuno.
Senz’altro non può immaginarsi che da un disastro ambientale o da una morte del lavoratore derivi alcun vantaggio per l’ente, né che la colpa abbia in sé coefficienti di finalizzazione.
Il vantaggio potrebbe essere stato una delle motivazioni di fatto della colpevole commissione od omissione causativa del disastro, ma certo non è quella la nozione voluta dai commi I e II dell’art.5. Pertanto, in materia di eventuali reati colposi appare difficile distinguere e dare un significato ai commi I e II, nemanco considerando equipollenti le espressioni interesse e vantaggio.
Conseguenza ne è che emergerebbero seri profili in ordine alla distinzione fra reati intranei o estranei all’ente. Verosimilmente, detta parte generale andrebbe integrata con riferimento ad altri indici di distinzione e con maggiore ancoraggio tanto al nesso causale quanto al contenuto normativo della colpa.
Poiché in ogni caso la responsabilità per l’illecito amministrativo e colposa, non è necessario che l’evento umano costituito dall’illecito penale sia oggetto della previsione dirigenziale del non corresponsabile.
Parimenti vale per le circostanze del reato. Quello che conta e che conterebbe è la evitabilità dell’evento reato anche nella forma tentata attraverso l’attuazione degli obblighi impostati sugli organi dirigenti.
8) Cenni sulla colpa nell’illecito amministrativo commissivo, con riferimento all’art.7 D.Lsg.231/2001.
Ci riserviamo di approfondire la riflessione sulla responsabilità per condotte penali degli apicali e ci limitiamo qui a segnalare, per i reati dei sottoposti all’altrui direzione ex art.7 che anche qui l’ente commette illecito se colpevolmente non impedisce, dovendolo, in esecuzione di obblighi specifici e generici, che reato venga commesso.
Questo in sostanza nel comma I.
Qualche problema tuttavia viene posto dall’esegesi del comma II che dice che “in ogni caso si danno per osservati gli obblighi di direzione o vigilanza se l’ente abbia ed attui idoneo modello organizzativo”.
Fermo che la prova della inidoneità del modello tocca al titolare dell’azione di responsabilità, il problema si pone nei casi in cui l’organo o gli organi dirigenti che non versano nell’illecito penale abbiano per un verso adottato modelli idonei, ma per l’altro pur non omettendo, pongano in essere comportamenti tali da costituire delle condizioni idonee al verificarsi di condotte criminose intraprese nell’interesse dell’ente ovvero nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.
Ancora, il comma II, con l’espressione “in ogni caso” sembrerebbe letteralmente prevedere che sia sufficiente l’attuazione di idonei modelli organizzativi etc. per ritenere assolto l’obbligo di direzione o vigilanza la cui omissione avrebbe costituito orientamento colpevole dell’ente.
Se non correttamente interpretata, l’espressione “in ogni caso” potrebbe porre rilevanti questioni di trattamento contraddittorio ed iniquo per i casi in cui l’attuazione degli obblighi di direzione e di vigilanza calata nella realtà ponga problemi di causalità positiva, nel senso che l’impedimento dell’evento reato debba essere assicurato da comportamenti omissivi e non commissivi dei dirigenti.
9) Brevi riflessioni sull’autonomia dell’illecito amministrativo colposo agli effetti sostanziali.
Il fondamentale art.8 della legge in commento, come anticipato, dà nozione extrapenale del reato in quanto impone al Giudice di accertare l’illecito amministrativo in presenza di reato completo di elemento oggettivo e soggettivo a prescindere dalla identificazione del suo autore o dalla sua non imputabilità.
Sulla imputabilità ci riserviamo l’approfondimento in quanto sembrerebbe di essere in presenza, ci si consenta la battuta, della situazione disciplinata dal secondo comma dell’art.2 della L.689/1981 in tema di sorveglianza di incapaci.
Data l’apoditticità del caso, e comunque la contraddizione dell’istituto rispetto alla delega e ai principi della stessa legge che alludono a reati dolosi sicuramente ed eventualmente colposi in caso di future modifiche, ci preme toccare il tema della non identificazione del soggetto.
Analogamente al caso dell’estinzione del reato ad esempio per morte del reo, magari reato nemanco accertato dal Giudice competente, ciò pare imporre una considerazione. A prescindere dalle ragioni di economia processuale che hanno indotto il Legislatore ad optare per la tendenziale simultaneità degli accertamenti del penale e dell’amministrativo, se i criteri dell’accertamento dell’illecito sono autonomi fra loro, riteniamo che il giudice abbia il potere di procedere ad accertamento incidentale della sussistenza del reato, indipendentemente dallo stato e grado del processo a carico degli autori del rato.
A parte i delicati problemi relativi alla revisione che pur utilmente pare essere stata prevista, ci sembra che le differenti statuizioni rese in vari eventuali fasi e gradi di procedimenti diversi e distinti non possano avere influenza normativa reciproca.
Ciò è consentito sia dalle norme dell’Allegato E del contenzioso amministrativo, sia dalla diretta incisione della Legge che ci occupa ad esempio sull’art.24 della L.689/1981.
Certamente l’A.G.O. penale è esclusivamente competente in materia di illecito e se può essere investito dell’accertamento dell’illecito indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale obbligatoria, sorge l’autonomia dell’azione amministrativa del Pubblico Ministero, su cui si trasfonde il principio sostanziale conosciuto dal diritto civile dell’onere della prova e processual penalistico delle regole della prova.
10) Brevi osservazioni sulla struttura sanzionatoria.
Analogamente al diritto penale può parlarsi di rapporto di accessorietà tra sanzioni interdittive e principali. Il carattere aperto delle sanzioni costituiscono un segno di divergenza rispetto agli istituti conosciuti sotto il profilo della proporzionalità – adeguatezza, del quantum etc. (frazionabilità, estrema ratio, cumulatività, definitività, scelta, esigibilità con riferimento a quelle accessorie). La pubblicazione della sentenza di condanna e la confisca porranno problemi di armonizzazione con le sanzioni accessorie penali. Interessante sarebbe lo studio dei rapporti con l’art.20 della L.689/1981, ovvero con l’art.8 bis della medesima legge.
Ancora in ordine al trattamento sanzionatorio, meriterebbe trattazione a parte il problema della operatività delle cosiddette circostanze eventuali dell’illecito e dei rapporti concreti fra circostanze amministrative e circostanze penali.
11) Alcuni sintetici riferimenti ai problemi strutturali relativi al contenuto della parte generale della legge in commento.
Ho detto che mancano assetti normativi di regolazione di alcune questioni interpretative e di alcune questioni applicative con riferimento a pacifici principi generali dell’ordinamento in materia di sanzioni amministrative riferite ad illeciti amministrativi, di cui sinteticamente diremo.
L’impianto normativo non pare poter sostenere l’introduzione tout court di nuove fattispecie di reato evento, specie a carattere colposo.
Ancora, l’impianto della legge delegata pare essere sovradimensionato per quanto riguarda l’aspetto del danno, profitto, misura cautelare, natura degli enti in astratto responsabili a matrice civilistica etc., in quanto i reati per lo più richiamati ad oggi tendenzialmente non comportano questioni oggetto della disciplina generale. Ma quel che più sorprende è che la legge, se non integrata o in quanto lacunosa o con riferimento diretto ai principi generali, con i principi della legge 689/1981, non possa obbiettivamente funzionare.
In tal senso comunque pare poter essere interpretata la volontà del Legislatore delegato, che sia nella Relazione ministeriale sia ricorrendo a numerose specifiche disposizioni normative, non intendendo richiamare espressamente i principi contenuti nella L.24.11.1981 n.689, quando ha voluto specificarla o discostarsene lo ha fatto espressamente.
In altri termini, se l’art.12 della L.689/81 estende sé stesso e la legge al futuro e agli artt.13 e 14 della medesima non sono compatibili all’ipotesi integratrice, abbiamo segnali univoci dalla legge in commento.
Ad esempio all’art.10 sulla sanzione amministrativa pecuniaria, il comma IV interviene solo per negare il pagamento in misura ridotta, evidentemente sul presupposto che diversamente sarebbe stato consentito. Altra conferma viene ad esempio dall’art.11 della 689/1981, nella misura in cui viene “riscritto” dalla legge in commento. Sempre la tecnica della riscrittura utilizza la L.231/2001 in materia di criteri di commisurazione delle sanzioni. Gli esempi sono innumerevoli, ma tutti si orientano nel senso della necessaria integrazione, ove la nuova legge non interviene per derogare, aggiungere, o ridisciplinare integralmente settori di materie.
Il richiamo espresso a norme procedurali penali può essere letto come necessario in quanto non desumibile dai principi generali dell’ordinamento.
Fra i tanti principi che meriterebbero considerazione ai fini di integrare la legge, potrebbe aprirsi una interessante discussione in ordine all’applicabilità per quanto riguarda la L.689/1981 dei suoi articoli 4( cause di giustificazione del reato e dell’illecito), 5 (Corresponsabilità nell’illecito amministrativo fra società), 6 (Responsabilità amministrativa dei proprietari di cose o valori), 6 comma III ( solidarietà: esclusa), 6 comma IV ( profili di regresso sociale verso l’autore della violazione: con interessanti profili di costituzione di parte nel processo penale contestuale da parte dell’ente “imputato” di illecito amministrativo), art.7 ( trasmissibilità: diversamente regolata dalla legge attuale), 8 ( ancora qui dove non vuole la L.231/2001 modifica). Dette ipotesi sono puramente esemplificative e sulle medesime ci riserviamo ogni idoneo approfondimento.
12) Uno sguardo di insieme e qualche cenno sui reati evento.
I primi esperimenti applicativi debbono partire dai reati: indebita percezione di erogazioni; truffa in danno dello Stato o di ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche; frode informatica in danno allo Stato o di ente pubblico (in pratica solo i reati previsti dagli artt.316bis, 316ter, 640 comma II n.1, 640bis e 640ter del codice penale); concussione e corruzione (in pratica solo i reati previsti dagli artt. 317, 318, 319, 319ter comma I, 321, 322 del codice penale); per effetto dell’art.6 del D.L. 350 del 25.09.2001, dopo l’art.25 della legge in commento è inserito l’art. 25bis (falsità in monete in carte di pubblico credito ed i valori in bollo), che prevede sanzioni pecuniarie e interdittive riferite agli artt. 453, 454, 460, 461, 455, 457, 464 comma II, 459, 464 comma I c.p.
Una breve lettura degli artt. 24 e 25 del decreto legislativo in oggetto può essere in definitiva utile in chiusura delle più che parziali e provvisorie ed osservazioni presenti.
L’art. 24 prevede una più che modesta sanzione pecuniaria per la malversazione ai danni dello Stato commessa dai privati (art.316bis c.p.: non destinare risorse pubbliche ad attività di pubblico interesse) ovvero per l’indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato (o delle Comunità: art. 316ter c.p.), ovvero per la truffa ai danni dello Stato o di altro ente pubblico o per ragioni di esonero (art.640 comma II n.1 c.p.), aggravata se per il conseguimento di erogazioni pubbliche ( art.640bis c.p.), o per frode informatica ( 640ter c.p.), se commessa in danno dello Stato o di Altro ente pubblico, vale a dire se aggravata (art.640 comma II n. 1 c.p.).
Va da sé l’osservazione che detti richiami appaiano puntuali in materia di enti collettivi non esercitanti pubblici poteri.
Diverso il discorso per i delitti di corruzione compiuta dal pubblico ufficiale e impropria ( art.318 c.p.c.), il cui richiamo interessa ( tolte le ipotesi concorsuali del privato non corruttore con il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblica sicurezza) solo ex art. 321 c.p., che riferisce al privato il reato, così come accade per l’istigazione alla corruzione ex art. 322 c.p. commi I e II.
Il comma II dell’art. 25, nel richiamare la corruzione propria del pubblico ufficiale non aiuta la nostra materia sia perché l’art. 319ter c.p. è puramente aggravatore al comma I, in quanto centrale è il richiamo all’art. 321 c.p. di estensione al privato infedele, così come accade per l’art. 322 commi II e IV c.p. ( anche se il comma IV dell’art. 322 riguarda per reo il P.U. o l’incaricato di pubblico servizio). Il riferimento del terzo comma dell’art. 25 alla concussione ( art.317 c.p.) – il richiamo agli art. 319 – 319bis c.p., stride (salvo i casi del coinvolgimento dell’ente privato nelle illecite forniture o impieghi) con la natura privata degli enti responsabili dovendosi in parte rammentare che il profitto è di difficile configurabilità nella materia che attualmente ci occupa con riferimento a enti come ospedali, scuole, ordini professionali etc. Anche il riferimento all’art.319ter comma II, appare difficoltoso perché non riferito al primo comma, che richiama l’art. 319 c.p., e quindi relativo al solo P.U. il quarto comma dell’art.25, che per i contenuti del comma I e del comma III richiama tutti i soggetti previsti nell’art. 320 c.p. (incaricato di pubblico servizio) e dell’art. 322bis c.p. (soggetti pubblici) si limita difatti ad alludere, senza richiamarne espressamente l’estensione ex art.321 c.p., a soggetti i quali, tolti i profili dei pubblici servizi svolti da enti privati o da enti appartenenti alla cosiddetta zona grigia (ACLI, ordini professionali, ospedali etc.), non troviamo nel contesto degli enti cui la legge ha voluto ricondurre la responsabilità amministrativa.
Se questa banale ma basilare osservazione conclusiva può ad oggi fugare i timori che la normativa in commento, eccettuati pochi casi, possa suscitare preoccupanti conseguenze sul piano della società civile date le carenze strutturali della disciplina, non mi resta che auspicare, questa volta de jure condendo ma sempre per ragioni de jure condito un tempestivo ma reciso intervento sull’impianto normativo appena licenziato.
[1] I reati presupposto …cit. infra. Altresì Norma e sanzione comunitaria dell’illecito, in estratto in Sito OLAF, in corso di ampliamento.
[2] Auspichiamo che questo contributo non sia inutile, verso i rilievi di I. Caraccioli (Imputato-società, alzatevi!, in Gli oratori del giorno, n. 8/2003, p. 17 e seg.), che, commentando il tardo decreto attuativo (D.M. 26 giugno 2003 n. 201), ha fortemente stigmatizzato incauta (apparente) introduzione di una specie di profilo “causale-colposo”.
[3] I. Caraccioli, Manuale di Diritto penale. Parte generale, Padova, Cedam 1998 a p. 323 con riferimento al riflettersi del contenuto normativo della colpa specifica in quello che nel testo abbiamo inteso come aspetto psicologico della colpa (generica), su cui in sintesi l’A. imposta la distinzione; G. Marini, Lineamenti del sistema penale, Torino, Giappichelli, 1988, il quale da p. 473 a p. 517, con focalizzazione a p. 486, distingue le componenti generiche della colpa quali elementi oggettivi della medesima e a p. 487 sposta verso l’ambito soggettivo l’analisi sotto il profilo soggettivo della prevenibilità o evitabilità dell’evento, nella classica linea di M. Gallo (mancato controllo del momento volitivo legato all’assenza riprovevole di rappresentazione), p. 508. Posto che si ritornerà spesso sul tema della connessione della colpa con il nesso di causalità, rinviamo, in particolare, alle pp. 28 e seg., nonché 102 e seg. di Regole cautelari “proprie” ed “improprie” nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate, di P. Veneziani, Padova, Cedam, 2003, il quale rammenta il recente orientamento che riporta la causalità omissiva colposa al piano “reale”, con assimilazione della causalità positiva a quella negativa con riferimento alla probabilità razionale. Bene è ricordare anche in materia di 40 cpv. c.p. la recente Cass. SS.UU. 10.07.2002 in Guida al diritto 2002, p.62 per un rigoroso accostamento in opposizione alla teoria del cd. ‘aumento del rischio’ cui nel testo infra ci siamo permessi di opporci commentando il D. Lgs. 231/2001. Per specifici riferimenti alla colpa in oggetto, v. altresì p. 27 e seg.
[4] I riferimenti sono amplissimi:artt. 1382, 1385, 1353, 1494, 1515, 1516, 1626, 1662, 1696, 1905, 2057, 2058e 2059 c.c.
[5] Sui modelli di imputazione, sia pur senza concentrazione sulla colpa, ma con una penetrante culturalmente enfasi sulle connessioni fra impedibilità e causalità, v. ad esempio p. 386-388 di G.Licci, Teorie causali e rapporto di imputazione, Napoli, Jovene, 1996. Data la limitata sede, per il resto, limitiamo il senso dei seguenti riferimenti alla causalità (nesso eziologico), accettando che il rapporto causale sia “relazione logica”, ma che porta ad una “imputazione giuridica”. Va tuttavia preso atto che il pensiero razional-normativo postula connessioni naturali fra i fenomeni e pertanto “legifera” come se esistesse rapporto di causalità. Di detto ‘come se’ così ermeneuticamente l’interprete positivo pare utile e fecondo tenga conto.
[6] Tema di organizzazione del pensiero ai fini degli ulteriori sviluppi è anche l’art. 1228 c.c. che recita “salva diversa volontà delle parti il debitore che nell’inadempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro”. Questo è un nucleo importante che ritornerà, insieme a quello dell’art. 1229 c.c. delle cd. clausole di esonero da responsabilità (“E’ nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave. E’ nullo altresì qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione di responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico”. E’ importante sotto il profilo anche della non assicurabilità del pregiudizio in materia tributaria (ma di ciò infra).
Ci preme osservare ai fini della riforma che l’art. 1228 c.c. parla espressamente di una possibile diversa volontà delle parti. Quivi se in fase statutaria, in fase negoziale, all’interno della società, o nei rapporti fra la società ed altre società, terzi, consumatori, si articolasse diversamente il negozio relativo al pregiudizio, anche i temi non solo della responsabilità civile (se vogliamo contrattuali) ma anche di quella penale potrebbero essere modificati se è vero che gli istituti del diritto civile vanno in qualche modo ad influenzare gli elementi tipici delle condotte sanzionate penalmente.
[7] Si pensi al tema delle c.d. “sanzioni civili” nelle illeciti previdenziali, che non si sa se riportare all’art. 2248 c.c..
[8] Anche la nozione di “apicale” dovrebbe modificarsi, in quanto sembrerebbero poter fare ingresso nelle società delle nuove figure professionali; idem per il tema se i componenti dell’organo di sorveglianza, dell’organo di controllo sulla gestione, oppure del comitato di controllo sulla gestione, nel caso di opzione per il sistema monistico, possano comportare profili relativi, ad esempio, anche alla lettura dell’art. 2639 c.c. a cui faremo riferimento in seguito.
[9] Non va dimenticato, in ogni modo, il formarsi di momenti di accurata riflessione sul tema della “reintroduzione surrettizia del cumulo” (v. I. Caraccioli-A.Giarda-A.Lanzi, Diritto e procedura penale tributaria – Commentario al D. Lgs. 10.03.2000 n. 74, Padova, Cedam 2001; altresì I. Caraccioli-D. Falsitta Il principio di non cumulabilità tra sanzioni penali e sanzioni tributarie e la sua aberrante motivazione con il decreto delegato n. 74/2000 in Il Fisco n. 31/2000, p. 9747; B. Cartoni, Il principio di specialità nel nuovo di diritto penale tributario: una riforma a metà, in Il Fisco n. 10/2000, p. 2836). Recentemente G. Graziano, Il punctum dolens del principio di specialità tra la sanzione penale e la sanzione amministrativa in materia tributaria, in Rassegna tributaria n. 1/2004, p. 31 e seg. esattamente rileva che la fattispecie penale tramite gli elementi specializzanti oggettivi e soggettivi “specializza” la norma amministrativa. Pur tuttavia, il principio di specialità ex art. 19 comma I D. Lgs. n. 74/2000 (“quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del Titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale”) fa permanere “in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell’art. 11 comma I del D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 472, che non siano persone fisiche concorrenti nel reato”, comma II; con la conseguente asimmetria sotto il profilo del trattamento alle persone giuridiche.
[10] Pensiamo che sia un problema di nomenclatura la contraria opinione di Bellini e Pezzato rispetto a Cerquetti (che sottolineava l’alternatività di queste pene con riferimento ad un’eventuale deroga al principio della cd. pluridimensionalità dell’illecito).
[11] E il caso per me di ricordare il Prof. Siniscalco nel suo splendido volume sulla depenalizzazione (M. Siniscalco, Depenalizzazione e garanzia, Bologna, Il Mulino, 1983), sulle sanzioni amministrative, nonché il recente convegno che si è svolto in sua memoria (AA.VV. in corso di pubblicazione, Aula Magna del Senato accademico di Torino, 26 febbraio 2004).
[12] Norma e sanzione comunitaria dell’illecito, cit.
[13]Questo ci sembra confermato dall’art.13 in materia di atti di accertamento, che fa riferimento agli organi addetti al controllo sull’osservanza di disposizioni per la cui violazione è prevista sanzione amministrativa del pagamento della somma di denaro, che possono, per l’accertamento delle violazioni di rispettiva competenza, assumere tutta una serie di iniziative. Cosa che ci appare compatibile con le omologhe discipline tributarie.
Nel contesto della suddetta normativa il tema dell’applicabilità in astratto ci pare confermato (contra Bellini) nell’art.39 rubricato “Violazioni finanziarie”, dove dette violazioni finanziarie si contemplano espressamente in un punto centrale della disposizione: “sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro le violazioni previste dalle leggi in materia finanziaria punite solo con la multa o con l’ammenda”. In questo punto il riferimento è alle violazioni finanziarie costitutive di reato e quindi di natura sia delittuosa che contravvenzionale.
Al secondo comma “se le leggi in materia finanziaria prevedono, oltre all’ammenda o alla multa una pena pecuniaria, l’ammontare di quest’ultima si aggiunge alla somma prevista nel comma precedente e la sanzione diviene unificata a tutti gli effetti. Alle violazioni previste nel primo comma si applicano le disposizioni della L. 7 gennaio 1929 n. 4 e successive modificazioni, salvo che si diversamente disposto da leggi speciali. In deroga a quanto previsto dall’art.15 della L. 7 gennaio 1929 n. 4 per le violazioni delle leggi in materia di dogana e di imposte di fabbricazione è consentito al trasgressore di estinguere l’obbligazione mediante il pagamento … etc etc. Si applicano alle violazioni finanziarie” (questo è l’ultimo comma) “ comprese quelle originariamente puniti con la pena pecuniaria, altresì gli artt. 27 penultimo comma, 29 e 38 primo comma”.
Questi sono articoli che fanno riferimento all’esecuzione forzata; il penultimo comma dell’art. 27 si occupa del ritardo; l’art. 29 fa riferimento alla devoluzione dei proventi e l’art.38 alla entità della somma dovuta.
E’ interessante considerare innanzitutto che all’ultimo comma dell’art. 39 si specifica che in queste violazioni finanziarie di cui al primo comma sarebbero inclusi i reati originariamente puniti con la pena pecuniaria, dove si parla anche di “altresì” nel senso, sembra, di estendere anche queste disposizioni espressamente citate, presumibilmente oltre a quelle contenute nel corpo della legge la cui applicazione non viene esclusa.
Questa può essere una lettura in quanto la opinione eventualmente contraria sull’applicabilità della L. 689/81 alle sanzioni amministrative tributarie ove diversamente non stabilito, avrebbe potuto essere argomentata, come riteniamo peraltro sia stato fatto, in quanto al secondo comma dell’art. 39 si dice “se le leggi in materia finanziaria prevedono, oltre all’ammenda o alla multa una pena pecuniaria, l’ammontare di quest’ultima si aggiunge alla somma prevista nel comma precedente e la sanzione viene unificata a tutti gli effetti”.
In questo punto ci si riferisce ad un aumento della pena pecuniaria con la sanzione amministrativa che sembrerebbe aggiungersi, appunto, alla sanzione amministrativa che sarebbe sostitutiva della sanzione penale, e con quest’espressione sembrerebbe che le leggi di riferimento siano solo quelle che prevedevano comunque il carattere illecito penale o con ammenda o con multa oltre alla pena pecuniaria, che – appunto – sarebbero state penalizzate in quanto puramente sanzionate con multa o con pena pecuniaria.