DISPENSE AD USO ESCLUSIVO DEGLI STUDENTI
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO E DEL PIEMONTE ORIENTALE
FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA – SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE PER LE PROFESSIONI LEGALI “BRUNO CACCIA E FULVIO CROCE”
AVV. MASSIMO C. CAPIROSSI
N. 1
MATERIALI DI STUDIO PRELIMINARI ALLE LEZIONI SU
“DISCRASIE TRA DOTTRINA E GIURISPRUDENZA NEL DIRITTO PENALE”
GIURISPRUDENZA E DEVIAZIONI NEI CAMPI NORMATIVI.
NOTE PRELIMINARI SUL TERRENO DI ORIGINE DELLE DISCRASIE IN DOTTRINA E GIURISPRUDENZA. ALCUNE RIFLESSIONI SULL’ERMENEUTICA DELLA LEGGE CHE REGOLA L’INTERPRETAZIONE DELLA NORMA PENALE.
GIURISPRUDENZA E DEVIAZIONI NEI CAMPI NORMATIVI. LA LEGGE SULL’INTERPRETAZIONE DELLA NORMA PENALE .
INTRODUZIONE ALL’INTERPRETAZIONE DELLE NORME PENALI. LE NORME SULL’INTERPRETAZIONE DELLE NORME PENALI. ANTINOMIE FRA I FORMANTI ERMENEUTICI, DOTTRINALI E GIURISPRUDENZIALI.
Immagino che voi siate già non digiuni sulla nozione di norma penale che inserendoci in questo momento sul problema della sua interpretazione non avremo modo di apprendere compiutamente. Non sta me dirlo ma penso che in tutta la vostra professionale di giuristi (l’attività del giurista è quella di colui il quale legge leggi, norme, disposizioni, direttive comunitarie nello spettro più ampio possibile, che può andare dal funzionario della comunità europea al magistrato al pubblico ministero all’avvocato al funzionario amministrativo al notaio e via dicendo…), anche quella del segretario comunale e quella del sindaco, svolgerete il ruolo di interpreti della norma o di leggi, regolamenti, direttive e quant’altro. Ha quindi senso dire – siamo in una lezione di diritto penale – che il problema dell’interpretazione della legge è un problema che riguarda non solo la legge penale ma tutte le leggi e che chi studia diritto penale deve conoscere le leggi ed il modo con cui le deve interpretare. Sarà difficile cercare di essere semplici e banalizzare il discorso così importante.
Quello di cui cominceremo a parlare è il punto centrale, l’istituto fondamentale dell’attività giuridica. Parole come disposizione, norma, legge, testo, applicazione della legge, attività giudiziale non hanno alcun senso se non si affrontano prima. A questo punto cercherò di dirvi alcune cose che non sono solo il frutto di riflessioni personali, ma sono anche il frutto di una esperienza di lettura di leggi, anche e non solo penali, ma soprattutto di cose che sono state scritte su questi leggi e su come queste vanno lette o interpretate.
Qualsiasi tipo di soluzione anche la più semplice che un giudice, un avvocato, un professore universitario in una tesi in una lezione, me compreso in questo momento, dice dipende dalle cose di cui dobbiamo parlare oggi. Fare una lettura dell’art. 25 o art. 27 della Costituzione dipende dai criteri ermeneutici o interpretativi che noi andiamo ad utilizzare. Cercherò di iniziare a parlare con un linguaggio non troppo tecnico, ma importante da utilizzare anche riguardo a settori culturali della scienza giuridica che non si trovano amplificati in un manuale di diritto penale.
La difficoltà del discorso sull’interpretazione deriva dal fatto che dobbiamo chiarirci sin da questo momento se l’argomento interpretazione è un argomento di cui noi dobbiamo parlare dicendo come viene fatta dai giudici o dagli avvocati (dai giuristi) oppure se ne dobbiamo parlare per dire come deve essere fatta . La prima cosa da chiarire mentre parlo con voi è quella di dirvi se ciò che vi dico ha un carattere prescrittivo-normativo su come l’interpretazione della norma penale va fatta o non va fatta, ovvero se ha un carattere descrittivo con un portato delle affermazioni che faccio che può essere smentibile dalla realtà, può essere falsificabile, può essere dimostrato falso. Non voglio scomodare la meta- scienza naturale ed i dibattiti culturali che ci sono stati dagli anni 20 in poi in ambiti differenti anche nelle materie di filosofia della scienza e che hanno avuto una forte influenza anche nell’ambito della cultura giuridica.
Per semplificare questo tema vorrei subito individuare quali sono i grandi piani dentro i quali dobbiamo porci per riuscire a capire il problema di fondo. Il problema di fondo sarà chiederci se esistono delle norme contenute nelle leggi che operano direttamente nell’ambito penale e che dall’ambito penale e dal normativo penale vengono richiamate e quindi diventano rilevanti per il diritto che attinge dal mutabile extrapenale ed altri ambiti del diritto; in penale alcune particolarità si possono chiarire se si capisce a monte quale sia il problema della norma, della legge sull’interpretazione, se esistono delle leggi che regolano l’iter dell’attività interpretativa fino a che punto queste norme arrivano e dove invece finiscono; dove comincia l’attività non imposta dell’interprete libera ma consentita e, soprattutto, dove sia il tasso di plausibilità, fino a dove le leggi sull’interpretazione possono giungere e se fattibile, possibile e legittimo, che anche l’ambito dell’interpretare venga specificatamente trattato. Tenete conto che comunque anche le leggi sull’interpretazione (si suppone per reazione dell’ interprete deve leggere le norme così come le deve applicare) sono per forza di cose suscettibili di interpretazione.
Il problema di grandi piani è proprio quello di non cadere in circoli viziosi, di non andare verso un regresso all’infinito. Le difficoltà dal punto di vista gnoseologico ha caratterizzato tutto il secolo con tutta una serie di difficoltà in vari ambiti della scienza e soprattutto nell’ambito della scienza giuridica. Siamo in un corso di diritto penale ma non abbiamo il tempo di affrontare il primo grande piano – chiamiamolo PIANO A – che è quello delle concezioni sul diritto che sono concezioni spesso non dichiarate dai giuristi nella loro attività interpretativa: concezioni del diritto su che cosa è il diritto, di che cosa è la norma, che appartengono a diversi orizzonti culturali anche dal punto di vista geografico, basti pensare ad una giurisprudenza inglese o australiana: in questo caso ci troveremo ad aver a che fare con concezioni filosofiche del diritto completamente diverse che arrivano anche a noi e ci sono meno famigliari ma sono concezioni che si ribaltano sul modo di concepire la legge e sul modo di interpretarla da parte del giurista. Si potrebbe intitolare il seminario sull’interpretazione – ma non lo facciamo – come interpretare in generale la legge e poi aggiungerci anche la legge sull’interpretazione per fare vedere come ci sia uno spazio naturale dell’interprete che non è verosimilmente normabile e non è regolabile.
LA PROPOSTA DI UNA STRUTTURA A PIANI DEL DISCORSO SUL DIRITTO PENALE.
Il primo grande piano è quello che rimane sullo sfondo, che presuppone e che può posizionare tutti gli altri piani e che però esiste. Io cercherò di fare un discorso neutro senza coglier una concezione piuttosto che un’altra. Nell’ambito delle concezioni filosofiche su che cosa è il diritto, chi le assume, chi assume l’analiticismo inglese di HART, il realismo scandinavo di Ross, lo assume in quanto tale perché appartiene ad un certo orizzonte culturale, così come il giurista classico che noi conosciamo qui nelle università si è formato ed ha subito degli influssi dell’idealismo di matrice crociata: concetti di astratto o concreto, piuttosto che magari, modificati negli anni 30 e 40 e sviluppati con delle influenze inglese reimpostate in Italia da giuristi immigrati durante la guerra, come ad esempio MARC ASCOLI che ha tradotto il crocianesimo in un certo modo, oppure il positivista classico di matrice kelsiniana con le modifiche analitiche di BOBBIO, che ha sistemato la materia.
Un giurista che non si pone tanti problemi studia i manuali si applica e non si rende conto poi di che cosa fa nel momento in cui interpreta la norma penale. Un bel libro, che esamineremo, di CARLO LUZZATI affronta tutte queste concezioni diverse del diritto e le loro riflessioni sul modo con cui i giuristi inseguono lo spazio che deve avere la legge che regola l’interpretazione della norma penale. Non interessa se si segue una concezione pragmatista piuttosto che una concezione empirista o una concezione realista o positivista o analiticista critica poiché sono tutte concezioni importanti. Ad esempio gli empiristi dicono che non c’è bisogno di alcuna regola sull’interpretazione: il diritto non è una norma, il diritto non sta in una legge, il diritto è una prassi – si pensi al diritto della common law, al mondo anglosassone – la norma viene dopo. Il legislatore, se interviene, prende atto di regole di giusta condotta che si sono sviluppate nel corso dei millenni come classiche regole del diritto civile, danno una tutela più rafforzata anche con sanzione penale.
Quello che è comune a tutte queste concezioni è il fatto che si parla di diritto; la norma – chiamiamola come si vuole, anche legge – serve al giurista per risolvere dei casi importanti pratici e questi casi pratici in qualche modo l’utente, il consociato, deve almeno in linea teorica conoscerlo ed in astratto. Così si capisce l’art. 5 c.p. (“l’ignoranza della legge penale non scusa”), che spiega il perché in qualche modo il cittadino consociato anticipatamente deve sapere che esiste una certa condotta di divieto e, quindi, se vi incorre, incorre anche nella responsabilità penale. Sembra quasi che l’art. 5 si immetta in una conoscenza implicita, imposta perché reale, perché vera e che giustifica il fatto che la maggior parte delle persone non viola la legge penale o la legge civile a prescindere dalle sue raffinatezze e articolazioni. Cosa c’è di comune nei vari Paesi e nei vari orizzonti culturali? c’è quello che comunemente non è una norma giuridica ma una concezione di fondo che non rileva, ma che è sospesa da tutti i ragionamenti dei giuristi e che è il fine della certezza del diritto: io devo sapere in anticipo che cosa mi succederà. In materia penale il divieto di irretroattività della legge penale o il divieto di analogia in malam partem e forse anche in bonam partem (in favore), si spiegano: l’art. 27 Cost., l’art. 1 c.p. (“nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge né con pene che non siano da essa stabilite”) sono istituti che si spiegano in radice con questo elemento che caratterizza le società civili, per il quale uno è punito se è conoscibile da parte sua la legge. Si può anche essere puniti con una sanzione amministrativa, in certi casi con una sanzione civile, se conoscibile da parte sua la legge. Se non c’è ancora legge o se la legge riguarda casi diversi o riguarda casi diversi a lui non si applica. Il discorso della certezza porta noi a pensare alla legge, ma i nostri colleghi giuristi australiani o canadesi, in certi ambiti ed in molti altri Paesi, anche ad un discorso sul valore dei precedenti purché siano conoscibili. Tutto questo coinvolge il problema della certezza del diritto. Quali sono le concezioni del diritto che hanno poi dei riflessi sulle concezioni dell’interpretazione della norma penale? Ma tutto questo non ci riguarda.
A noi interessa passare al secondo piano che è un piano ancora non tecnico ma metateorico: un qualcosa che sta fuori e che ha per oggetto un problema. Se noi stiamo parlando dell’interpretazione, dire o fare una metateoria dell’interpretazione significa occuparci dal di fuori di come funzionano le teorie sull’interpretazione. Esaminiamo una cinquantina di teorie sull’interpretazione e vediamo come queste teorie si interpretano o dicono che si deve interpretare la legge penale. Le esaminiamo da fuori con una posizione di neutralità e di serietà, possiamo raffrontarle e possiamo capire alcuni istituti. Ma da dove sorge una lacuna? L’analogia si può applicare alle lacune penali?
La difficoltà iniziale è quella di passare a questo secondo piano meta–interpretativo e scopo di una attività seminariale è andare a fondo su istituti che sembrano semplici ma che sono difficili se non li si conosce. In altre materie dove il discrimine fra penale e civile non è poi così netto (c’è la depenalizzazione, ci sono sanzioni quasi penali, amministrative; si può organizzare il ragionamento quasi dimenticandoci la differenza fra le materie (civile, amministrativo…)) le norme che regolano l’attività interpretativa nell’ordinamento giuridico italiano sono pochissime. L’ordinamento italiano è composto ormai da una grande percentuale di diritto comunitario e in una grande percentuale di diritto internazionale. Ogni giudice può sospendere un processo anche penale e non solo (civile, amministrativo, doganale, tributario) semplicemente se sorge una questione interpretativa su una legge perché di matrice comunitaria. Il processo si sospende, tutto finisce alla Corte di Giustizia europea, che in base all’ex 177 ora art. 290 Trattato U.E. pronuncia, in via definiva e vincolante per il futuro ed anche in senso retroattivo per tutti i giudici dell’U.E di primo ed ultimo grado come devono interpretare quella norma. È indefinito perché la Corte di Giustizia non è un giudice, perché è un organo comunitario che statuisce in via interpretativa dei principi che diventano vincolanti per qualsiasi giudice nazionale i quali possono in certi casi omettere e decidere loro. Il giudice nazionale rimette al giudice comunitario quando ha dei dubbi, altrimenti decide liberamente. Il principio che viene stabilito è un principio che ha un carattere di supremazia; neanche un parlamento, la corte costituzionale potrebbe richiamarlo illegittimo costituzionalmente perché non è una legge di derivazione soltanto statale. Entra a far parte dell’ordinamento giuridico di tutti i paesi la norma comunitaria e nel momento in cui viene affermato un principio vincolante da parte della Corte di Giustizia questo è operativo in base ad un principio di supremazia assoluta. C’è una sostanziale indifferenza addirittura delle carte fondamentali e costituzionali (non ci sono neanche più gli ostacoli dell’art. 11 Cost.).
Questo significa che stiamo parlando di problemi importanti. Tuttavia il giudice nazionale (giudice monocratico o un tribunale, g.i.p. in ambito penale) opera una valutazione di questo genere: decido io, sospendo e rimando tutto alla Corte di Giustizia. Ha così svolto una attività interpretativa e qui può commettere errori gravi soprattutto se si parla di legge penale, o nella specie, magari di interpretazione di norme extrapenali che vengono recepite dalla norma penale integrandone il precetto. Non è necessario che si tratti norme penali in bianco: chi fa troppo rumore non consentito dalle direttive viene punito dalla sanzione x; può essere anche l’elemento normativo di fattispecie che risiede al di fuori di leggi penali. Il codice penale parla di legge penale nel senso di disposizione incriminatrice o non incriminatrice o incisiva in tutto o in parte della responsabilità penale, ma la legge in se stessa è una fonte normativa e in una legge ci possono essere disposizioni di diversa natura (il 95% dei reati sta al di fuori del codice penale perchè contenuti in leggi che non sono solo leggi in materia penale). Non bisogna equivocare sulla parola legge intesa come norma penale, con la parola legge intesa come atto avente forza di valore di legge.
Bisogna distinguere 4 ulteriori momenti della nostra analisi.
Il 3° momento è quello della normazione sull’interpretazione dell’ambito di quelle disposizioni che riguardano tutti i campi del diritto del nostro ordinamento giuridico (e che come tali riguardano anche gli aspetti e quegli elementi che integrano il nostro ordinamento giuridico che non è solo più nostro ma è addirittura comunitario) in quanto di queste norme si occupano dei giuristi che devono rispettare dei criteri di un certo tipo. Non esistono solo norme dell’ordinamento italiano che regolano la norma interpretativa: esistono anche le sentenze del Tribunale di Lussemburgo, della Corte di Giustizia di Strasburgo e poi via via altri enti che faranno giurisprudenza ma sarà una giurisprudenza definitiva e vincolante. In molti casi ci sono delle sentenze della Corte dei diritti dell’uomo; è stata costituita la corte di giustizia internazionale permanente in materia penale per i crimini contro l’umanità e per i crimini di guerra; sono ancora in funzione tre tribunali internazionali per i crimini di guerra (Costa d’Avorio) che stanno svolgendo un’attività di un certo tipo. È difficile per i giuristi continentali, ex positivisti, riuscire a cogliere su piani diversi elevando il principio contenuto in una sentenza anzi in una decisione della Corte di Giustizia perché non è solo un organo giurisdizionale ma ha poteri in certo senso superiori a quelli dei parlamenti e non pronuncia su norme nazionali ma su norme non nazionali; la corte Costituzionale non può pronunciarsi su norme non nazionali e anche se la norma nazionale è in contrasto con norme nazionali.
C’è un primo piano che è quello delle norme vere e proprie che sono oggetto di ulteriori interpretazioni da parte nostra.
E poi ci sono altri tre piani. il 4° piano è quello dei canoni interpretativi: quello delle armonie interpretative o canoni interpretativi indiretti che non vediamo disegnati su norme specifiche sull’interpretazione della legge e quindi sull’interpretazione della legge penale.
Il 5° piano è quello dei canoni della tecnica argomentativa o interpretativa ed il 6° piano è quello delle argomentazione giuridiche (dagli anni ‘70 in poi si era sviluppata una cultura delle tecniche interpretative, ma in realtà è una cultura che risale a prima dei greci sulla persuasione, sulla retorica, sul modo di convincere, famoso il Trattato di Perelman-Tyiteca pubblicato negli anni ‘70 da Einaudi), ambito delle argomentazioni che sono contenute nelle sentenze, o nelle arringhe degli avvocati, o nelle esposizioni fatte a lezione dai professori o negli scritti o negli articoli.
Questi 4 piani vanno distinti perché passare erroneamente o impropriamente da un piano all’altro significa fare gravi errori nella applicazione della legge penale. Alcuni dati considerati per acquisiti e che appartengono ad una di questi piani magari fra cent’anni slitterà su un altro piano e considerando questi piani vediamo anche come il diritto si muove e si modifica. Se facciamo le letture giuste ci renderemo conto di come spesso noi leggiamo letture convincenti sul divieto di analogia, sul perché non sarebbe ammissibile (secondo la scuola torinese penalistica, ad es. Prof. CARACCIOLI, VINCIGUERRA) neanche l’analogia in malam partem in materia penale e vedere come si argomentano queste soluzioni. Spesso si arriva a delle conclusioni con argomentazioni diverse, che appartengono a questo 6° piano (un po’ più lontano dalle norme un po’ più libero) oppure sono la utilizzazione di vere e proprie tecniche previste dalla legge in materia di interpretazione (5° piano) oppure, salendo verso l’alto, sono dei veri e propri canoni interpretativi fissati per legge (4° piano) o addirittura sono pure e semplici applicazioni del principio in claris non dixit interpretatio (dove è chiara la legge l’interprete non può dire nulla). C’è una storia infinita di statuti romani, medioevali, pandette che comunque definiscono l’attività del giurista come colui il quale da le risposte dove la legge non sia chiara. Addirittura ci sono episodi in cui la competenza a decidere viene riservata soltanto ai casi dubbi mentre altrove decide non un giudice o un giurista ma semplicemente un funzionario. Decidere se l’art. 25 della Costituzione ha innovato l’art. 1 del c.p. è importante perché, se ad esempio si utilizzano espressioni diverse per definire il reato e espressioni di linguaggio naturale per prevedere che il fatto deve essere previsto come tale cioè come reato dalla legge, nella Costituzione si parla semplicemente di “fatto di reato” preveduto come reato e nella legge penale che è anteriore alla Costituzione si dice che il fatto deve essere espressamente punito. E dire che la Costituzione non ha detto espressamente ma per forza di cose lo ha sottinteso, vuol dire ad esempio arrivare a conclusioni diverse in materia di applicazione o meno della analogia a favore. L’analogia presuppone una lacuna e la lacuna presuppone l’interpretazione perché se si rifiuta di utilizzare una certa tecnica interpretativa non si arriva neppure e vedere una lacuna.
Se teniamo distinti questi ultimi quattro piani che ho distinto per comodità lasciando sullo sfondo i primi due (concezioni sul diritto e quello neutrale che abbiamo definito metateorico o meglio di meta-interpretazione) e invece ci concentriamo su questi 4 aspetti (piano della legge e interpretazione sintetizzati, il piano dei canoni interpretativi che esistono e che sono direttamente estraibili dai portati normativi in materia di interpretazione; il piano dei canoni indiretti che caratterizza no le tecniche previste dagli ordinamenti giuridici in materia di interpretazione della legge e anche della legge penale; il piano invece delle argomentazioni) noi avremo modo di riuscire a scoprire che l’interprete, che ci si sta facendo passare un interpretazione come una interpretazione letterale o estensiva o altro, in realtà sta ricorrendo a delle argomentazioni che come tali sono libere ma che in qualche modo sottostanno a criteri che vedremo nel corso del seminario (la logicità, la razionalità, la non contraddittorietà). Tali criteri: è importante che (sia che l’interprete sia un magistrato che deve fare una sentenza motivata, sia che sia un prof. universitario o ricercatore che deve avvalorare una sua tesi di ricerca sia che sia un avvocato che deve sostenere delle ragioni tecniche) tutte queste opzioni dovranno essere motivate e attraverso la motivazione tutto diventa sindacabile, dove esiste un ordinamento con dei giudici superiori attraverso l’esame della motivazione che ripercorre questa via argomentativa (anche se l’argomentazione non appartiene al novero di norme che regolano l’attività interpretativa…). Nel c.p.p. c’è l’ art. 606 che prevede proprio un sindacato sulla logicità oppure sulla carenza di una motivazione. Una volta provati a sistemare questa griglia, ha senso forse poi il problema della attività interpretativa.
Sullo sfondo dei problemi di interpretazione per chi si occupa dei problemi interprativi o di norme sull’interpretazione che regolano il modo in cui l’interprete della norma penale deve muoversi, vi sono delle grandi dicotomie culturali: se vi sia una libertà radicale dell’attività dell’interprete purché faccia ricorso a ragionamenti ragionevoli oppure se invece questa libertà sia alquanto limitata. Torneremo poi sul discorso della interpretazione sistematica di cui si è detto molto. Quello che a voi interessa è l’ancoraggio diretto alla materia penale. Noi abbiamo dei testi che sono normativi esili ma importanti. Voi sapete che il R.D. 19.10.1930 n. 1398 ha approvato il codice penale ma ha previsto due norme centrali, l’art. 1 e l’art. 199 c.p., anteriori alle disposizioni a cui farò menzione successivamente, che sono stati forieri di ampi dibattiti in materia di interpretazione della legge penale e di ragionamento e di applicazione del ragionamento analogico. Art. 1 c.p.: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge ne con pene che siano da essa stabilite”. La rubrica forse per qualche ragione si chiama “reati e pene”: disposizione espressa di legge e per questo art. 1 fa pendant con art. 199 in materia di misure di sicurezza rubricato “sottoposizione a misure di sicurezza”: disposizione espressa di legge “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti”. Suona allo stesso modo.
C’è poi l’art. 25 della Costituzione, su cui torneremo.
LE DISCRASIE FRA GIURISPRUDENZA E DOTTRINA SI ORIGINANO DA LETTURE DEVIANTI DELLE PRELEGGI.
Qualche anno dopo l’uscita del codice penale (in realtà si parla della legge di approvazione del testo codice civile R.D. 16.03.1942 n. 262 art. 1) nel testo che veicola la legge codice civile c’è scritto: “è approvato il testo del codice civile il quale è preceduto dalle disposizioni sulla legge in generale…”. Con l’approvazione del codice civile si approva nel 1942 anche un testo cosiddetto delle pre-leggi, che però non riguarda il codice civile in senso tecnico e che è inserito nella stessa legge, ma in un testo diverso ma riguarda la legge in generale.
Qui vi sono disposizioni che sono richiamate costantemente non solo sui manuali ma in tutte le trattazioni di diritto penale e in una buona parte delle trattazioni sui caratteri interpretativi delle norme penali . Mi riferisco all’art. 12 che è centrale e diviso in due parti: il primo comma dedicato all’interpretazione; il secondo comma all’analogia.
C’è poi l’art. 14 sempre delle pre-leggi, che si collega all’art. 12, ma per ragioni completamente diverse. L’art. 14 dice che leggi eccezionali, nel senso che fanno eccezione a regole generali o a leggi diverse, non si applicano oltre (o contro) i casi in esse considerati. vuol dire che non accade quello che invece potrebbe accadere in base al secondo comma dell’art. 12: se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione (se non è decidibile), qui troviamo la definizione di lacuna, che ci dà il codice. Le preleggi ci danno una definizione migliore di quella che troviamo sui trattati perché normalmente nelle trattazioni grosso modo si dice che la lacuna sarebbe un’assenza di disciplina di una certa situazione, mentre il codice ci dice che la lacuna è quando il giudice non può decidere una controversia (può essere una controversia fra P.M. e lo Stato o fra delle parti civili o fra amministrazioni, o fra un privato e amministrazioni). Qui si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe. Se il caso è dubbio si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato: è la classica distinzione fra analogia legis e analogia iuris. In parole povere si guarda ad un’altra legge anche se quell’altra legge non è relativa alla controversia che la decida. Se però non è possibile fare questo tipo di applicazioni, nella autorevole dottrina penalistica si parla proprio di attività creativa di norme da parte del giudice civile, penale, amministrativo, comunitario.
Si fa riferimento ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, che si dovrà verificare quali siano. Sono stati ben studiati da un volume di GUIDO ALPA.
Sono partito dalla fine per concentrarci sulla prima parte dell’art. 12, che direi è centrale. Nell’applicare la legge (colui che applica la legge può essere il giudice ma anche altri: un pubblico ufficiale e un notaio, un funzionario dell’amministrazione), si parla di applicare e non di interpretare la legge, la parola interpretazione c’è nella rubrica, nel titolo della disposizione dell’art. 12 non si può ad essa attribuire altro senso.
C’è la cultura del senso del significato, che è quello fatto palese dal significato dato dalle parole e dalla connessione di esse e dall’intenzione del legislatore. Di qui sono nati rivoli culturali che hanno comunque pervaso al cultura penalistica, pervasa dalla cultura civilistica sull’interpretazione. C’è stata una grande influenza – direi – della cultura civilistica. Basti pensare a due grandi nomi anche se di matrice completamente diversa (BIGUAZZI e GENE SCARPELLI) che hanno riportato in ambito penalistico delle acquisizioni tratte dalle pre-leggi (più studiate dai civilisti che dai penalisti) e hanno spostato un pochino il fuoco dell’interpretazione della norma su un piano civilista, andando a recuperare anche disposizioni (che adesso non cito ma che sono quelle) contenute nel codice civile agli artt. 1362 e ss. che regolano grosso modo l’interpretazione dei negozi, comunque dei contratti tra le parti.
Non ne parliamo a caso perché il problema se siano diversi i criteri interpretativi a seconda dell’oggetto dell’atto o del documento interpretato o da interpretare è un problema frutto ancora una volta di posizione interpretativa. La Corte Costituzionale ha detto in più sentenze che essa non è soggetta all’art. 12 delle preleggi. Essa in qualche modo si dà i canoni ermeneutici in quanto non applicherebbe la legge, ma farebbe semplicemente un raffronto di compatibilità o non incompatibilità fra la legge o gli atti equiparati e i principi fondamentali contenuti nella carta costituzionale.
RICERCARE LE FONTI LEGALI DELL’INTERPRETAZIONE DELLA NORMA PENALE.
Su questo poi si potrà discutere. Per MORTATI erano dall’1 al 5: chiaramente l’attività della Corte Costituzionale ha un margine a se stante. È importante il riferimento ad altri criteri come quelli adottati in materia di negozi perché anche nell’ambito del diritto pubblico sono stati spesso utilizzati (pensate agli statuti degli enti pubblici e degli enti territoriali che spesso sono stati interpretati a seconda dalle oscillazioni con riferimento anche ad altri canoni ermeneutica).
Le disposizioni dei contratti sono più giocate sulle intenzioni delle parti. Qui invece l’art. 12 è stato letto dagli studiosi (anche di materie penalistiche) come diviso, sostanzialmente, nel suo primo comma, che autorizzerebbe alternativamente (dicono alcuni) due forme di lettura interpretativa o di interpretazioni. Quella letterale del senso fatto palese dal significato delle parole. Il linguaggio naturale ha un qualcosa sempre di indefinito perché quasi mai il legislatore utilizza un linguaggio naturale. Spesso un linguaggio naturale viene tradotto da acquisizioni quasi inconsapevoli che il giurista ha avendo letto pandette, testi giuridici.
Ed invece dall’altra appare la connessione di queste parole e l’intenzione del legislatore. C’è una apertura di campo. Molti la leggono come possibilità di integrare la lettera con intenzione del legislatore. Altri invece leggono questa disposizione (un autore come DELITALA, che più che altro è uno studioso di diritto amministrativo) come invece l’elemento posto a suffragio della c.d. interpretazione sistematica.
L’art. 12 apre seguendo il codice penale e dà un aggancio alla attività interpretativa. Sarebbe un aggancio di primo livello su quei quattro ultimi livelli che vi ho accennato.
Un dubbio si è originato da parte di molti autori sul se, parlando di norma penale, dobbiamo fare un discorso diverso, quando parliamo di interpretazione, rispetto al discorso che dobbiamo fare quando parliamo di interpretazione di una norma che non è penale. Il discorso secondo me non deve essere diverso. Diverse sono le discipline. Importante è dire che quell’anima (che non è un principio giuridico affermato neppure nella carta costituzionale o – nei Paesi che ce l’hanno – nelle carte fondamentali) nell’ordinamento giuridico che è certezza del diritto di cui ho parlato all’inizio. Nell’ambito del diritto penale, dal punto di vista formale, è il principio di legalità, dal punto di vista sostanziale è il principio di tassatività (artt. 25 e 27 della Cost.).
Mi sembra che il discorso sull’interpretazione muti troppo nel momento in cui ci riavvicina alla materia. In senso tecnico non esistono delle disposizioni preliminari sulla legge penale in generale, se non quelle che ho citato dell’art. 12 e dell’art. 14. Il codice penale non ha delle pre-leggi sue, autonome. In senso tecnico non ci sono norme sulla interpretazione della norma penale.
Le lacune che troviamo presupposte e ben definite nell’art. 14. Io penso che siano come le antinomie, ma nel diritto penale si parla poco di quelle disposizioni che dicono il contrario ed il giudice penale non sa quale scegliere fra le due. Il problema si complica quando si parla di concorso apparente di norme, o di altri istituti. Il diritto penale non è un sistema chiuso in se stesso per quanto riguarda le norme che regolano l’attività interpretativa del giudice o di chi altro.
Cominciamo a considerare le fonti normative che dicono come deve essere condotta la lettura e l’interpretazione della norma penale, i soggetti che sono abilitati a svolgere questo tipo di attività interpretativa e come cambia da un soggetto all’atro, poi i singoli oggetti. Poi si parlerà di metodi di interpretazione penale classici, che elencheremo rapidamente.
Per la definizione della norma basti quanto detto all’inizio, quando parlavo dell’astratto e del concreto, vale a dire che la distinzione in materia di norma tra astratto e concreto è una distinzione che ha delle sue cause culturali ben precise che derivano da certe concezioni filosofiche del diritto che in questa sede non vengono trattate.
I soggetti chi sono? Il legislatore e l’interpretazione autentica sono problemi aperti, ma sono già problemi interpretativi della legge penale: il legislatore, il Parlamento, può fare delle interpretazioni autentiche delle proprie leggi che abbiamo un carattere retroattivo? A questa domanda hanno risposto affermativamente alcuni autori anche della scuola torinese dicendo che, in fondo, la riserva di interpretazione della legge penale che è fatta solo al giudice non vale e non è opponibile al legislatore, che può fare quello che vuole. Importanti esempi di singole fattispecie analizzeremo in seguito. L’amministrazione può essere un soggetto che può condurre un’attività interpretativa? Il giudice è abilitato con il P.M. e la dottrina.
La cosa più interessante quando ci riavvicina all’argomento della interpretazione sono i criteri che vengono utilizzati ed i canoni interpretativi della norma penale. Bisogna distinguere il piano di quelli che sono canoni che provengono direttamente dall’ordinamento da, invece, semplici tecniche argomentative che possono avere una loro plausibilità sotto il profilo della logica, ma non necessariamente ce l’hanno. Si pensi all’importante problema se sia ammissibile nel diritto penale l’interpretazione estensiva e se sia ammissibile l’applicazione della legge diversa in via analogica (qualcuno dice anche interpretazione analogica). In genere l’analogia è la conseguenza della esistenza di una lacuna e per lo più è difficile che giunga ad un giudice la necessità di decidere una controversa che non può essere decisa (ragione per la quale, in base alla legge sull’interpretazione, un giudice deve ricorrere ad una legge diversa). Può però capitare che si arrivi ad una configurazione che è stata fatta molto lucidamente dai teorici generali del diritto in materia di interpretazione, da un costituzionalista come GUASTINI: tutte le lacune sono conseguenza di una scelta interpretativa. Questo non vale solo per i diritto penale. Nel diritto penale è poco intuitiva la lacuna, perché, se c’è il principio di tassatività (artt. 1 c.p., 199 c.p., 25 Cost.), è chiaro che dove non c’è una punizione, non c’è una lacuna: ci può essere una scelta o non scelta. Dove non c’è una causa di giustificazione o causa di estinzione del reato, mentre potrebbero anche esserci data la simiglianza del caso ragioni di equità, è sorta nel diritto penale a livello intuitivo l’esigenza di dire che forse li c’è una lacuna. Dal punto di vista tecnico, autori della scuola torinese (prof. CARACCIOLI) hanno correttamente ritenuto che non si possa parlare in senso tecnico di lacuna né che sia ammissibile il ricorso al ragionamento analogico, a questa creazione di nuovo diritto penale, che non è abilitato dalla Costituzione, perché non esiste una controversia non decidibile in altro modo.
Spesso è la scelta interpretativa che porta a ritenere che esista una lacuna e spesso questo succede non quando si utilizzano dei canoni interpretativi fissati dalla legge (come l’interpretazione letterale o, se volete, l’interpretazione correttiva o, se si vuole, l’interpretazione sistematica – discorso ancora più complesso – che, se vogliamo, può essere intesa come una interpretazione coordinata fra più interpretazioni letterali alcune delle quali sono correttive. Siamo sempre nella necessità di applicare l’art. 12 alla lettera fin quando è possibile. Se io devo ricorrere ad una interpretazione (sono casi molto particolari. La più disparata: ci sono soggetti non sottoposti a controlli ai fini di voto dei cittadini) l’interprete potrebbe andare a leggere questa norma chiedendosi che cosa succede agli stranieri utilizzando non un canone interpretativo, ma un argomento di carattere logico o storico, come ad esempio la configurazione a contrario – se non è vietato, allora vuol dire che è permesso – così si potrebbe anche andare a ritenere che ci sia una lacuna; e allora questa lacuna la si ritiene di poterla colmare andando ad applicare la stessa norma, che si applica ai cittadini, anche agli stranieri. Viceversa, il ragionamento a contrario girato dall’altra parte potrebbe portare ad una conseguenza opposta, ritenere che non esista alcun tipo di lacuna e che quindi non si ricorra alla necessità di applicare il ragionamento analogico. L’interprete deve andare con i piedi di piombo quando fa dei ragionamenti.
Tra i metodi classici c’è quello letterale o semantico e questo lo troviamo nell’art. 12, I comma. C’è poi il metodo storico e un metodo logico sistematico, che forse possiamo ancora trovare nell’art. 12. C’è un metodo teleologico che però è quello di andare a vedere quale era l’intenzione storica della legge quando è uscita, che normalmente si caratterizza per altri due rivoli che sono un metodo di interpretazione estensiva e altro metodo generalmente respinto che è quello dell’interpretazione evolutiva.
FONTI LEGITTIME DELL’ERMENEUTICA PENALE.
Vengono poi dai giuristi e da studiosi rassegnati come regole di interpretazione (tutta una serie di) elementi non tecniche argomentative, ma modi di argomentare le proprie ragioni quasi in maniera persuasiva. Si elencano 4 tipi di regole dell’interpretazione:
a) quelle che sono ancorate sulla scelta del risultato quando da una lettura semplice di una norma possono derivare due soluzioni alternative. Dentro questo ordine di regole ci sarebbe il riferimento alla costituzionalità: interpretazione costituzionalizzante, che è quella più “corretta” dalla Costituzione. Io su questa ho dei dubbi. Ormai è dato acquisito anche da molte letture, anche sentenze della Corte Costituzionale che non si sa fino a che punto possano essere vincolanti: non lo sono tecnicamente per i giudici ma lo possono diventare dal punto di vista giuridico;
b) c’è poi il criterio della conformità al diritto comunitario;
c) quello della conformità alle leggi delegate. Ci sono poi (un secondo ordine di) criteri c.d. criteri di razionalità: plausibilità, non contraddittorietà, non superfluità. Questo è un argomento che viene utilizzato molto spesso: se ci sono due disposizioni simili, sono diverse. Ciò vuole dire che nessuna è superflua. La rubrica così come è stata messa ha un motivo: la semplicità, la simmetria, a majoris ad majorem, partendo dal se a maggior ragione;
d) Ci sono anche le interpretazioni semantiche, i metodi semantici classici: guardare alle leggi guida, guardare di ricondurre il più possibile la specie ad un genere, guardare il significato originario, oppure le altre disposizioni richiamate.
Molta è la confusione che si può fare. Bisogna riportare questi metodi interpretativi ad uno dei quattro ordini per vedere se siamo nel campo delle argomentazioni o nel campo dei canoni ermeneutici. Esempi classici: la lettura dell’art. 15 del c.p. o dell’art. 84 del c.p.. Oppure torniamo all’analogia, all’ammissibilità del ragionamento analogico. Vorrei utilizzare due riferimenti che ho fatto prima all’art. 1 e all’art. 199 del c.p. Leggendo quelle due disposizioni si può arrivare a negare o ammettere o negare per ragioni diverse, l’ammissibilità, per ragioni diverse, del ragionamento analogico in malam partem in materia penale. Ma attraverso quale piano di quei quattro piani che ho detto? Attraverso dei canoni ermeneutica delle leggi sull’interpretazione come art. 12, attraverso degli argomenti persuasivi giuridici? C’è chi ha sostenuto che nella parola espressamente che è contenuta nell’art. 1 e nell’art. 199, deriva proprio la regola della stretta interpretazione della norma penale e quindi il divieto – siamo al di fuori del discorso sull’analogia ma in materia di interpretazione della legge – di interpretazione estensiva. C’è invece chi ha analizzato la parola espressamente in rapporto con art. 25 della Carta Costituzionale. Entrambi questi due orientamenti sono giunti alla conclusione che non sia ammissibile l’analogia in malam partem ma con delle argomentazioni diverse. L’utilizzo di una interpretazione correttiva; se si dice che nel art. 1 c’è la parola espressamente (“nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente…”) mentre nella carta costituzionale si usa una espressione più elastica e non compare la parola espressamente . La Costituzione viene dopo il codice penale. Non poteva il legislatore costituente non avere in mente che il codice penale. Data la semplicità dell’espressione,la forma contratta tipica della carta costituzionale è confermata dalla lettura del divieto di applicazione di una interpretazione correttiva in materia penale. Questo tipo di ragionamento è ancorato all’art. 12 perché dà una interpretazione letterale una però corregge l’interpretazione letterale con uno di quegli argomenti che non sono strettamente vincolanti per l’interprete. Un altro orientamento dà una lettura di questa disposizione dell’art. 1 e ancora la parola “espressamente” ad altre acquisizioni e ad altre conseguenze. Da questo trae l’applicazione di conseguenze diverse.
Quello che mi preme dire è che è importante che vi sia consapevolezza del tipo di piano su cui ci si sta muovendo. Se è un piano libero oppure è un piano obbligato, perché, se ci fosse una violazione diretta di una disposizione di legge, si inquadrerebbe in una interpretazione non accettata; se invece ci si muove tra gli spazi lasciati liberi dalla legge sull’interpretazione si muove nell’ambito della logicità e plausibilità e quindi si fa qualcosa di corretto.
1. Quello che mi premeva prima sottolineare era frutto di un’esigenza di chiarezza e di semplificazione e, soprattutto, che quella griglia divisa in 6 punti serviva per voi che scoprirete che già ora potete, pur senza lo strumentario consueto tipico del giurista, percepire (quando leggete qualsiasi tipo di trattazione scientifica di qualsiasi materia, non solo nel diritto penale) che nel momento in cui qualcuno fa un discorso giuridico (non un discorso sul diritto, ma un discorso giuridico) anche per iscritto (leggete la motivazione di una sentenza, di un’ordinanza, ad esempio quella recente del Tribunale di Milano del G.I.P. che ha ritenuto che i fatti contestati anche in via amministrativa ad un extracomunitario non cittadino italiano, profilati come fatti riconducibili ad attività di terrorismo internazionale, per cui ci sono recenti convenzioni internazionali non fossero invece riconducibili a tale qualificazione, per la quale vi sono disposizioni più restrittive , ritenendo di non doversi mantenere la custodia in carcere, in quanto tali fatti sarebbero stati qualificati da questo giudice come fatti di reato tout court, ma non di rilievo internazionale; è il problema delle c.d. cellule terroristiche islamiche che, se la norma l’interprete la legge in un certo modo, nel senso che gli eventuali finalizzazioni o le organizzazioni di collegamento tra paese e paese di queste cellule non vengono considerate come sufficienti a configurare questa nozione vaga ed aperta di terrorismo internazionale, allora bisogna guardare ai reati diversi, nazionali come l’apologia di reato o la banda armata e a questo punto non scatta l’applicazione di tutta una serie di discipline).
Anche con un banale fatto giornalistico si può, quindi, essere in presenza di un discorso giuridico, che in questo caso è stato contenuto nell’ordinanza del giudice di Milano che ha dato una lettura in tale senso.
Se voi leggete delle sentenze nella parte motiva vedrete, di qualsiasi genere (da una questione di condominio ad una questione doganale) l’interprete comunque parla di norme, le mette insieme, le combina. Tenete conto che nel diritto c’è il principio jura novit curia, secondo cui il diritto spetta al giudice, è lui che lo trova. Alle parti spetta la presentazione dei fatti, l’onere di allegarli, di provarli se del caso (il P.M. li dovrà provare, nel giudizio civile saranno le parti, attore o convenuto se formula eccezioni in senso tecnico o se formula delle domande riconvenzionali; il procuratore presso la Corte dei Conti nei giudizi di responsabilità contabile degli amministratori degli enti locali, a sua volta dovrà provare che vi sono stati degli ammanchi nelle casse degli enti. E poi queste parti dovranno dare una prospettazione giuridica (art. 163 e 164 c.p.c.), la c.d. causa paetendi, (la ragione giuridica per cui si procede, la qualificazione giuridica che la parte dà a i fatti che per lei sono importanti e che sottopone al giudice). Se non c’è l’indicazione dei fatti e delle ragioni giuridiche che sostengono la domanda – l’accusa nel processo penale – allora manca un pezzo e l’azione esercitata è nulla.
Se andiamo nel diritto comunitario, vediamo, ad esempio, le azioni che esercita la Commissione europea – che non è un giudice ma che ora, nelle istituzione a “tasso ridotto democratico” dell’U.E. ci sono poteri di iniziativa e di azione che può esercitare la Commissione europea, che è un organo misto tra il legislativo ed il governativo ed è l’unico che non ha una legittimazione democratica perché i commissari non sono eletti con le elezioni, con le quali, invece, si elegge il Parlamento europeo, che è un organo che però non fa le leggi. Ora con l’approvazione del testo della Costituzione europea che però non è ancora stato ratificato , la Commissione europea è quasi un Pubblico Ministero che esercita un’azione contro un Paese che viene processato o davanti al Parlamento o davanti alla Corte di Giustizia che pronuncia una sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro. In questo caso non basta dire – e qui siamo in un ambito diverso dalle nostre categorie di diritto nazionale, che però modifica le nostre categorie di pensiero, ma di suddivisione, anche tra i poteri giudiziario, parlamentare, esecutivo. La partizione di MONTESQUIEU non tiene più perché le istituzioni comunitarie, che oggi esistono in virtù di trattati internazionali che sono approvati (art. 11 Cost.) dai parlamenti e quindi hanno una super forza rispetto alle leggi nazionali.
L’U.E. è prevista dal trattato di Roma del 1957, poi modificato da vari trattati (Maastricht, Roma): questi non sono norme di rango costituzionale, non sono costituzioni. La parola costituzionale è una parola che usiamo noi, ma in altri paesi, come l’Inghilterra, non c’è la costituzione.
Resta il fatto che i trattati non sono norme costituzionali. Esiste nel nostro ordinamento la Costituzione: essa è nata nel 1948 ed autorizzava il Parlamento con delle maggioranze qualificate ad approvare delle convenzioni internazionali fatte con altri paesi, i c.d. trattati. Certo, quelli che regolano prima la C.E.C.A, poi l’Euratom, poi la C.E.E., che poi diventano le Comunità europee, riunite nell’Unione Europea che, a questo punto attraverso tre o quattro trattati (Maastricht, Nizza, Amsterdam e Roma) con una progressiva previsione a livello di trattato di nuovi ambiti su cui l’U.E. può esprimere delle norme vincolanti.
Abbiamo quindi un trattato. Qualche Paese ha la Costituzione che autorizza i propri organi a sottoscrivere i trattati ed a farli entrare in vigore nel proprio Paese. Però abbiamo un trattato (quello dell’U.E.) che ha delle particolarità: dentro il Trattato ci sono delle istituzioni che a loro volta producono delle regole che sono direttamente operative nei singoli Paesi. E’ chiaro che se ci sono il Parlamento, la Commissione europea, il Consiglio europeo, la Corte di Giustizia, il Tribunale di Giustizia di Lussemburgo, ci sono delle fonti – chiamiamole di diritto comunitario – come i regolamenti, le direttive, le raccomandazioni, le decisioni, le decisioni-quadro (che cambiano nome nella Costituzione europea: i regolamenti si chiameranno leggi, le direttive si chiameranno leggi-quadro, ecc.) già adesso, senza nessuna necessità che il singolo legislatore nazionale approvi nulla, in tutti gli ordinamenti (adesso sono 25 i Paesi europei); entrano immediatamente in vigore, semplicemente per il fatto di essere state emanate norme.
L’INTERPRETAZIONE LEGISLATIVA DELLE DIRETTIVE.
Queste norme sono norme italiane o europee? Sono norme italiane, perché l’U.E. è configurata come uno spazio territoriale unico. Non esiste più, quando si parla di ordinamento europeo il territorio italiano. Le norme entrano immediatamente in vigore; i regolamenti entrano immediatamente in vigore e vanno a disciplinare tutto nell’ambito di quell’elenco di materie indicato nel Trattato. È un elenco di materie, però, un po’ strano, perchè ci sta tutto (agricoltura, foreste ambiente, navigazione, sicurezza…).
La distinzione tra diritto civile ed amministrativo, tra diritto amministrativo e diritto penale, non è una distinzione per materie, perché nella materia dell’agricoltura o delle foreste ci stanno nel nostro ordinamento delle sanzioni amministrative ed anche penali. Se dovessi fare un corso sull’ambiente dovrei attraversare quelli che tradizionalmente sono considerati campi distinti: dovrei parlare del trattamento sanzionatorio, degli illeciti amministrativi, di quelli depenalizzati, del penale amministrativo, di quello criminale (vale a dire le classiche sanzioni, utilizzando il criterio formalistico, sono l’arresto, l’ammenda, la reclusine e la multa).
Esempio: la privacy è un caso classico di legge comunitaria.
Nell’antica e tradizionale normativa statale che regola l’attività degli avvocati, cambiata nel corso degli anni, da sempre era previsto che tutto sommato un avvocato, pur essendo abilitato ad andare a difendere dove gli pare, purché abbia le abilitazioni necessarie, deve scegliere il suo ordine professionale; poi può avere diecimila studi, però deve scegliere un ordine professionale, che è un ente pubblico che tutela, protegge e sottopone a procedimento disciplinare e sanziona (radia, ammonisce, ecc.), ma fornisce anche tutto il supporto necessario. Però occorre una residenza lì vicino, perché ti devono poter trovare. Succedeva che, secondo una stretta interpretazione della legge degli anni trenta che regola l’attività degli avvocati, era previsto il concorso come per i magistrati (ora non è più così, perché è un esame, poiché già negli anni sessanta era uscita una direttiva che stabiliva per le libere professioni che esse, per libera concorrenza, dovessero essere autorizzate da un esame di abilitazione e non sottoposte a concorso, rimasto per magistrati, notai, avvocati dello Stato, medici, commercialisti). Gli avvocati sono regolati in modo diverso: l’esame era più difficile del concorso. Ora non è più così perché c’è stato l’intervento di altre direttive, che hanno portato all’istituzione delle scuole professionali post universitarie, cioè le c.d. scuole forensi.
Comunque, secondo l’ordinamento che riguardava l’attività degli avvocati bosognava risiedere nello stesso capoluogo dove aveva sede il tribunale per la cui circoscrizione esisteva l’ordine professionale (i tribunali non coincidono con le province; si pensi al Tribunale di Pinerolo; in Piemonte ci sono 17 tribunali). Con questa legge comunitaria si è stabilito che è sufficiente stare nell’ambito della Corte di Appello.
Le direttive, che saranno poi le leggi-quadro, hanno come particolarità il fatto che sono atti di carattere normativo, però non rivolti direttamente ai cittadini europei, ma ai singoli Stati, alle singole istituzioni nazionali, che a loro volta sono obbligate ad attuare queste direttive, di particolare e difficile interpretazione, anche per una questione di lingua usata (ora ufficialmente quella inglese), soprattutto per il fatto che vi sono istituti esistenti in un Paese ma non in un altro, per cui diventa quasi impossibile trovare la parola giusta per identificare tale istituto a livello europeo.
Allora cosa succede? Succede che si usa un linguaggio molto neutro, per cui le direttive finiscono per avere un carattere molto generale, con la conseguenza che il Paese che le attua con una sua legge di esecuzione si trova a dover affrontare questioni interpretative, di carattere ermeneutico, per poter adeguatamente interpretare la direttiva e farla diventare norma nazionale.
LA DISCRASIA FORMANTE: LA CORTE DI GIUSTIZIA.
Vincoli ermeneutici e non fra giurisdizioni.
L’interprete si troverà a dover affrontare numerosi “problemi” anche quando sarà approvata (probabilmente) la legge-quadro sul P.M. europeo. Già oggi diversi problemi interpretativi sorgono, ad esempio, sull’art. 640 bis sulla truffa aggravata, sull’art. 316 ter sulle frodi e sulle frodi comunitarie: questi articoli sono delle norme che in questi ultimi anni sono state introdotte nel codice penale o in leggi speciali per attuare delle direttive europee. Esistono poi delle direttive europee che non sono state ancora attuate, con conseguente ritardo di certi Paesi, ed esistono delle convenzioni che non appartengono in senso tecnico al diritto comunitario e che non possono essere in contrasto col Trattato dell’U.E. o con la Costituzione, con la quale però configgono puntualmente.
Ci sono poi altri problemi, dei quali uno dei più importanti è quello della Corte di Giustizia dell’U.E., la quale ha dei poteri che non sono né giudiziari né legislativi in ambito europeo, ma ha addirittura il potere di dirimere le controversie tra le istituzioni europee e, soprattutto, in certi casi opera come l’organo di appello rispetto al Tribunale di Lussemburgo, che è organo di prima istanza e di unica istanza per certe questioni. La corte di Giustizia, che non a sede a Lussemburgo ma è divisa tra Bruxelles e Strasburgo, non va confusa con altre istituzioni come la Corte internazionale dei diritti dell’uomo, che ha sede a L’Aja e che non è un’istituzione prevista dal Trattato europeo, anche se nel Trattato ci sono i riferimenti ai diritti dell’uomo che vengono accertati da questa Corte, la quale non fa, però, servizio per i 25 Pesi europei, ma fa servizio per tutti quei Pesi che attraverso un trattato l’hanno istituita ed attuata e che sono molti di più (sono circa un centinaio). Neppure bisogna confondere la Corte di Giustizia con l’attuale Corte permanente Penale Internazionale, istituita nel luglio 1998 con l’approvazione a Roma del suo Statuto, la quale andrà a sostituire tutti i tribunali speciali per i crimini contro l’umanità che adesso esistono (ce ne sono una quarantina, come il Tribunale per l’ex Jugoslavia, quello del Ruanda, della Costa d’Avorio, ecc.).
Ma allora quali sono i poteri e i compiti della Corte di Giustizia?
Innanzitutto occorre rilevare che a giorni uscirà una sentenza della Corte Costituzionale tedesca, che è stata investita di un problema sorto durante un processo pendente innanzi alla Corte di Cassazione (penale) tedesca. Al riguardo bisogna, però, dire prima qualcosa sul ruolo della Corte Costituzionale, sul cui spazio di discrezionalità – come già è stato detto la volta scorsa- è stato scritto molto: da noi la Corte Costituzionale non può rilevare da sola una questione di costituzionalità, ma solo il giudice ordinario può farlo. In Germania, invece, la Corte Costituzionale può rilevare da sola una questione di costituzionalità. La Corte Costituzionale non interpreta le leggi, esamina le leggi nazionali, solo quelle nazionali e non anche quelle comunitarie, per vedere se contrastano con la Costituzione; fa un controllo critico di carattere negativo. Dunque, la Corte Costituzionale interpreta la Costituzione, ragione per cui sono assolutamente da rifiutare tutte quelle interpretazioni della norma giuridica, anche penale, che si aiutano con la Costituzione.
Il giudice si occupa della legge, di cui può dare un’interpretazione rigida e, quando la questione arriva alla Corte Costituzionale, questa è vincolata a leggere la norma di diritto interno come è stata letta dal giudice di legittimità. Così, ad esempio, se la Corte di Cassazione continua – per assurdo – a dire che l’art. 575 c.p., sancendo che “chiunque cagiona la morte di un uomo è punito…”, nel concetto di uomo non include la donna, allora la Corte Costituzionale è tenuta a decidere se questa norma sia incostituzionale o meno, allora, o dichiara la norma sull’omicidio incostituzionale perché in contrasto con l’art. 3 Cost., oppure utilizza delle interpretazioni e dei ragionamenti manipolativi e manipola (indirettamente), secondo regole che lei stessa si dà, la norma giuridica, accogliendo o rigettando la questione sollevata. Ci sono, però, stati dei casi in cui la Corte di Cassazione ha poi totalmente ignorato le sentenze di accoglimento o di rigetto della Corte Costituzionale, non ritendendosi vincolata (purché la norma non sia stata spazzata via).
Più importante della questione del rigetto è quella della dichiarazione di inammissibilità della questione, che viene fatta in via preliminare dalla Corte: l’avvocato va dal giudice di primo o secondo grado o dal P.M. e gli dice che quella certa norma è incostituzionale, facendo una bella argomentazione e domandando che il giudice sospenda il giudizio e che motivatamente rilevi l’ammissibilità e la rilevanza della questione di costituzionalità proposta e che mandi tutto alla Corte Costituzionale. Il giudice potrà non ritenere ammissibile la questione in quanto non in contrasto con la Costituzione e in tal caso il tutto finisce lì, senza arrivare dal giudice costituzionale. Però, quando la questione arriva alla Corte, questa innanzitutto valuta la sua ammissibilità e solo qualora ritenga la questione ammissibile si pronuncerà sulla sua legittimità od illegittimità, talvolta con sentenze manipolative (del tipo: “La norma non è incostituzionale a condizione che si interpreti così”).
PREGIUDIZIALITÀ COMUNITARIA.
La Corte Costituzionale tedesca funziona un po’ diversamente da quella italiana: la Corte Costituzionale tedesca si è domandata cosa bisogna fare se una decisione della Corte di Giustizia è in contrasto con la Costituzione, visto che la carta costituzionale tedesca non stabilisce nulla sui suoi rapporti con le decisioni della Corte di Giustizia. Bisogna dare priorità alla decisione della Corte di Giustizia oppure no? Al riguardo soccorre il vecchio art. 177 (ora 234) del Trattato U.E., che prevede la c.d. pregiudiziale comunitaria, che è un qualcosa di simile alla questione di costituzionalità: il giudice nazionale, quando non sa interpretare la norma comunitaria, deve sospendere e mandare tutto alla Corte di Giustizia, la quale dà la sua interpretazione con una decisione dall’efficacia ex tunc, nel senso che dà un’interpretazione fin da allora della norma comunitaria, la quale ha primato su tutte le norme nazionali (infatti il giudice nazionale dà priorità alla norma comunitaria e alle sentenze della Corte di Giustizia, disapplicando le norme nazionali). La Corte di Giustizia, inoltre, può disapplicate le norme nazionali e la decisione che essa dà fissa un principio dall’efficacia erga omnes, nel senso che gli effetti della sua interpretazione non solo limitati al processo su cui è chiamata ad intervenire, poiché la sua decisione ha carattere generale, che vincola, anche per il futuro e per il passato, tutti i giudici di tutti i Paesi, tutti i Parlamenti e tutte le fonti.
Ed allora, cosa succede alle Carte costituzionali?
L’art. 177 (ora 234) del Trattato, in realtà, prevede che si debba sospendere il processo e far decidere la questione pregiudiziale, quindi affidare l’interpretazione definitiva alla Corte di Giustizia europea sulle norme comunitarie, soltanto per i giudici che decidono in ultima istanza (perché per gli altri la sospensione è facoltativa), ma la Corte Costituzionale non si può dire che sia un organo che pronunci in ultima istanza e in certi Pesi non c’è neppure.
Probabilmente la Corte Costituzionale tedesca sospenderà il proprio giudizio e rimetterà come questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di Giustizia europea la decisione se c’è il rimato della Corte di Giustizia anche nei confronti degli articoli costituzionali: sicuramente nell’ipotesi in cui la Corte di Giustizia decidesse che c’è questo primato i giudici nazionali potrebbero a loro volta, attraverso un’attività interpretativa, andare a leggere la sentenza della Corte di Giustizia interpretativa sulla norma comunitaria in combinato disposto con le norme proprie interne, ad esempio ritenendo che prevale lo stesso comunque la Costituzione. Molti illustri giuristi europei ritengono, infatti, che comunque il primato non possa contrastare con la Costituzione, perché ci sono principi fondamentali.
Il nuovo Trattato sull’Unione Europea espressamente sancisce che è parte integrante dell’Unione europea lo Statuto sui diritti dell’uomo: nello Statuto istitutivo della Corte dei diritti dell’uomo, che – come detto – non è un’istituzione comunitaria, sono enunciati tutta una serie di principi come il ne bis in idem (sia processuale che sostanziale), il diritto di difesa, ecc., che effettivamente sono principi comuni alle Carte costituzionali europee e non, per cui è verosimile che poi queste stesse giurisprudenze non faranno un lavoro peggiore di quello svolto finora dalle Corti Costituzionali, per cui in pratica sarà difficile che si vada a violare i principi evolutivamente letti dalle singole Corti Costituzionali. Nei Paesi in cui non ci sono le Corti Costituzionali, il ruolo di queste viene svolto dai giudici: in Inghilterra, ad esempio, qualsiasi giudice ha il c.d. sindacato diffuso sulla costituzionalità, cioè è lui che decide se una norma di legge è o meno “costituzionale”, posto che nel Regno Unito la Costituzione non esiste. Questo per evidenziare che si apre un altro campo sui criteri ermeneutici, quello d lettura distinta tra norme nazionali e norme comunitarie, perché queste ultime intervengono sempre a regolare un pezzo di materia, ossia dicono certe cose ma non le dicono tutte, le altre cose vengono dette dal Parlamento nazionale: così, ad esempio, quando noi attuiamo una direttiva, lo facciamo con un linguaggio diverso da quello con cui viene adottata in un altro Stato, con la conseguenza che poi le norme saranno diverse, perché entreranno a far parte di un ordinamento giuridico diverso da Stato a Stato, avranno delle relazioni diverse con le norme di cui vanno a far parte, i canoni ermeneutici interni sono diversi, diverso è l’orizzonte, diversa è la cultura giuridica, per cui magari di fronte allo stesso caso è meglio o è peggio a seconda dei casi essere processati in un Paese piuttosto che in un altro. A ciò si aggiunga che in molti Stati non c’è la distinzione tra diritto processuale e diritto sostanziale (nel diritto romano non esisteva una distinzione tra processo e diritto soggettivo, si parlava di actiones e in molti Paesi è ancora così).
L’INDIFFERENZA PRETORIA O DOTTRINALE AI MECCANISMI NORMATIVI DI CONTROLLO ERMENEUTICO.
Dunque, se si affronta un discorso sull’interpretazione si deve affrontare un discorso sulla norma giuridica, vedere cosa essa è, inserire su di essa tutta una serie di ragionamenti giuridici fatti dall’interprete (giudici, avvocati, professori universitari) con l’ausilio di quelle griglie di cui si è detto la volta scorsa, per fare una distinzione molto netta tra un discorso metateorico, cioè metainterpretativo su come l’interpretazione viene svolta, e un discorso normativo, giuridico, su come l’interpretazione, in base all’ordinamento nazionale integrato dall’ordinamento comunitario, va condotta. Questo è molto importante, perché per almeno mille anni tutti gli studiosi dell’interpretazione hanno fornito canoni ermeneutici, ma questo contributo è diventato poco utile e si è ridotto quando si sono creati dei meccanismi interni di controllo critico tipico dei singoli ordinamenti. Quando si è imposto l’obbligo di motivare una sentenza si è dato modo ad un altro giudice di fare un controllo sulla legalità o sulla legittimità di questo ragionamento. A questo punto il problema non è più stato un problema di accademia, cioè su che cosa è l’interpretazione, ossia un discorso filosofico, ma è diventato un discorso giuridico. A noi interessa (non) dire come si deve condurre un’interpretazione, perché non dobbiamo mai confondere questi due piani, cioè quello con cui ci domandiamo come viene svolta l’attività interpretativa dell’interprete col piano con cui ci chiediamo come dove essere svolta l’attività interpretativa. Il diritto – diceva KELSEN – non è il mondo dell’essere ma è il mondo del dover essere, dell’imperatività, della condizione (se questo, allora questo); non è il mondo dei nessi di causalità o il mondo della natura. Gli enunciati normativi hanno un carattere prescrittivi. Però noi dobbiamo vedere le norme come se fossero realtà normativa e dobbiamo leggerle, capirle ed interpretarle e, se dentro queste norme ci sono anche delle regole su come le norme vanno interpretate, allora noi dovremo leggere, capire ed interpretare anche queste norme. L’importante è essere in grado di capire se l’attività dell’interprete è corretta o scorretta, se è conforme o contraria a disposizioni normative, se è controllabile o meno. Dovremo ogni volta dire al giurista se sta facendo un’argomentazione o se sta facendo un discorso giuridico, perché il piano dell’argomentazione, dell’illustrazione delle buone ragioni è il piano della libertà, della logica, ma non è il piano della normatività, cioè del discorso giuridico. Dunque, questo è lo scopo del seminario, senza fare filosofia ma accennando ad alcuni problemi che interessano l’interprete.
QUALCHE RIFLESSIONE PRELIMINARE SUL SIGNIFICATO DELLE PAROLE.
2. L’espressione “gerarchia obliqua” è stata utilizzata perché coniata da VITTORIO DALIA nel suo Interpretazione delle norme e dei valori, libro poco letto.
Cosa vuol dire “diritto”?
In proposito bisogna considerare le ambiguità del linguaggio, in quanto recht in tedesco vuol dire destra ma anche diritto; in inglese right significa giusto, ma anche destra, mentre diritto si dice law; in italiano si parla di legge e di jure. Nel mondo oltre Europa le parole sono ancora più diverse . La parola inglese justice richiama quella latina jus, da cui deriva altresì la nostra parola giurisprudenza: la facoltà di Giurisprudenza, nata a Bologna nel XIII secolo, ha radici storiche, poiché lo juris prudens, da cui “giurisprudenza”, è l’esperto di diritto, per cui Giurisprudenza è la facoltà degli esperti di diritto e non la giurisprudenza intesa come contrapposta alla dottrina (questa è poi una falsa contrapposizione, poiché la dottrina in realtà non esiste, non è una figura che si può contrapporre alla giurisprudenza intesa come insieme delle sentenze dei giudici). Oggi molti filosofi (si pensi a Conte) del diritto giocano sulle e con le parole per dire cose molto intelligenti.
Noi parliamo di giustizia, ma per essere precisi per “giustizia”, che deriva da jus dicere (che era l’attività dei sacerdoti romani, i primi esperti di diritto) si intende il dire le cose giuste, cioè dare un consiglio giusto; gli inglesi direbbero sense of justice, facendo riferimento alla giustizia nel suo significato univoco.
In realtà lo sviluppo della linguistica, della filosofia del linguaggio, ha delle matrici filosofiche molto precise, uno sviluppo enfatizzato da due filoni del pensiero europeo: da una parte quello della filosofia analitica, che comincia col secondo WITTGEINSTEIN (che scappa in Inghilterra e che fa parte del circolo di Vienna, di cui facevano parte anche POPPER ed HEISEMBERG), il quale ha influenzato gli inglesi; dall’altra parte quello di POPPER, che ha influenzato un certo modo di intendere la politica .
POPPER, però, ha trasportato dal campo della scienza la teoria della falsificazione a quello della politica, perché egli ha sostenuto che anche le teorie politiche sono falsificabili, cioè vivono, muoiono e cadono se non funzionano. In questo contesto si inserisce RAWLS, i cui interlocutori sono Popper da un lato e ROBERT NOZICK dall’altro (quest’ultimo è un pensatore americano autore di due straordinari libri, per intelligenza ): per sostenere degnamente il confronto con questi due autori, RAWLS individua due principi di giustizia, da cui trae poi tutte le conseguenze della sua teoria. La società deve essere impostata – dice Rawls – come se a decidere fosse la persona che è più svantaggiata nella società; ma non è sufficiente che a decidere sia la persona più svantaggiata, deve trattarsi, infatti, di una persona che non sa quale sarà la sua posizione nella società.
ENRICO NICOLI DI ROBILANT, professore emerito della facoltà di Torino e membro dell’Accademia delle Scienze, ha attaccato Rawls sulla base del principio di induzione di HUME (di cui si è detto la volta scorsa), sostenendo che Rawls, facendo il postulato del velo di ignoranza, ha detto che l’assetto di un Paese o di un continente deve essere deciso sulla base di come deciderebbe una persona che non conosce (quindi onesta, perché protetta – dai suoi egoismi e dalle sue deformazioni culturali – dal velo di ignoranza) e non può conoscere la posizione che rivestirà in questo contesto sociale, ma questo è un principio irrealistico perché nessuno mai potrà trovarsi in una situazione così velata di ignoranza, per cui trarre da un postulato del tutto ipotetico delle conseguenze che ricadono sulla realtà significa fare un salto, un percorso di carattere induttivo, cioè trarre dal particolare una legge generale su che cosa deve succedere. Dunque il velo di ignoranza è un valore che può essere attaccato dal punto di vista puramente logico e razionale; però, dietro di esso c’è il predetto sense of justice, cioè la giustizia intesa come una situazione di partenza (distinta dalla giustizia intesa come situazione di arrivo).
Nel mondo filosofico anglosassone di matrice olandese la giustizia viene, infatti, concepita come ambito delle situazioni di partenza; nel modo continentale la giustizia viene invece presentata come l’ambito delle situazioni di arrivo. Dunque la giustizia è una questione filosofica, ma in realtà la giustizia è una questione giuridica.
La stessa parola “principles”, cioè “principi”, è una parola che ha significati diversi se si guarda il mondo anglosassone o il mondo continentale: noi abbiamo i principi come norma di correzione interpretativa presenti nelle preleggi.
FORMAZIONE IN LOGICA E DISCORSO GIURIDICO.
In questa espressione c’è una frattura, perché la logica viene considerata dai giuristi quasi come un canone ermeneutico, cioè come un modo di fornire delle descrizioni, degli enunciati che in qualche modo possono essere coniugati tra di loro, mentre invece il discorso giuridico è il modo con cui questo viene fatto. Dunque in questa espressione c’è un qualcosa che non funziona, in quanto si parla come se noi dovessimo studiare il modo con cui ci occupiamo di qualcosa che al tempo stesso dobbiamo studiare: non si dà per scontato nulla, soprattutto quando i giuristi ritengono che il discorso giuridico debba essere logico. In realtà, c’è un bisticcio di parole, perché i giuristi di formazione continentale dicono “summa iura summa iniuria”, che il diritto più raffinato è una grande ingiustizia. In realtà questa è una traduzione non corretta perché vuol dire semplicemente che le ragioni del diritto sono diverse da quelle della giustizia e dietro c’è proprio lo scontro tra due culture, quella che ritiene il diritto come l’insieme delle cose giuste in partenza ed in arrivo e quella che ritiene il diritto come certezza.
Sicuramente questa concezione del diritto come certezza ha una matrice che ispira alla giustizia intesa come situazione di partenza. Il principio di irretroattività della legge penale si ispira sempre a questa esigenza di certezza del diritto; il principio che regola la successione delle leggi penali nel tempo è un principio che si ispira all’esigenza di certezza del diritto.
Dunque, sembrerebbe che il principio di certezza del diritto sia lo sviluppo delle legislazioni continentali (ma probabilmente non solo) giunte poi alle codificazioni napoleoniche, ma è certamente un principio molto più antico, perché, ad esempio, nell’ambito del diritto romano le prime raccolte dei giureconsulti (le c.d. Pandette) dovevano servire a circolare e a consentire a chi doveva giudicare, esprimere un parere, di mettere in condizione “gli utenti” di sapere in anticipo come sarebbero stati trattati. Probabilmente questo principio che oggi chiameremmo liberalistico, cioè di lasciare libere le persone di agire purché sapessero in anticipo come sarebbero state trattate, trova la sua origine nelle constitutiones dell’Imperatore, che erano la prima forma embrionale delle attuali leggi. Dunque, l’idea di giustizia ad un certo punto si incrocia con la forma di una regola, nel senso di una situazione di risoluzione di possibili questioni che qualcuno in qualche modo è istituzionalmente preposto a dover risolvere e che viene data in anticipo, non necessariamente in forma scritta. E qui si arriva al discorso dei principi di giustizia: quasi sempre sullo sfondo del ragionamento giuridico c’è una di queste direttrici. Il ragionamento giuridico è ispirato ad uno di questi principi: o all’idea di giustizia come insieme delle regole del gioco, dove però il gioco è rimesso ai giocatori, oppure come insieme delle regole che portano ad un risultato già predefinito del gioco, dove i giocatori sono secondari.
È chiaro che il discorso giuridico è fatto di parole, le quali sono piene di significati e di sensi; l’attuale situazione della filosofia del linguaggio preferisce utilizzare la parola “senso”, dal momento che “senso” e “significato” sono due cose diverse. Con la parola “senso” si entra più nell’ambito della logica formale e della matematica, perché ci sono molti simboli. Però, in qualche modo, in quella crisi del pensiero del ‘900 di cui si è detto prima il senso è stato sviluppato in modo convenzionalistico dalla filosofia del linguaggio. A prescindere dal significato che può avere un enunciato, ciò che conta è il modo con cui questo enunciato lavora. Anche se questo enunciato lavora male, se tutti lo accettano, allora l’enunciato lavora bene: questo è il convenzionalismo. Lo sviluppo della filosofia del linguaggio ad un certo punto si è ancorata al senso, all’utilizzo di una parola, mentre in qualche in modo si era ritirata dietro uno scetticismo tipico degli anni ’70, per cui i filosofi del linguaggio hanno finito per dare un significato al senso esclusivamente di carattere convenzionale.
Così, è chiaro che la realtà giuridica è fatta di norme, di pezzi linguistici staccati che hanno un senso (non solo quello convenzionale), una loro ragione intima, cioè una loro ratio. Detto questo si può cominciare ad entrare nel merito della questione dell’interpretazione.
La scuola principale in materia di ermeneutica, che regola la filosofia del linguaggio, è quella di carattere situazionale-storico, cioè quella che ad un certo punto decide di superare il convenzionalismo: il senso che viene dato ad un enunciato linguistico è non tanto il senso che hanno inteso le persone che stanno parlando, quanto il senso che univocamente l’enunciato linguistico ha, per cui l’enunciato linguistico ha il senso che ha, cioè il senso di prassi, con la conseguenza che chi si avvicina a studiare il senso di un enunciato linguistico non deve più seguire l’aspetto convenzionale, cioè il modo con cui è stato inteso il senso attraverso una convenzione, un accordo espresso o tacito, ma deve esaminare il senso che dal punto di vista operativo ha quest’enunciato per chi lo frequenta. Questa scuola analitica ha influenzato anche l’analitica giuridica, per lo più scandinava, e poi anche quella italiana. Chiaramente, il punto di vista di questo tipo di logica non è sufficiente per i giuristi, perché il problema dell’interprete della norma giuridica è proprio quello di determinare il rapporto che passa tra utenti e non utenti, cioè fra quelli che o hanno dato un senso ad un enunciato linguistico normativo o quelli che ne hanno fatto uso in quel modo lì, ma soprattutto nei confronti di quelli che non lo conoscono o non ne hanno mai fatto uso e, soprattutto, si rifiutano di farne uso.
L’attribuzione di un senso ad un enunciato linguistico dipende dal modo con cui si ritiene che quell’enunciato linguistico debba essere concepito per quanto riguarda la sua natura. Dal punto di vista giuridico il legislatore è libero di dare le definizioni che vuole , ma egli non è capace di disciplinare il linguaggio. Ed allora, nell’interpretare la legge si deve guardare all’intenzione del legislatore oppure al modo con cui la prassi ha inteso le disposizioni in esame, oppure guardare queste norme in rotta di collisione con il legislatore, negando a priori l’intenzione del legislatore, dando un’interpretazione di carattere evolutivo?
Dunque, il problema se optare per l’intenzione del legislatore, per l’interpretazione di carattere storico, per un’interpretazione che invece adatti la parola oltre il senso, presuppone che ci si muova all’interno di una concezione assodata di “senso” (quello convenzionale, quello storico, quello normativo, quello definitorio). Ma se tutto questo non c’è, allora al legislatore è meglio chiedere di dire tutto o di dire il meno possibile? Di fronte a questo tipo di domanda la cultura mondiale si divide: nel mondo europeo, in una parte dell’ambito continentale (Germania, Romania, Ungheria…), si è radicato un pensiero che è quello che ha poi portato alle codificazioni e che ha finito per prevalere, perché l’idea di fare dei codici, di elaborare definizioni e di precostituire in via scritta, in via normativa, per tutti e per il futuro, dei “se… allora”; o delle condizioni particolari di regolabilità in futuro di situazioni possibili, è sicuramente parte del c.d. paradigma razionalistico costruttivo. Il razionalismo cartesiano diventa un modo per andare a costruire, postulando la possibilità di costruire, e, quindi, costruire per il futuro come se la costruzione fosse emanazione di un’autorità depositaria di una serie di informazioni che si assume in modo assiomatico che possano essere disponibili a questa mente costruttrice. Invece, nel mondo anglosassone (australiano, neozelandese, statunitense, canadese, perfino argentino) è successo esattamente l’opposto, poiché qui nessuno aveva letto CARTESIO; nessuno era stato influenzato dalle opinioni dei filosofi; venivano utilizzati altri testi e tale mondo era stato caratterizzato ed influenzato dalle forti immigrazioni europee.
Per essere dei buoni giuristi occorre essere democratici (ove “democrazia” significa supremazia del popolo): il problema della democrazia e di tutto lo sviluppo delle teorie democratiche è stato il modo con cui si sono trovati degli accorgimenti razionali ed intelligenti (come quello di JOHN RAWLS) per interpretare le norme.
SPINOZA, filosofo ebreo olandese, ha fortemente influenzato e condizionato i nuovi mondi di matrice anglosassone, ove si è arrivati ad un insieme di convinzioni che attraverso il canone della democrazia appaiono essere frutto di una volontà di un legislatore diffuso. C’è stato, però, un paradosso, perché proprio l’esigenza di capire la complessività della normatività, della legge, ha portato nel nuovo mondo allo sviluppo di un pensiero che secondo i canoni della vecchia Europa costruttivistica-razionalistica apparirebbe non di fonte parlamentare ma giudiziale, ove il precedente, sempre per un’esigenza di certezza del diritto, equivale ai nostri “articolati” di legge. Nel paradigma razionalistico costruttivistico euro-centrico ciò è negato, in quanto si assume che un ente emanatore di una norma sia anche depositario di una conoscenza (che in realtà è dispersa in tutto il mondo) ma che viene utilizzata per emanare una norma che è democratica perché garantisce la sua conoscibilità e, quindi, la sua certezza: è più conoscibile una legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale rispetto ad una sentenza. Sicuramente il tasso democratico delle decisioni creative dei giudici a prima facie sembrerebbe molto basso nella nostra prospettiva codicistica, ma dal punto di vista della complessità del mondo giuridico e dell’impossibilità di prevedere tutto, probabilmente l’affidarsi ai giudici potrebbe sembrare rilevante, perché il tasso di criticità e di razionalità del ragionamento giuridico dovrebbe alzarsi, perché il giudice può anche tener conto dei nuovi problemi o dare una lettura territoriale del senso delle proposizioni senza affidarsi ad una fonte che non ha previsto quel particolare caso.
Ma questi due mondi sono poi così distanti e divisi? Non hanno forse la stessa matrice, per cui tutto sommato vanno abbastanza d’accordo? Non hanno forse semplicemente delle concezioni diverse su cosa fanno, magari facendo le stesse cose? Allora bisognerebbe vedere se effettivamente ci sono delle differenze e, soprattutto, se queste differenze vengono percepite come tali. Il fatto che si usino delle parole diverse non significa che il senso sia diverso. La questione è stabilire se si tratta di un senso storico oppure convenzionale oppure normativo: esiste, infatti, un problema di senso normativo anche nel mondo anglosassone.
Nel volume di MONATERI, Sull’interpretazione della legge penale, c’è una rivisitazione di una frase di EMILIO BETTI, che ha scritto in due volumi Il trattato sull’interpretazione della norma giuridica, in cui l’autore parlava di trapianti delle culture giuridiche, di influenze di una cultura su un’altra e, soprattutto, di trapianti irrazionali e casuali di un istituto si di un altro. La teoria dell’interpretazione fatta dai comparatisti è del tutto insoddisfacente, perché è una teoria dell’interpretazione che si limita a dire che, se si trapianta un istituto da un Paese all’altro, in quest’ultimo Paese non funziona come tale. I comparatisti non dicono nulla sulla norma sull’interpretazione. Però da essi si possono trarre delle utilità, come ad esempio domandarsi se l’idea dei trapianti sia utile per l’interprete della norma penale.
Già nel modo con cui è impostato il codice l’interprete ha fatto il suo lavoro. Ha fatto una scelta fra tutte quelle possibili, ad esempio quella di non inserire le disposizioni sulla legge in generale. L’art. 12 delle preleggi ha una faccia positiva ed una negativa; non necessariamente esso entra sempre in opera.
UN TERRENO VEICOLO DI DISCRASIE.
L’unico momento in cui nell’ordinamento italiano viene definita la legge è l’art. 11 preleggi.
Il II comma dell’art. 12 preleggi sancisce che “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe. Se il caso rimane ancora dubbio si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Quali sono questi principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato? Non è scritto da nessuna parte. In realtà, in molte zone dell’ordinamento, soprattutto in ambito civile, si sono sviluppati concetti piuttosto precisi su quali sono i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato attraverso la nozione di norme inderogabili, coattive. Una delle fonti a cui attinge questa lettura sta nel II comma dell’art. 1418 c.c., che si occupa delle cause di nullità del contratto e prevede, tra le cause di nullità, l’illiceità della causa. Più volte nel codice civile c’è il riferimento ai principi generali dell’ordinamento giuridico oppure a disposizioni inderogabili. In generale gli interpreti riconducono il carattere di inderogabilità delle disposizioni in modo tautologico proprio al fatto che le disposizioni sarebbero definite come inderogabili per ragioni di tutela di una categoria oppure della collettività, ecc.. A certe disposizioni non si può derogare perché esse sono i binari portanti dell’ordinamento, cui anche la volontà delle parti non può derogare: caso tipico è il diritto di famiglia.
Già attraverso le preleggi appare questo riferimento ai principi, i quali vengono definiti “generali dell’ordinamento” e non sono, però, ricompresi tra le fonti dell’ordinamento; non sono, in senso tecnico, una fonte normativa.
Ci sono due o tre articoli del codice penale che sono poco studiati, ma sono veramente delle norme, non precettive, che rappresentano dei segmenti di enunciati normativi facenti parte della norma estesa di cui si è parlato e parlerà. Questi “articolati” sono stati letti e studiati da alcuni illustri giuristi che hanno poi finito con l’influenzare il pensiero della Corte di Cassazione, divenendo così principi acquisiti. Si tratta degli artt. 15, 49 e 115 c.p., su cui MARCELLO GALLO e MARCO SINISCALCO si sono concentrati, con interpretazioni sistematiche. MARCELLO GALLO, pur senza volerlo, è stato il padre della teoria del bene giuridico, dell’interesse protetto dalla norma, che invece è stata utilizzata da pensieri completamente diversi dai suoi. L’autore si domandava (muovendo da un canone argomentativo “ridotto”) perchè‚ negli artt. 49 e 56 c.p. ci siano delle espressioni simili ma diverse, in quanto nell’art. 49 si parla di “inidoneità dell’azione”, mentre nell’art. 56 c.p. si parla di “atti diretti…”. Questo, per GALLO, vuol dire che per l’art. 49 c.p. il fatto di reato materialmente realizzato corrisponde a quella descrizione fatta in astratto dal legislatore nella fattispecie incriminatrice in tutto e per tutto, mentre nell’art. 56 è incompleto, nel senso che o c’è solo una corona parziale di atti che non costituiscono già l’azione o c’è già l’azione ma manca l’evento che è il secondo segmento del fatto di reato, che è quella porzione di realtà realizzata dall’uomo che viene punita in quanto assistita dalla partecipazione psicologica. Dalla distinzione tra le due norme MARCELLO GALLO, in modo formalistico, ha tratto delle conclusioni che dal punto di vista ermeneutico ha portato la Corte di Cassazione a seguire queste opinioni, a ritenere che esiste un bene che deve essere colpito e che non Š immediatamente e necessariamente leggibile dalla norma, e trarre poi da queste acquisizioni tutta una serie di conseguenza in altri ambiti.
Gli ultimi quindici anni di elaborazione in materia penale della Corte Costituzionale vedono presente in Corte NEPPI MODONA, allievo di MARCELLO GALLO: NEPPI MODONA ha scritto un bel libro sul reato impossibile in cui sviluppa e sistematizza, avvicinandosi alle opinioni di BRICOLA, quando invece SINISCALCO, altro allievo di GALLO, fa una ricerca sul tentativo, sull’art. 56 c.p.. Questi allievi, che avevano una posizione politica diversa da quella del loro maestro, danno una lettura diversa che porta addirittura al bene giuridico tutelato dalla Costituzione, la quale viene divisa in una parte prescrittive e in una parte programmatica.
UNA GRIGLIA DI PIANI DEL LINGUAGGIO PER SCOPRIRE LE RAGIONI DELLE DISCRASIE.
In un mondo che si sta integrando sempre di più, parlare di diritto nazionale tout court puro e semplice diventa sempre più difficile. Nessuno vuole contestare una tendenziale esistenza della sovranità nazionale in materia di diritto, così come nessuno vuole contestare l’esigenza, insita proprio nella legge, della certezza del diritto, che non è un principio soltanto filosofico, ma è il lato in ombra, cioè l’altra faccia del diritto, che nel diritto penale si normativizza, cioè si costituzionalizza ( CARACCIOLI) nell’art. 25 Cost.. In realtà questo lato in ombra della legge è un lato che caratterizza la norma, anche quella civilistica e non solo quella penale. Dunque oggi è impensabile concepire il diritto unicamente come un diritto che ha una derivazione centralizzata di carattere statuale. C’è, infatti, il discorso delle convenzioni internazionali, dei trattati, della N.A.T.O., dell’O.N.U., dell’Unione Europea, di fonti normative che coesistono, si sovrappongono e si intersecano.
Un altro aspetto emerso è relativo al fatto che quasi tutte le concezioni concernenti l’attività interpretativa sono in qualche modo agganciate ad una teoria della norma un po’ datata (ordinamento come sistema, norma come comando…) e semplicistica. Inoltre, la norma intesa come comando e prescrizione, in sé e per sé, non coincide con la singola disposizione normativa: ci sono delle norme che regolano il modo con cui si emanano le norme; altre norme che regolano i tempi o la nascita di altre norme o chi interviene nel processo di articolazione normativa, ecc.. L’ultima volta si è parlato di norma estesa , come insieme di tutte quelle situazioni normative ed indicazioni provenienti dal diritto da cui l’operatore giuridico può e deve andare ad attingere per risolvere una questione che è obbligato a risolvere, anche se non necessariamente le attinge tutte, per cui opera un certo tipo di scelta secondo i parametri di applicazione della norma, ragionamento giuridico ed interpretazione delle norme. Ma si ricordi che questa nozione di norma è una nozione statica dal punto di vista metateorico, dal punto di vista di chi guarda come il diritto si comporta verso l’attività interpretativa e come gli interpreti si comportano verso il diritto (punto di vista esterno). L’ordinamento viene così guardato in modo statico, come se fosse una macchina che cammina ma che rimane sempre tale, cioè rimane sempre statica, anche se composta da tutta una serie di pezzi.
Invece, il risultato dell’attività esegetica (di ricerca e applicazione) è quello di arrivare alla norma pratica utilizzata nella soluzione del caso (assolvere, condannare, quale pena applicare, respingere un’istanza di scarcerazione, ecc.).
Di fronte a questa visione generica, la norma mostra uno dei suoi segreti e cioè che la norma non è una sola disposizione, ma sono dieci, cento, mille disposizioni che l’operatore giuridico deve trovare e combinare insieme.
Assume rilievo in proposito un passo di un’opera del GIANOLA : “Ogni proposizione normativa è suscettibile di essere interpretata in ventiquattro modi diversi. Questo risultato presuppone, però, che ogni singolo metodo porti ad un solo risultato. La verità invece è che per ogni tipo di interpretazione i risultati possibili sono più di uno: supponendo che ciascun metodo dia in media tre risultati accettabili abbiamo che ogni proposizione normativa può avere in media settantadue risultati accettabili. L’ulteriore moltiplicazione per due di tale cifra si riferisce al fatto per cui ogni preposizione giuridica una volta interpretata può venire utilizzata di fronte ad un caso nuovo o ragionando per analogia o ragionando al contrario, ciò che apre al giurista una media di centoquarantaquattro usi possibili di ogni preposizione normativa”. In realtà per un verso questi numeri possono essere moltiplicati a dismisura, ma per altro verso devono essere ridotti. Possono essere moltiplicati perché non si può assodare che esiste soltanto un metodo, ma esistono più metodi e più opzioni sui metodi e queste opzioni possono poi subire tutte le moltiplicazioni volute, il problema è semplificare e fare chiarezza, andando a vedere quali sono effettivamente.
LE NORME REGOLATIVE DELL’INTERPRETAZIONE (3° LIVELLO).
Ho brevemente alluso e tratteggiato ai seguenti piani:
1. le concezioni del diritto e dell’interpretazione, quelle a monte, di carattere filosofico;
2. la metainterpretazione, cioè lo studio di cosa fanno gli ermeneuti, cioè i giuristi;
3. l’interpretazione vera e propria, ossia le norme sull’interpretazione;
4. i canoni ermeneutici sufficientemente indicati dalla legge, dai quali non ci si può scostare;
5. i canoni tratti indirettamente dalla legge e che comunque trovano rispondenza ad esempio nella giurisprudenza in modo piuttosto sistematico;
6. i canoni di carattere tradizionale, normalmente ricondotti alla c.d. argomentazione giuridica.
Questo schema, costituito da sei punti, può anche essere articolato diversamente, ma di ciò si è già detto velocemente all’inizio e si dirà meglio più avanti. Ad ogni modo, è importante stabilire questo tipo di griglia perché consente di mettere ordine.
Esempio: Si pensi la delitto di epidemia, di cui all’art. 438 c.p., il quale stabilisce che “chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo”. Per questo reato, chiaramente volontario, c’è l’arresto in flagranza e il fermo consentito per la persona, nonché la procedibilità d’ufficio, con Corte d’Assise competente. La giurisprudenza tuttora dà una lettura tecnica di “germi patogeni”, nel senso di non farvi rientrare, ad esempio, l’utilizzazione di sacche di sangue infetto, poiché non viene data un’interpretazione evolutiva, ma un’interpretazione tecnica dell’espressione “germi patogeni”. Se un interprete considerasse l’uso di sangue infetto come “diffusione di germi patogeni”, darebbe di quest’espressione un’interpretazione evolutiva non consentita, anche se probabilmente non anti-letterale, perché nel caso in esame siamo completamente al di fuori del discorso interpretativo, poiché il giudice con questa norma non svolge alcun tipo di attività interpretativa.
Il metodo classico di svolgere un’attività interpretativa è il muoversi sul senso dell’enunciato, indipendentemente dai risultati. Infatti, il diritto penale mi vieta di estendere la sfera di punizione di una norma. L’interprete non può estendere, non può fare un ragionamento analogico in malam partem e secondo alcuni (fra cui noi) neppure in bonam partem. L’attività interpretativa vera e propria dovrebbe regolare i casi incerti, per cui non è pacifica l’applicazione della norma, perché un giurista deve porsi il problema di tutto l’insieme delle disposizioni dell’ordinamento giuridico con cui ha a che fare, ivi comprese quelle norme che si innestano su delle nozioni che stanno al di fuori del diritto penale.
Così, ad esempio, nel caso degli interventi medici, non c’è bisogno di alcuna attività interpretativa per capire che se c’è il consenso non ci può essere una lesione; così pure nell’ambito dell’attività sportiva, ove l’iscriversi ad un club di calcio comporta il consenso al rischio di prendersi un calcio durante la partita, il che esclude la lesione. A volte, però, i problemi sorgono comunque: quando una persona si iscrive ad una federazione (di calcio, di basket o di canoa), firmando aderisce alle clausole compromissorie della federazione, le quali vogliono che le questioni che sorgono vengano decise da arbitri (in senso civilistico) o da giudici sportivi previsti all’interno della federazione. L’iscritto è, però, libero di rifiutare questo patto civile e, quindi, di non aderire alla clausola compromissoria e fare querela nei confronti della persona che gli ha fatto del male. A quel punto la reazione della federazione sportiva è obbligata, perché in genere, in casi di questo tipo, sono previste sanzioni come l’espulsione dalla federazione per violazione delle clausole compromissorie. Una cosa del genere era successa ad un famoso magistrato che era componente di una C.A.F., il quale, non avendo osservato la clausola compromissoria, è stato espulso.
Ad ogni modo, il giudice adito dovrà prima verificare se c’era il consenso e rispondere alla domanda se pur essendoci il consenso astratto, poiché avendo aderito al regolamento si dà implicitamente il consenso a sottoporsi a certi rischi – il fatto è rilevante per il giudice civile (ex art. 2043 c.c.). Perciò, si pone il problema di lettura del rapporto che passa tra la legge civile con i regolamenti, con la conseguenza che si potrebbe benissimo dire che non è sufficiente un consenso astratto, ma è necessario uno specifico consenso concreto, il quale, anche se ci fosse, potrebbe essere nullo perché relativo all’integrità fisica che è indisponibile, per cui ne segue l’obbligo di risarcire il danno o la necessità per il giudice penale di condannare. Questo tipo di assunzione a carattere interpretativo a sua volta si dovrebbe basare su di un’altra assunzione: si dovrebbe andare a dare una lettura corretta dell’art. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo comportanti una diminuzione permanente dell’integrità fisica o comunque contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume; ma rilevano altresì l’art. 582 c.p., per il quale “chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni”, l’art. 583 c.p. sulle circostanze aggravanti della lesione personale e l’art. 584 c.p. sull’omicidio preterintenzionale. Dunque la questione è: per stabilire in che cosa consiste la diminuzione permanente dell’integrità fisica di cui all’art. 5 c.c. ci si può riferire agli artt. 582 e ss. c.p.? Sicuramente nell’ambito dell’attività sportiva un consenso astratto o anche concreto ad una diminuzione permanente dell’integrità fisica sarebbe probabilmente nullo e aprirebbe il discorso dell’elemento psicologico della colpa oppure il discorso della dinamica dell’errore di cui all’art. 47 c.p., il cui ultimo comma prevede che “l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato ”.
L’interpretazione sistematica verosimilmente non esiste e viene confusa con la ricerca delle norme estesa di riferimento che l’ordinamento mette a disposizione e che vanno individuate ed incrociate tra di loro per l’individuazione della norma. Esistono milioni di fonti che non hanno forza e valore di legge, ma che vengono parificate e richiamate, per cui la lettura di un concetto può essere giusta o sbagliata. Ma una cosa è leggere una norma e dare ad essa un significato, un’altra cosa è svolgere un’attività correttiva della norma: l’interpretazione è l’ambito delle manipolazioni e delle correzioni della norma giuridica, che sono frequentissime, ed in modo improprio viene ricondotta all’interpretazione quell’attività evolutiva e manipolativa della norma che non viene sostenuta con dei canoni dati dalla legge direttamente od indirettamente o dalla giurisprudenza, ma attraverso delle argomentazioni di carattere logico o di buon senso o di scuola. Però non bisogna mai confondere il profilo di lettura delle disposizioni e di incroci di disposizioni fra di loro con quello interpretativo, perché altrimenti tutto è interpretazione e il giurista può fare quello che vuole.
C’è ormai una visione della giurisprudenza normativista-critica, (normativismo illumistico della Scuola di Genova), che cerca di coniugare insieme la cultura anglosassone con quella prettamente normativa di stampo europeo, dicendo di andare alla ricerca della norma estesa, tenendo però anche conto della giurisprudenza. Ed allora quand’è che ci si deve discostare dalla giurisprudenza? A monte la domanda è: è necessario che a livello normativo e giuridico ci siano delle norme che regolano l’attività interpretativa? È possibile che queste norme che siano sufficienti? Fino a che punto servono? E dopo?
La norma estesa non è una realtà metafisica; non è la norma fondamentale. Il diritto è unico, per cui si deve negare l’autonomia dei singoli ambiti (come quello del diritto tributario). Spesso chi sta svolgendo un’attività esegetica si sgancia dal discorso esegetico con una nozione di carattere filosofico o di teoria generale o di sistema. Quando si parla di norma estesa in realtà non se ne può parlare se non guardando ad un insieme come se fosse statico, anche se occorre altresì guardare al diritto in senso dinamico: nel momento in cui il giudice scrive una sentenza, il legislatore continua a legiferare; in poco tempo il diritto muta e muta in modo imprevedibile.
L’IMMAGINE DEL CONO-PIRAMIDE A PIÙ LIVELLI DI PROFONDITÀ.
La norma non è la singola disposizione o la singola fattispecie incriminatrice, ma è la combinazione di tutti quei “pezzi” dell’ordinamento utilizzabili per andare a disciplinare un certo tipo di situazione, ivi compreso il diritto dinamico. L’esegeta andrà ad incidere anche sul diritto che si muove, che muta. Allora il problema sarà quello di andare a vedere le linee di tendenza, considerando le gerarchie esistenti (si pensi alla figura del cono o del triangolo, perchè se si utilizza la tecnica insiemistica in tema di diritto corriamo il rischio di ingannarci).
Dunque, per lo svolgimento dell’attività ermeneutica occorrono delle norme di regolazione di essa, le quali possono appunto essere raffigurate geometricamente con un cono o un triangolo dove sono stati via via messi, dall’alto verso il basso:
1. canoni di carattere filosofico (concezione di ordinamento e di sistema), che modificano l’interpretazione specifica e concreta;
2. norme vere e proprie sull’interpretazione;
3. norme che si possono attingere dal diritto comunitario;
4. canoni ermeneutici che si ricavano direttamente od indirettamente dall’ordinamento giuridico;
5. canoni ermeneutici contenuti nella giurisprudenza e nei codici di procedura (non contraddizione, logicità, principio di razionalità, motivazione);
6. argomentazioni e discorsi persuasivi.
Tra tutti questi canoni deve essere imposta una gerarchia, un ordine, che graficamente può avere un nucleo interno (al cono), costituito dalle disposizioni normative nelle loro combinazione, le quali sono bloccate nel cono perché ne rappresentano l’anima (=il diritto, che non può essere violato). Poi ci sono degli ambiti in cui, ove esistano dei margini di dubbio, intervengono le norme sull’interpretazione, piuttosto rigide. Dentro il cono e man mano che si va verso la sua superficie ci sono degli ambiti di opinabilità sempre più ampi, ma che comunque devono essere sorvegliati giuridicamente e motivati, giustificati. Tra l’altro il momento della giustificazione, momento pregnante, è imposto dallo stesso ordinamento giuridico (si pensi all’obbligo di motivazione delle sentenza), da tutti gli ordinamenti. Essendoci un ordine, l’attività ermeneutica non può passare da un ordine all’altro saltandone uno intermedio.
UNA FONTE DELL’INTERPRETAZIONE APPLICATA ALLA LEGGE.
La legge 20 marzo 1865 n° 2248, allegato E, relativa al contenzioso amministrativo, è una legge di 140 anni ancora in vigore: essa già si poneva i problema di stabilire quali poteri avesse il giudice e in quale rapporto si ponessero questi poteri con le giurisdizioni speciali, le quali, con questa legge, furono aboliti attraverso la devoluzione delle questioni di loro competenza alla giurisdizione ordinaria o amministrativa. A questo punto nasce il problema del riparto tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria, di cui si occupano gli artt. 2 e ss. della suddetta legge, la cui norma cardine, nonché una delle norme sull’interpretazione, è l’art. 4, in virtù del quale “quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio”. Il Tribunale può conoscere solo l’effetto dell’atto che in qualche modo si incrocia col problema da risolvere. Il II comma dell’art. 4 stabilisce che “l’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso”. Questa norma è stata letta nel senso che i Tribunali possono solo conoscere degli effetti dell’atto stesso, ma non possono né revocarlo né modificarlo, perché la revoca o la modifica può essere fatta solo dall’autorità amministrativa.
Ma cosa vuol dire “conoscere”? Conoscere significa valutare, essere competenti a valutare, mentre “statuire” per il giudice significa modificare con un provvedimento giurisdizionale delle situazioni giuridiche ; in genere questi due problemi sono uniti nel giudice ordinario, eccezionalmente sono separati. Dunque, avere cognizione vuol dire conoscere, cioè essere autorizzati a prendere atto dell’esistenza del provvedimento amministrativo, ma solo questo, senza poterlo modificare o revocare, perché c’è una riserva di P.A. su cui il giudice non può intervenire, essendo vietata l’interferenza tra provvedimenti giurisdizionali e provvedimenti amministrativi.
Altro articolo importante della legge sul contenzioso amministrativo è l’art. 5, il quale prevede che “in questo come in ogni altro caso le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”. Se non sono conformi alle leggi non potranno essere applicati.
Si parla ora di applicazione perché anche nell’art. 12 preleggi si parla di applicazione, anche se la rubrica è “interpretazione della legge”. L’art. 14 preleggi è dedicato alla ”applicazione delle leggi penali ed eccezionali”, stabilendo che “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in essi considerati”. Poi rileva il Trattato comunitario, adesso in via di modificazione, che all’art. 190 stabilisce che l’applicazione della legge penale non rientrerebbe nelle competenze della Comunità Europea (poi è intervenuta la Costituzione europea del 2004). Quanto alla Costituzione italiana, rilevano gli artt. 101 ss., nei quali però non si parla di applicazione ed interpretazione della legge. Si può correttamente affermare che la nostra Costituzione è completamente silente in tema di canoni ermeneutici e non parla mai di applicazione della legge.
Occorre guardare all’ordinamento giudiziario (richiamato proprio dalla Costituzione), alla raccolta di leggi di ordine pubblico (emanate in diversi periodi) che regolano l’esercizio dell’attività giurisdizionale. In particolare si guardi al R.D. 30 gennaio 1941 n° 12, che è la norma cardine e centrale sull’ordinamento giudiziario, essendo un insieme di principi fondamentali sull’ordinamento giudiziario. L’art. 65 si occupa delle attribuzioni della Corte Suprema di Cassazione, la quale “quale organo supremo della giustizia assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge (c.d. nomoofilachia), l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni (i conflitti di giurisdizione fra i vari giudici vengono sempre risolti dalla Corte di Cassazione), i conflitti di competenza e di attribuzioni ed adempie gli altri compiti ad essa attribuiti dalla legge”. Dunque, la Corte di Cassazione ha il compito di dare l’interpretazione della legge, ma questa non vincola, cioè vincola di fatto, ma il ruolo interpretativo non è affidato in via esclusiva alla Corte di Cassazione.
Ci sono poi delle disposizioni sul P.M., delle quali quella centrale è l’art. 73, per il quale “il Pubblico Ministero veglia all’osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci, richiedendo nei casi urgenti i provvedimenti cautelari che ritiene necessari, promuove la repressione dei reati e l’applicazione delle misure di sicurezza, fa eseguire i giudicati ed ogni altro provvedimento del giudice nei casi stabiliti dalla legge, ha pure azione diretta per far eseguire ed osservare le leggi d’ordine pubblico e che interessino i diritti dello Stato…”. L’art. 74 è un’altra norma cardine: “Il Pubblico Ministero inizia ed esercita l’azione penale”, ove con la riforma del codice di procedura penale il verbo “esercitare” non vale più, mentre “esercitare” vuol dire iniziare; l’art. 75 si occupa del ruolo del P.M. nei casi più delicati, anche civili (famiglia, minori, separazione, divorzio, ecc.).
Dunque, è evidente la particolarità del diritto italiano, che impone al P.M. l’osservanza delle leggi. Ad es., mentre il Procuratore distrettuale americano non è assolutamente tenuto a vigilare sull’applicazione delle leggi, così anche quello francese, quello italiano vi è, invece, tenuto, svolgendo una funzione pubblica, con la conseguenza che egli viene a porsi un piano complementare rispetto al giudice penale o civile quando ha competenza.
Vanno poi lette le disposizioni di attuazione del codice di procedura civile.
ENTRANDO NEL FUOCO DISCRASICO FRA INTERPRETAZIONE OBBLIGATA ED APPLICAZIONE.
Tutte queste passate in rassegna sono le disposizioni che in qualche modo riguardano l’attività interpretativa: dal punto di vista generale nell’ambito dell’ordinamento il rapporto tra disposizioni sull’interpretazione della legge e disposizioni sull’applicazione della legge è un rapporto problematico, nel senso che sembra far entrare l’interpretazione nel concetto di applicazione della legge. Questo è logico, perché se immaginiamo che le norme sull’analogia o sull’interpretazione siano delle norme di chiusura dell’ordinamento giuridico esse stesse vengono concepite come oggetto di un dovere di applicazione da parte del giudice. Di questo sente bisogno il legislatore nel codice civile; nel codice penale non c’è una norma di richiamo diretto al codice civile. Per cui ci si domanda se sia autonomo nelle qualificazioni.
Anche il codice civile parla di “interpretazione” o lo fa in riferimento al contratto, nel capo IV del Libro IV, agli artt. 1362-1371 c.c.. Da sempre una delle libertà che però non ha una propria specificazione a livello normativo è quella di guardare all’oggetto: a seconda dell’oggetto che l’ermeneuta ha di fronte, mutano i criteri ermeneutici.
Un orientamento che emerge da grandi scuole di pensiero si domanda quali ragioni esistono per rifiutare le indicazioni interpretative che puntano all’intenzione delle parti, al comune senso, alla buona fede, anche se rivolto ad un negozio giuridico che ha forza di legge tra le parti, tanto più che ciò si collega in qualche modo all’art. 12 preleggi che parla di “intenzione del legislatore”. Dunque si guarda all’intenzione e si postula l’esigenza di una volontà legislativa, e quindi si può dire che si fa ricorso ad un’applicazione analogica per colmare una presunta lacuna in materia di norme interpretative.
Quanto detto finora è necessario e sufficiente per iniziare presto un discorso di lettura vera e propria dei ragionamenti interpretativi: è sufficiente, perché a questo punto si può distinguere molto bene tra quelle che sono le indicazioni provenienti per legge all’interprete e sapere che esse si pongono a vari livelli, nonché porsi al di fuori della norma per rendersi conto di quando l’esegeta debba affrontare un problema di costruzione della norma.
La prima parte dell’art. 12 preleggi non dice nulla sul ruolo dell’attività interpretativa, ma si limita a dire che chi applica la legge deve fermarsi al significato: l’unico elemento fornito è quello dell’intenzione del legislatore. Dunque tale articolo va molto depotenziato; in base ad esso bisogna decidere che:
• manca una precisa disposizione;
• il caso non può essere deciso;
• esistono delle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe;
• è opportuno optare per l’una o per l’altra, cioè che esiste una similitudine o un’analogia tra i casi (ma se non c’è cosa succede?).
Se il caso continua a restare dubbio, allora si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
In materia penale non è ammessa analogia. Quindi, le preleggi valgono solo in senso negativo in materia penale. A questo punto il problema è di determinare quali siano i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, perché soltanto attraverso i ricorso ad essi, nell’ambito del diritto penale, si pone i problema se si è in presenza o meno di un ragionamento analogico.
I principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato si ricavano in via interpretativa da alcune norme ponte-cardine dell’ordinamento giuridico dello Stato. Su di esse la Corte Costituzionale ha ritenuto di potersi esprimere, stabilendo quali sono. Rimane il problema se nell’ambito del diritto penale si possa fare ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato quando una controversia non possa essere decisa con una precisa disposizione.
LA LACUNA PRESUNTA. UNA VORAGINE ERMENEUTICA.
Chi vuole approfondire il discorso sull’art. 12 delle preleggi ha un’ampia scelta, perché sull’argomento è stato scritto molto. Già a livello codicistico, nei codici commentati, si trova qualche cosa in proposito, perché sia il codice penale che quello civile riportano sempre all’inizio le preleggi. Ma nonostante questa mole immensa di materiale e di scritti, quando guardiamo al diritto penale e alla norma penale rimane sempre una grossa difficoltà, nel senso che gli studiosi del diritto penale hanno guardato al problema dell’interpretazione della legge penale, dando per scontati degli aspetti, relativi i problemi dell’analogia e della lacuna, che sono stati studiati ed esaminati con un’attenzione particolare nell’ambito del diritto civile. Ma nel momento in cui vengono riportati al campo del diritto penale, non funzionano più, dando così origine alle suddette difficoltà.
Si tratta, dunque, di un problema di lacuna. A monte, dovremmo chiederci se si può parlare di lacuna in senso tecnico quando ci si domanda se c’è bisogno di ricorrere ad una norma per dire che esiste una lacuna.
Facciamo l’ipotesi che non tutte le norme che regolano l’interpretazione della legge penale o della legge in generale siano sufficienti a risolvere i dubbi di lettura delle norme. A questo punto ci si trova dinanzi ad un bivio: se nella legge non ci sono tutte quelle indicazioni necessarie per risolvere i casi effettivamente dubbi, perchè ad esempio mancano delle indicazioni normative precise sul concetto di “dubbio”, allora o riteniamo di essere liberi, per cui riteniamo di poter prescindere dalla necessità di ancorarci ad una norma, oppure possiamo pensare di non essere liberi e di aver bisogno di colmare questa lacuna andando a prendere altre norme che regolano materie analoghe. Impostato così il problema, capiamo un po’ di più il perché qualcuno abbia ritenuto di poter applicare anche alla legge i criteri ermeneutici previsti dall’art. 1362 c.c. e ss., dettati in relazione al negozio giuridico e alla volontà.
Invece, se noi pensassimo che il ragionamento possa essere invertito, ipotizzando che nell’ordinamento giuridico esistano i meccanismi per poter risolvere i dubbi interpretativi, essendo sufficiente trovarli, allora non potremmo parlare di una carenza normativa e dovremmo assolutamente negare che esista una libertà dell’ermeneuta o dell’esegeta o del giurista nel far uso dei criteri, perché i criteri sono radicati nell’ordinamento giuridico.
Si può obiettare che, fatta un’ipotesi o fatta l’altra, di fatto alla fine i risultati sono gli stessi. In realtà non è la stessa cosa, perché già il fatto di pensare che il principio di certezza del diritto concerna anche le regole del suo funzionamento fa sì che le argomentazioni che si presentano vengano presentate come argomentazioni normative, vincolate, bloccate, corrette, e in questo modi, quindi, sottratte a quello che è il discorso della plausibilità, della razionalità…. Questo è un po’ ciò che caratterizza il pensiero giuridico continentale rispetto a quello non continentale, vale a dire il normativismo, ossia il fatto che comunque si deve trovare nel diritto scritto una soluzione, mentre invece il diritto anglosassone, anche se è molto diritto scritto, lascia piuttosto libero il giurista.
Fino a questo punto quanto scritto ha avuto un taglio di carattere normativo, riconducibile ad un orientamento non fenomenologico ma normativista, caratterizzato da un normativismo realista e/o da un realismo normativista (tanto per inventare delle espressioni), cioè nel senso che si aggancia esclusivamente alle norme, considera il diritto come un insieme complesso e mutevole di enunciati normativi (a carattere prescrittivo, informativo-negativo, cioè di divieto, come detto l’ultima volta). Tutti i grandi pensatori inglesi (come AUSTIN, BENTHAM fino ad HESSRE) hanno parlato della norma come regola di giusta condotta, dove giusto non è il giusto politicamente, ma si riferisce alla condotta praticata. Le regole sarebbero di formazione spontanea ed avrebbero un contenuto conoscitivo racchiuso in sé, difficile da vedere in quanto nucleo delle norme giuridiche. Queste regole sono le c.d. “rules of just conduct”, che vanno tenute distinte dai “principles” (principi) ed entrambi vanno distinti dalla law (questa è l’impostazione data da HAYEK ). Queste regole di giusta condotta che si sviluppano spontaneamente avrebbero in sé un contenuto conoscitivo perché consentirebbero ai consociati di tutto il mondo (ai membri della great o big society) di padroneggiare le loro conoscenze. L’unico modo per trasmettere le conoscenze è quello di lasciarle circolare attraverso questi meccanismi e di rafforzare le regole di giusta condotta, magari già rafforzate in sede amministrativa o civile.
Quindi si tratta di una scelta di valore, come capita ad esempio in materia tributaria o urbanistica: il ricorrere ad un ulteriore rafforzamento di una tutela che c’è già, diventa a volte una scelta non necessariamente di carattere tecnico. Questo è un discorso che concerne la funzione della pena (retributiva, riabilitativa, rieducativi…), perché spesso il ricorrere ad un certo tipo di sanzione piuttosto che a un altro vuol dire ricorrere ad un’etichetta, cioè ad un marchio, che, a prescindere dal fatto che la pena in concreto ci sia, cioè venga applicata, segna, nel senso che lascia un segno.
Ma l’evoluzione del diritto penale dal 1975 è stata di questo tipo: la pena non è quella stabilita dal giudice. Il giudice esercita un certo tipo di attività simbolica, ma in realtà la pena non è quella. Si chiama “reclusione”, ma non è più reclusione o almeno non è solo più reclusione, per cui nessuno prima di commettere il delitto sa quanto sarà la pena e se sconterà una pena. Si badi, però, questo discorso non ha nulla a che fare con la legislazione premiale, spaventosamente configgente coi principi più elementari del diritto . A questo punto, pertanto, il legislatore concepisce la funzione della pena come puramente simbolica, in quanto la pena non deve essere affittiva in sé, ma deve essere affittiva in quanto chiamata tale. In altri termini, il fatto in sé che si muova il giudice penale è un qualcosa di spaventoso (ovviamente non per tutti, perché ci sono persone insensibili a questo aspetto): quanto più è alta la sensibilità culturale e il prestigio della persona, tanto più l’effetto della sanzione penale è violento. Dunque, il discorso della funzione della pena andrebbe rivisto.
In questa prospettiva noi ci accingiamo a studiare, ad esempio, l’art. 12 delle preleggi senza sapere se si applica al diritto penale (come è già stato detto prima): sicuramente il I comma non dice nulla, ma è il II comma che rileva. Se si legge ciò che affermano giurisprudenza e dottrina sulla possibilità di applicare analogicamente la norma in sede penale, quasi tutti dicono che ciò non è possibile, perché se il legislatore non ha considerato punibile e sanzionabile un certo comportamento, esso non può essere punito e sanzionato per analogia.
L’EFFETTO DELLE APPLICAZIONI INTERPRETATIVE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA.
Nei Paesi socialisti c’era l’idea che la norma fosse un comando e che ciò che non era permesso era vietato e dove c’era una sanzione questa presupponeva una nozione di norma giuridica diversa da quella propria, ad esempio, di HAYEK. Dunque, questo tipo di concezione utilizzava la sanzione penale in modo alternativo rispetto ad altre forme di sanzioni e non in modo aggiuntivo. Invece da noi in Italia c’è una cultura “mista”, intermedia tra un modo di pensare centro-europeo ed uno costruttivistico un po’ cartesiano che è quello socialista . Qui stiamo parlando della concezione della norma giuridica e dell’eliminazione dell’attività interpretativa. Nei codici socialisti quasi mai c’erano delle norme che regolavano l’attività ermeneutica, perché non ce ne era bisogno, essendo la legge “chiara” ed essendo sufficiente che l’interprete l’applicasse senza nulla interpretare. Ad esempio, veniva punito il comportamento anti-socialista. Chi si comportava in modo “anti-socialista” era punito “da… a” o addirittura con una pena secca. Il giudice doveva solo applicare la pena precisamente stabilita. Si chiamavano clausole aperte, diverse dalle nostre clausole di stile (ad es. la diligenza del buon padre di famiglia), ove il ruolo dell’interprete diventa forte, arrivando addirittura in via giudiziale ad applicazioni paradossali, come l’applicazione retroattiva della legge penale con conseguente effetto sfavorevole per il reo. In materia di religione, ad esempio, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la norma sul vilipendio della religione cattolica nella parte in cui non punisce gli atteggiamenti antireligiosi verso religioni diverse da quella cattolica, che era stata definita come religione di Stato. Dunque, di fatto con questa interpretazione si andava a punire anche un comportamento che era stato commesso prima che fosse considerato punibile, in modo surrettizio, con una di quelle forme di manipolazione giuridica in senso tecnico fatta in via di rigetto (cioè la norma è costituzionale nella misura in cui venga interpretata in un certo modo).
Ma, dal punto di vista tecnico, le sentenze della Corte Costituzionale hanno un effetto retroattivo, perché operano ex tunc e fanno venir meno quanto illegittimo fin dal suo nascere, salva poi la questione della regolamentazione dei diritti quesiti o delle situazioni definite con sentenze passate in giudicato. Il problema è se l’aggiunta interpretativa, fatta dalla Corte Costituzionale alle norme, sia “per rigetto” che “per accoglimento” abbia essa stessa un effetto retroattivo. Se ha un effetto retroattivo, allora chiaramente la legge è stata diversa fin dal suo nascere: dal punto di vista tecnico, l’interpretazione non opera retroattivamente.
Interessantissima è poi la questione del carattere retroattivo dell’interpretazione: soltanto con cinque o sei decisioni della Corte di Giustizia europea su questioni pregiudiziali è stato affermato il principio, valido ormai in tutti i Paesi europei, secondo cui il giudice è tenuto a non applicare un’interpretazione retroattiva se sfavorevole. Si è creato il principio in base al quale esiste una differenza interpretativa ed una attività applicativa, con la conseguenza che vanno aggiunte tra le leggi sull’interpretazione anche queste sentenze della Corte di Giustizia. In realtà, è stato un principio che era già comparso nell’ambito della giurisdizione tributaria, perché in materia tributaria c’è forse norma sull’interpretazione. Però, prima era un principio creato dall’attività ermeneutica, o quantomeno considerato esistente attraverso un’attività interpretativa, mentre oggi è un principio statuito da una fonte non normativa di giustizia, che ha questo potere misto tale da risultare essere la somma tra un potere costituzionale, un potere giudiziario e un potere legislativo; un potere assoluto (ma chiaramente limitato a quello che è scritto nel Trattato). Comunque, quasi sempre la Corte di Giustizia riafferma come principi in via interpretativa, con regole che essa stessa si dà sull’interpretazione, quelli che sono i principi comuni fra i principi interni fondamentali a tutti gli Stati membri (o così almeno dichiara, ma non detto che sia sempre così).
Quando noi parliamo di attività interpretativa della Corte di Giustizia usiamo la parola “interpretativa” in un senso completamente diverso rispetto al senso che utilizziamo quando pensiamo al nostro diritto interno, perché noi dovremmo dire che la Corte di Giustizia applica il Trattato, in quanto nella norma ponte che attribuisce questo potere interpretativo alla Corte di Giustizia si dice che la Corte deve decidere quei casi in cui la norma comunitaria non è stata interpertata in modo chiaro e definitivo. Il vecchio art. 177 del Trattato (ora art. 234) attribuisce alla Corte di Giustizia il dovere di statuire un principio valido per sempre applicando il Trattato. Dal punto di vista puramente normativo quella della Corte di Giustizia non è un’attività interpretativa. È prevista o presupposta l’esistenza di un’attività interpretativa, che però è l’attribuzione di un potere.
Il giudice nazionale ha il potere di investire di una questione la Corte di Giustizia ed in certi casi è obbligato a farlo quando ha un dubbio. Il giudice nazionale è anche giudice del diritto comunitario in quanto può e deve applicare la norma comunitaria, anche se questa deroga a quella nazionale. È contemporaneamente così anche giudice comunitario. Ma il giudice nazionale può lui dare una lettura, quindi avere cognizione, della norma comunitaria; anzi deve (jura novit curia anche in ambito comunitario), ed è obbligato, quando è giudice di ultimo grado, a sospendere il giudizio e mandare tutto alla Corte di Giustizia quando ha un dubbio (si veda l’art. 12 preleggi). Ma cosa si intende per “dubbio”?
Se l’ordinamento giuridico pensa di dover emanare delle norme su norme, cioè delle norme che regolano l’attività interpretativa, evidentemente fa questo perché ritiene necessario farlo, perché se non lo facesse, alcuni casi non potrebbero essere risolti o potrebbero essere risolti in modo imprevedibile, con una potenziale violazione del principio di certezza del diritto. Così facendo, è come se l’ordinamento volesse colmare qualcosa di simile ad una lacuna o volesse creare una norma di chiusura di un sistema che risolva le antinomie, le incoerenze: quando è che il legislatore decide di essere tenuto ad inserire un principio regolativo sull’interpretazione? Quando sia riuscito a definire quali sono i presupposti in presenza dei quali sono applicabili queste norme che va ad emanare per regolare l’attività interpretativa; se c’è un caso dubbio, allora si applicano questi criteri all’attività interpretativa. Ne segue che si può dire che le norme sull’interpretazione iniziano dove finisce la chiarezza normativa (in claris ne fit interpretatio), nel senso che l’attività interpretativa è successiva alla verifica dell’esistenza di situazioni di dubbio, cioè della mancanza di indicazioni normative.
A questo punto proviamo a dire che l’attività ermeneutica è l’altra faccia dell’esistenza di antinomie e delle lacune normative. È stato detto che in realtà l’individuazione di una lacuna è successiva all’esercizio dell’attività interpretativa . Tuttavia, quest’idea non può essere condivisa perché è possibile che questo accada, ma non è corretto farlo, per cui è necessario guardare meglio all’art. 12 preleggi. Ci troviamo dinanzi ad una bella impasse, perché l’attività ermeneutica non sarebbe regolata per legge nelle sue modalità di esercizio, ma verrebbe imposta come se non si trattasse di attività ermeneutica. La lacuna non sarebbe con ciò la mancanza di una norma che regola un certo tipo di situazione pensabile all’interno degli ordinamenti, ma è esattamente il rovescio, perché è l’esistenza di una situazione prevista dall’ordinamento giuridico come da risolversi obbligatoriamente, in presenza tuttavia della mancanza delle conseguenze, cioè praticamente è una norma “monca”.
Allora, la legge sulla legge in generale, cioè la prelegge, dice di guardare a casi simili o materie analoghe. Ma nel caso in cui non c’è neppure un caso simile o una materia analoga – per cui il caso rimane ancora dubbio – allora significa che a monte deve essere dubbio. È come se ci fosse scritto: “Se c’è il dubbio su come decidere una controversia e ci sono più disposizioni allora si guardano le disposizioni che regolano casi simili e materie analoghe oppure se non ce ne sono allora rimane il dubbio”.
Allora, ciò che apparentemente è una pura considerazione semantica, terminologica, in realtà può essere considerata come la legittima applicazione di una disposizione di legge sul ragionamento analogico, anche se la dottrina e la giurisprudenza prevalente lo nega e ritiene che nel diritto penale esso non sia ammesso, secondo la scuola torinese neanche quello a favore.
Però, non basta dire che il ragionamento analogico non è ammesso. Bisogna cercare di evitare di applicarlo surrettiziamente senza dichiararlo. L’importante è vedere come si svolge il ragionamento e non guardare alle dichiarazioni finali su di esso.
Come è stato detto all’inizio, il problema del ragionamento analogico è di vedere se ci sia un divieto in se stesso che nel diritto penale ci siano delle lacune, perché il diritto penale non tollera aggiunte o sottrazioni, perché esso è come è. Nel diritto penale probabilmente il concetto di lacuna va sdoppiato. Bisogna stare attenti a non chiamare nello stesso modo due cose diverse: una cosa è il divieto di punire o di punire più gravemente se non in virtù di una legge già esistente al momento del fatto (cioè il divieto di retroattività); una cosa è questa nozione di lacuna presupposta dalle letture anzidette nel senso di mancanza di una regolamentazione di una situazione pensabile in anticipo e in astratto e che si può realizzare e rivelare nella realtà; invece un’altra cosa è la nozione di lacuna nel senso più tecnico utilizzato dallo stesso legislatore come impossibilità di decidere un caso che deve essere deciso. Allora, in questo caso può essere che un problema di lacuna nel diritto penale ci sia, si possa porre, e che quindi il problema del ragionamento analogico si possa riaprire e diventi obbligatorio il ricorso al ragionamento analogico, portando all’applicazione dell’art. 12 delle preleggi.
Poiché una norma non può essere in contrasto con un’altra norma, il ragionamento analogico dovrà essere ricavato nell’ambito di principi, o materie simili o analoghe, fondamentali nell’ordinamento giuridico ed idonei, nel rispetto dei principi fondamentali (ad es. irretroattività del diritto penale). Dunque, il discorso del ragionamento analogico e dell’attività interpretativa si riapre dove esiste un dubbio, per cui l’attività interpretativa ed ermeneutica comincia dove una situazione non può essere risolta e non dove c’è una mancanza di disciplina, perché si tratta di due cose completamente diverse. In altre parole, a prescindere dai canoni ermeneutici che si possono utilizzare, lo spazio di libertà apparente dell’interprete è dato dalla possibilità di stabilire delle aree di famiglia tra situazioni diverse, dalla verifica dell’insolubilità dei problemi, dalla verifica dell’obbligatorietà di una decisione, dalla verifica dell’esistenza della mancanza di un pezzo, dalla verifica di tutti i divieti esistenti e, soprattutto, dall’individuazione dei principi fondamentali dell’ordinamento e delle loro relazioni.
IL CONFINE DUBBIO DEI PRINCIPI GENERALI.
In questo modo viene bloccato, anche troppo, il ruolo dell’interprete: il giudice non crea. Però ci sono delle situazioni a partire dalle quali il diritto si apre. Però, il buon interprete, prima di ricorrere all’interpretazione, deve andare a vedere i principi dell’ordinamento, cosa c’è nell’ordinamento, le sentenze sul punto. Solo dopo può fare ricorso ai canoni ermeneutici.
L’interpretazione sistematica coincide con l’applicazione. È qui inutile parlare di interpretazione, perché è il ragionamento corretto di lettura della norma, chiaramente nel quadro dell’art. 12 preleggi.
Tornando al ragionamento fatto dalla dottrina, occorre rilevare che proprio il fatto che (CARACCIOLI) ci sia il bisogno di argomentare l’esistenza nel diritto penale di un obbligo di stretta interpretazione della norma penale e, quindi, di un divieto di ricorso ad un’interpretazione manipolativa della legge – principio da cui discende l’altro principio, diversamente giustificabile, di divieto di utilizzazione, di ricorso all’interpretazione analogica sia a favore che a sfavore del reo – significa che in quel momento l’autore di quella interpretazione dichiara implicitamente (attraverso il fatto che questo tipo di sua lettura del rapporto tra l’art. 25 Cost. e l’art 1 c.p. con una giustificazione di una differenza tra enunciati normativi) di adottare il criterio per cui se la legge si è espressa diversamente ha detto cose diverse: “La legge ha detto le cose stesse anche se diversamente, perché c’è una ragione se si è espressa diversamente”.
Implicitamente si potrebbe anche dire che l’art. 12 preleggi alla legge in generale è esso stesso a consentire questo tipo di ragionamento dell’interprete, perché – come si è detto prima – se l’art. 12 stabilisce che “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso…” significa che è fatto divieto di dare un senso diverso da quello fatto palese dal significato proprio delle parole e cioè divieto di fare delle interpretazioni correttive. Poi, l’art. 12 prosegue riferendosi alla “intenzione del legislatore”. Qui il discorso si complica, perché, a questo punto, l’interprete sarebbe autorizzato soltanto dove ha dei dubbi a ricorrere all’interpretazione in senso stretto (l’interpretazione in senso lato, filosofico, c’è sempre), cioè alla vera e propria attività interpretativa che ha luogo non nel momento in cui ci si limita ad applicare la legge, quella vera e propria, che è presupposta proprio dall’art. 12: tale norma non dice che, se non ci fosse esso art. 12, il giurista non potrebbe applicare la legge, ma genera la domanda se tale art. 12 sia una norma rivolta all’interprete oppure sia una disposizione che va ad unirsi ad altre norme rivolte ai consociati. In altri termini, l’art. 12 è una norma che il legislatore mette a disposizione ma la cui necessità di applicazione può anche non ricorrere oppure è una norma a cui occorre sempre fare riferimento. In altre parole, è dedicata solo ai casi dubbi oppure no? Però qui si apre un altro capitolo che, ancora una volta, riguarda il discorso dell’argomentazione (e il ricorso ad esse, se legittimo).
Uno dei filoni che caratterizza la scuola torinese dei penalisti (ANTOLISEI, MARCELLO GALLO, SINISCALCO…) è quello di coniugare il dogmatismo (inteso in senso buono, come interesse per le norme e non per i significati socio-politici sottesi eventualmente alle norme) con l’interpretazione sistematica, che è quella che guarda alla connessione delle norme tra di loro per andarne a vedere l’intimo senso. Queste sono parole tipiche dell’idealismo dell’inizio del secolo scorso (che ha fatto cose splendide ), oggi poco convincenti, perché di ampio significato, nel senso che “interpretazione sistematica” può voler dire un po’ tutto . Si è, infatti, passati da un mondo in cui le fonti erano sullo stesso piano ad un mondo giuridico come quello attuale in cui, attraverso lo sviluppo costituzionale, le fonti sono gerarchizzate (Costituzione, leggi, regolamenti, usi e consuetudini). Dalia afferma che attraverso la Costituzione (che però – si badi – non è una fonte nel senso di “sorgente”) si è complicato il rapporto tra le fonti, che sono sicuramente poste in modo gerarchico; ciascuna fonte a sua volta autorizza, perché non ci sia un problema di riserva assoluta o relativa di legge (ricordiamoci, infatti, che siamo in ambito penale), il ricorso ad altra fonte (si pensi alle leggi quadro, ai decreti legislativi, alle leggi delega al Governo, ai decreti del Capo dello Stato, ai decreti governativi…). In altre parole, gli stessi prodotti delle fonti ordinarie rimandano a degli spazi ampi lasciati aperti all’interno dei quali la fonte subprimaria lavora e a sua volta, nel rapporto con fonti subprimarie, ha la possibilità di demandare a regolamenti, ecc..
Lo stesso discorso vale nell’ambito del rapporto tra quelle fonti di produzione normativa centralizzata e le fonti di produzione normativa decentralizzata in rapporto con le leggi regionali, provinciali e così via. Tutto il discorso degli enti, pubblici o semipubblici, economici (che sono tantissimi), che hanno degli statuti e spesso un carattere auto-organizzatorio quando vengono autorizzati a vari livelli dalle autorità centrali governative o amministrative, ripropone la questione delle norme, di carattere amministrativo.
La ricostruzione gerarchica delle fonti prospettata da Dalia appare, però, insoddisfacente, in quanto risulta la conseguenza dell’adozione di una nozione di norma che non viene discussa ma che è sicuramente superata tout court, in quanto vista linearisticamente come comando: la nozione della norma come comando è una nozione sviluppatasi all’inizio dell’Ottocento, soprattutto nel contesto tedesco dei filosofi del diritto e dei penalisti ; ma questa concezione commette l’errore di confondere la norma col comando, mentre una cosa è la norma ed un’altra cosa è il comando. I legislatori fanno delle leggi, le scrivono, ed indubbiamente producono dei testi che sarebbero assolutamente incostituzionali se non fossero generali ed astratti. Noi non abbiano una norma che sancisce che le disposizioni devono essere generali ed astratte, però questo è uno dei principi costituzionali fondamentali e da sempre esistente. Dunque la legge deve essere sempre generale ed astratta, perché se non lo fosse sarebbe un provvedimento amministrativo, che è particolare e concreto. Ad esempio, nella cultura inglese le leggi possono essere cassate dall’organo superiore se non hanno carattere generale ed astratto. Se una legge ha questo carattere di astrattezza, allora è in un ambito ben diverso dal comando: si pensi al paradosso del dittatore (che ricorre in molti testi) in base al quale il dittatore è il meno libero di tutti perché è colui che deve dare degli ordini, che vengono eseguiti in modo sempre diverso, con la conseguenza che il risultato finale è sempre diverso da quello voluto inizialmente.
Il comando è generalmente qualcosa che proviene da una persona e si indirizza ad un’altra persona (si pensi all’ambito militare o a quello aziendale); perciò è molto più simile ad un provvedimento amministrativo, perché è particolare e concreto e non generale ed astratto come deve essere, invece, la legge.
Così, traendosi da questa visione ottocentesca l’idea che la norma sia un comando, ne deriva un’idea di norma datata, sia ragionando come metateorici sia ragionando come tecnici e giuristi pratici. Ne deriva che non si tratta tanto di un rapporto gerarchico (la gerarchia è stata superata anche nell’ambito dell’ordinamento giudiziario, dove c’è l’autonomia di ciascun magistrato), quanto piuttosto di un modo di ordinare tra loro certe fonti giuridiche.
Scopo di queste riflessioni è vedere come certe tecniche normative possano essere combinate tra di loro e fino a che punto le norme giuridiche possono avere carattere prescrittivi, imperativo, informativo-normativo. Il riferimento ai principi del diritto e alla razionalità – come sottolineano soprattutto i giuristi inglesi – va bene quando non esistono più delle indicazioni normative univoche, cosicché a quel punto è possibile far riferimento a principi che possono essere anche principi di ragione, di buon senso, di logica, di razionalità, tutti principi che nel nostro ordinamento compaiono .
Abbiamo strumenti normativi che costituiscono un momento regolativo, nel senso di prescrivere a chi applica la legge – e non ce la fa semplicemente ad applicarla – come svolgere l’attività interpretativa. Ma le norme che regolano l’attività interpretativa arrivano fino ad un certo punto ed anche la loro lettura pone dei dubbi, che comunque vanno risolti, perché qualunque giurista, e non solo il giudice, deve decidere. Gli spazi lasciati in bianco vengono riempiti con ricorso a criteri non normativi, ma extranormativi, o soltanto indirettamente riportabili alle nozioni giuridiche, o che nella prassi vengono riportati come criteri ammissibili, razionali .
Il principio di stretta interpretazione non è costituzionalizzato e non è vietato dalla Costituzione, ma semplicemente significa che, nell’ipotesi in cui il legislatore un domani togliesse la parola “espressamente” dall’art. 1 c.p., allora quella norma sarebbe incostituzionale, perché in contrasto con l’art. 25 Cost.; a stretto rigore il legislatore potrebbe uniformare i canoni legali sull’attività interpretativa tra penale, civile ed amministrativo, anche perché nell’art 12 preleggi non c’è riferimento alla parola “espressamente”. In realtà, probabilmente, il problema si può anche superare nel senso che forse non è neanche necessario dare quella importanza (VINCIGUERRA nel suo manuale) alla parola “espressamente”, da cui si trae il principio di stretta interpretazione e il divieto di interpretazione estensiva ed analogica della norma penale sia in bonam che in malam partem, perché nel nostro codice penale e a livello costituzionale c’è comunque il principio di legalità e quello di irretroattività della norma, perché ci sono le preleggi che ci dicono che alla norma dobbiamo dare il significato che ha e che non possiamo, se non con delle buone ragioni, ricorrere a ragionamenti analogici. Se non c’è una disposizione che punisce, allora non si può punire: in materia penale le lacune non ci possono proprio essere in forza del principio di legalità e di tassatività . Ma se il diritto è pensato dall’alto, può anche essere che chi lo pensa, dal momento che non è onnisciente, si sia dimenticato qualcosa .
RIPERCUSSIONI GERARCHICHE.
La gerarchia delle fonti a livello comunitario ha ripercussioni per l’interpretazione della norma giuridica?
Nella carrellata molto generale fatta poco sopra sulle istituzioni comunitarie e su alcuni problemi (come l’interpretazione delle norme costituzionali) si è parlato degli sforamenti delle Corti Costituzionali, che, dandosi le regole da sole, sono andate a ritenere di poter interpretare loro, con le sentenze manipolative o correttive di accoglimento, interpretative-manipoltive di rigetto, dando però delle interpretazioni sempre condizionate al fatto che siano accolte dai giudici di legittimità; vale a dire che se poi i giudici non accolgono l’interpretazione a cui la Corte condiziona la non incostituzionalità di una norma di legge, allora la Corte dichiara tale norma incostituzionale, prendendo atto che il ruolo dell’interpretazione è svolto dal giudice ma non da lei. Questo vale anche nel caso in cui la Corte Costituzionale abbia detto che certe norme sono incostituzionali se non vengono interpretate in un certo modo. In questi casi la pronuncia della Corte Costituzionale è super-legislativa e diventa vincolante non solo per il giudice, ma anche per il legislatore, non soltanto nel dispositivo, ma anche nella motivazione, la quale diventa parte integrante della legge, che viene cambiata, del tutto o in parte.
Nella stessa sezione della Corte di Cassazione ci sono tantissimi consiglieri e più presidenti , ciascuno dei quali ha un suo collegio. Può ben capitare che dentro la stessa sezione lo stesso giorno vengono pronunciate tre sentenze diverse, che enunciano principi di diritto diversi. Allora in questo caso o la stessa sezione si mette d’accordo e comincia a dare un indirizzo stabile oppure la questione finisce alle sezioni unite che si riuniscono con tutti i presidenti delle varie sezioni e decide una volta per tutte. Ma di ciò si dirà in seguito.
STESSA MATERIA.
Lettura ragionata delle sentenze. E tuttavia vi ho detto l’imperfetto programma fatto adesso, pecche lascia fuori la parte più bella, più curiosa, che è la chiave di volta dell’attività interpretativa, che è quella dell’uso dell’analogia all’interno della alcuna, dell’individuazione del carattere della lacuna, anche nel diritto penale. Sullo sfondo di una visione più evoluta della norma giuridica, più articolata (ci vorrebbe un corso apposito sulla norma giuridica, un altro sulle fonti, un altro sulle lacune e sulle antinomie), sicuramente tutto questo, se è vero quello che abbiamo sostenuto perché voi leggiate in futuro bene le sentenze, riusciate a distinguere l’olio dall’oglio, nelle sentenze, quello che è vero e quello che è pura argomentazione, vuol dire che se l’attività interpretativa (cioè i canoni normativi che regolano l’attività ermeneutica dell’operatore giuridico) non stanno nella prima parte dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, ma stanno nella seconda parte. Partono dall’esistenza di un dubbio interpretativo, che presuppone un vuoto di disciplina, la soluzione di un problema. Il tema centrale é quello della individuazione di un’assenza, di un vuoto di disciplina.
Come si può dire che manca o che c’è un vuoto di disciplina; che cos’è la lacuna; come si presenta? A questo punto si è parlato di ragionamento analogico (sottolineo la parola ragionamento) che porta necessariamente l’interprete ad una via obbligata da parte dell’ordinamento (che dice “non puoi andare a pescare la disciplina che regola una materia che secondo te è analoga”, ma dice “quella” più analoga e poi applichi questa materia purché esistano i cardini, i requisiti dell’art. 12 II comma delle preleggi). Poi, se manca una disciplina, allora puoi fare riferimento, solo in questo caso, devi fare riferimento ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
A questo punto – vedete – il fuoco si sposta dall’ambito di disciplina settoriale e si dilata ed esce da quella. Siamo nell’ambiente, però ci dice “principi generali dell’ordinamento giuridico, dello Stato”. E si apre il discorso: non si parla più di settori, di “quella materia”.
Ma quali saranno i principi generali? Esistono dei principi generali dell’ordinamento giuridico in materia alimentare? Saranno quelli o saranno quelli di carattere più generale ?
Quanto abbiamo detto ci porta ad avere l’esigenza, visto che siamo nel cuore dell’attività interpretativa, che l’attività interpretativa comincia dove cominciano le lacune, come vi ho fatto vedere da una rapida carrellata delle sentenza che lo dicono anche se non lo dichiarano apertamente, allora certo un discorso sulle norme che reggono l’attività interpretativa sarebbe monco se non andassimo a fondo sia sulle lacune che sulle antinomie.
Andare a fondo però non è facile: tutte le trattazioni che voi avete sulle lacune o sono fatte da filosofi del diritto, che non sanno quello che sappiamo noi fino adesso, e quindi partono dalla confusione tra le due nozioni di lacuna che ho detto (differenza tra un vuoto di disciplina di un problema che deve essere risolto e invece mancanza di una disciplina circa un problema che non necessariamente è imposto al giudice come oggetto di una necessaria soluzione di una controversia) oppure – dicevo – sono incomplete perché si limitano a distinguere ambiti diversi dell’ ordinamento giuridico dicendo che in un ordinamento esistono delle lacune, in un altro non esistono, oppure si spostano sul piano del ragionamento analogico. Leggete la classica voce (BOBBIO) sul Novissimo Digesto “Analogia”. A volte sui Digesti trovare analogia, altre lacuna, dipende da chi fa la trattazione; i teorici del diritto partono dalla nozione di analogia per spiegare che cosa è la lacuna; i giuristi si domandano che cos’è la lacuna e poi tutto sommato si disinteressano di cos’è l’analogia, perché in realtà ad esempio l’art. 12 II non parla di analogia, intesa come modo di ragionare, come istituto di carattere logico. Vi consiglierei di andare a leggere qualche bel dizionario enciclopedico (Battaglia) che avrà pagine in cui vi riporta tutta una serie di frasi della filosofia, della letteratura, della lingua italiana, dal 1000 in poi, degli autori che hanno usato la parola “analogia”, da cui si evince il modo in cui essa è stata intesa. Invece, per il giurista puro non ha senso parlare di una figura retorica come quella dell’analogia, perché nell’art. 12 delle preleggi c’è solo l’aggettivo “analoghe”; si dice “regolano casi simili o materie analoghe”. Per cui l’analogia non apparterrebbe all’ambito del ragionamento del soggetto interprete , ma apparterrebbe all’ambito della materia: quella, si dice, è una materia analoga.
Certo, ci può interessare l’etimologia data dagli autori alla parola “analogia” per riuscire a capire che cos’é. Io non posso dire che Lei è analogo a Lei. Non si dice di persona. Ma neanche di cose, attenzione. Non si dice “questo libro è analogo a quello” si usano altre parole (simile).
Qui si parla di casi simili oppure materie analoghe.
Vi ho parlato di materia alludendo all’art. 15 del c.p. non a caso. Vi ho detto che, a volte, dall’uso costante o diversificato di certe parole i giuristi traggono conclusioni opposte in linea interpretativa. Però qui vedete che qui compare nuovamente il termine “materia”.
Io che devo dire quali sono le norme che regolano l’attività ermeneutica, in realtà sbatto contro ad una parola da interpretare. Abbiamo la parola “materia” che troviamo e la combino, in modo paradossale, per riuscire a capire, con la parola “materia” che c’è nell’art. 15 e dico: quale è la differenza?
Visto che non dobbiamo confondere la causa con l’effetto, dobbiamo evitare di giungere a delle conclusioni partendo da un punto di partenza dubbio. Dobbiamo cercare di evitare di sostanzializzare od ontizzare, dare un’essenza alla parola se prima non sappiamo bene su quali basi si deve impostare questo tipo di ragionamento. Se associo due parole che sono eguali, prima di rispondere in che sono eguali, devo prima domandarmi in che sono diverse. E come posso aiutarmi a vedere il contesto in cui sono, prima ancora di vedere il contesto logico, il significato giuridico? Lì sarebbe già mettere il carro davanti ai buoi. Per arrivare alla soluzioni devo vedere quali sono le parole che ci stanno intorno.
Quale è la prima cosa che balza all’occhio raffrontando l’art. 12 II comma preleggi con l’art. 15 c.p. ? Non esiste una soluzione: cominciate a fare gli interpreti. “Disposizioni che regolano la stessa materia” dice l’art. 15; nell’art. 12 II comma si dice “materie analoghe”.
Quindi vuol dire che non è la stessa materia. Stessa non è analoga e analoga non è stessa. E’ uno dei pochissimi casi in cui vi è una strana contrapposizione tra “stessa” ed “analoga”. Noi a lume di naso pensiamo che “stesso” possa essere contrapposto a “diverso”. Qui la contrapposizione non è con diverso, ma con analogo. E’ una contrapposizione particolare; non è solo semantica, è certamente una contrapposizione normativa, perché quando – inconsapevolmente – il legislatore ha usato questa parola, sicuramente non era cieco, ha preso la porta giusta ma evidentemente non poteva scrivere “diversa”. Sarebbe stato più corretto, perché certamente non poteva dire “stessa”, perché non c’è. Diversa, ma analoga.
Quindi abbiamo gli stessi problemi di individuazione della nozione di materia che abbiamo nell’art. 15 c.p.; ed i civilisti però non hanno la cultura dell’art. 15. Io ho sempre detto che tutti i teorici dell’interpretazione sono dei civilisti, sono dei teorici del diritto comunque di matrice civilistica o – al limite – sono dei costituzionalisti, ma comunque non sono penalisti. Ho detto che i penalisti non hanno mai fatto teoria dell’interpretazione della norma giuridica, hanno sempre confuso le due nozioni di lacuna nell’utilizzarne una sola. Questa volta vi dico però che nei civilisti, che hanno studiato le lacune e le attività ermeneutiche (i teorici del diritto ed i filosofi no perché l’hanno sempre vista in superficie, hanno una macro-vista, come un aereo, che vede la superficie, non sono dei geologi), vi dico che manca tutta la teoria sulla stessa materia.
Abbiamo detto che stessa materia è leggibile, è stata letta in varie maniere e dal modo applicato sono state tratte conseguenze diverse “in materia” di concorso apparente di norme, di principio di specialità. La stessa materia è stata riportata prevalentemente – non sono d’accordo perché dà un sacco di problemi – dalla dottrina prevalente e dalla Costituzione come bene giuridico tutelato, come ambito di interesse su cui la norma giuridica va ad incidere per proteggere, oppure (cosa completamente diversa) come fatto vietato, modulizzato, moralizzato, come avrebbe scritto MARINI, anche con delle caratterizzazioni interne, descrittive, magari in modo sintetico, più contratto, a volte in modo più analitico, anche con riferimenti ad elementi extranormativi o ad elementi normativi di fattispecie o ad elementi normativi di carattere extrapenale, a concetti di illiceità speciale; comunque, attraverso un andamento descrittivo tipico della fattispecie incriminatrice, cioè dei pezzi della norma penale (intesa come l’abbiamo) come insieme delle condizioni ampie ed in certi casi alternative, necessarie e sufficienti per fornire delle univoche indicazioni a carattere informativo-normativo a chi è tenuto ad applicare l’insieme delle norme occorrenti in una certa situazione ad una controversia che deve decidere con una sentenza o con un provvedimento amministrativo (e quindi mi riferisco anche all’ambito amministrativo) che definisca, eventualmente modificandola, una situazione giuridica che in qualche modo vada agganciata ad un rapporto giuridico di carattere sostanziale.
Una cosa è dire materia nel senso di fatto descritto da una norma incriminatrice, un’altra è dire materia come l’insieme dei beni (vita, incolumità fisica, onore, decoro), da solo o congiunto ad altro bene tutelato da una norma giuridica. Una cosa è invece dire “Il fatto vietato”. Se materia viene detta fatto (che nel penale è il fatto vietato investito della compartecipazione psicologica di chi lo pone in essere, dal dolo, dalla colpa se la consideriamo uno degli elementi psicologici. Questo è un discorso avanzato che non possiamo fare oggi). Un’altra cosa è uscire dal campo penale e dire “beh sì, questo è per il penale”.
E fuori del campo penale. Qui siamo nelle disposizioni sulla legge in generale e che quindi si riferiscono a tutto e che costituiscono essere stesse uno dei principi generali dell’ordinamento giuridico. Questa lo è sicuramente. E’ un principio su un principio. È un meta-principio fondamentale dell’ordinamento giuridico.
O non vuole dire niente “materia” non ha nessun significato e il legislatore l’ha intesa nel senso di dire “territorio, salute”, qualcosa di estremamente indifferenziato, un bene che troviamo nella carta costituzionale, in qualche norma di carattere programmatico (la vita); oppure si intende qualcosa di tecnico, di specifico. Visto che la parola “legge” viene utilizzata dal codice come “norma”. Voi non trovate nella legge mai la parola “norma”. Può essere che in qualche legge strana ci siano queste parole, che siano sfuggite. Però in linea tendenziale i nostri codici non contengono la parola “norma”. La norma è una teoria. Una volta si diceva di fronte aveva una “teoria” di colline illuminate: teoria sino agli anni 40 e 50 si utilizzava come sinonimo di sfilata, complesso di cose.
Comunque la parola “norma” è in se stessa il ricorso ad una figura, una configurazione per dare una spiegazione a come il legislatore utilizza la parola legge. Non capireste l’istituto della continuazione, del concorso di reati se voi non capite questo. Se voi andate a prendere l’art. 81 c.p. e seguenti voi imparate a memoria ma poi alla fine vi confondete quando all’esame vi fanno una domanda semplice e chiara.
L’art. 81 c.p. dice: “ …chi viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge “. Qui si parla di legge e non di norma e si dice qualcosa in più. Qui il legislatore ha cercato di utilizzare una parola senza impegnarsi per non usare la parola “norma”; anche l’espressione “fattispecie incriminatrice” è una locuzione che non veniva usata quando è stato scritto il codice perché gli italiani non avevano ancora tradotto i tedeschi, i primi ad usare la parola fattispecie, che non è sinonimo di “tatbestand”, che gli italiani spesso traducono in fattispecie, ma non è la stessa cosa. In quel periodo i tedeschi venivano letti, ma non erano ancora così conosciuti; oggi, nel periodo fascista, dati i noti motivi di vicinanza storica, il tedesco era diventato la lingua dei giuristi (chi non studiava tedesco non diventava professore di diritto per cui per forza di cose le letture erano quelle dei tedeschi e c’è stato un influsso molto forte della cultura tedesca su quella italiana a livello giuridico). E oggi si parla di fattispecie incriminatrice e di norma, per cui tra l’altro vale lo stesso discorso che abbiamo fatto.
Anche i padri del positivismo giuridico italiano (BOBBIO), pur essendo liberal-socialisti di ispirazione giuridica, si erano formati sui testi tedeschi tipici del periodo nazista (in Germania si parlava di nazionalsocialismo, di socialismo nazionale; in Italia è successo quel che è successo, con la frattura fra il partito socialista ed il partito fascista negli anni ‘20 che era un emanazione del partito socialista dal punto di vista storico).
E quindi alla fine queste considerazioni riportano a dire: nell’art. 81 si parla di disposizioni di legge come sinonimo di fattispecie incriminarici. A questo punto, così come la intendiamo noi, con un equivoco sulla parola “disposizioni di legge”, che noi prima abbiamo distinto dalla parola “norma” (che a sua volta abbiamo distinto dalla parola “fattispecie incriminatrice” e dalla parola “disposizioni di legge”). Disposizione di legge lo abbiamo usato in un senso del tutto neutro. Avremmo potuto usare il termine articolo. Non interessa: articolo è un numero (come se voi mi diceste il n. 11 dice … A me interessa che cos’è il n. 11). La parola disposizione allude a disporre: in un articolo possono anche esserci decine di disposizioni (ad esempio nelle leggi tributarie, nelle leggi di conversione dei decreti legge).
Disposizione ha più senso perché allude a qualcosa che dispone. Però qui il c.p. ha inteso disposizione come fattispecie incriminatrice (art. 81) e non ha parlato di norma, ha parlato di legge. Quindi ha usato la parola legge in un senso diverso da come l’ha usata nell’art. 15 c.p. (quando più leggi penali o più disposizioni della stesse legge penale regolano la stessa materia. La legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o disposizione di legge generale salvo che sia altrimenti stabilito).
Se noi dessimo una lettura letterale dell’art. 15, arriveremmo ad una visione nuova, come si aprisse il sole in una landa da sempre buia. Faccio una battuta: potremmo ritenere che l’art. 15, da un lato con disposizione di legge si riferisce alla norma incriminatrice, e con legge proprio alla legge, che sarebbe una norma o un pezzo di norma in questo senso costitutiva di un principio giuridico fondamentale dell’ordinamento giuridico perché risolve il problema della specialità tra leggi (il problema dell’eccezionalità di legge o il problema dell’abrogazione: quando una legge sull’ambiente viene superata da un’altra legge che è più precisa, la prima non si applica). Se noi dessimo una lettura letterale dell’art. 15 c.p. diremmo: per un verso si riferisce a due leggi proprie, leggi intere, tipo due codici, uno prima ed uno dopo; dall’altro a delle singole disposizioni. Il che darebbe dei problemi.
Vuol dire che dovremmo intendere l’art. 15 in materia penale come un articolo che va a sovrapporsi completamente, in parte all’art. 14 delle preleggi o all’art. 15 delle preleggi (visto che abbiamo trovato un altro punto in cui si parla di materia?).
In questo senso l’art. 15 delle preleggi, che – ripeto – è teoricamente sovraordinato rispetto alle leggi ordinarie perché legato sì al codice civile, ma riferito all’intero ordinamento giuridico (e quindi non solo al codice civile). Qui parla l’art. 15 di “la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore” (si parla di abrogazione implicita o inespressa). Paradossalmente dovremmo contrapporre la lettura letterale dell’art. 15 c.p., letto in modo letterale attraverso la distinzione tra legge e disposizione di legge con l’art. 15 e dire che, in realtà, ha una portata rilevante nell’ordinamento giuridico, che ha un doppio significato. Un’interpretazione sistematica nuova, ma io diffiderei da un’ apertura di questo genere.
L’art. 15 delle preleggi però dice perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore. Qui si parla di regolare una materia, mentre invece altrove si diceva (15 c.p.) “quando più leggi o più disposizioni della medesima legge penale… regolano la stessa materia”. Anche qui l’enfasi è la stessa. Nell’art. 12 prel. si dice “regolano casi simili o materie analoghe”. Vedete che la frase è sempre la stessa. Sembrerebbe che se ci fosse una coerenza dell’uso semantico tra codice penale e codice civile, che però sono distanziali di dieci anni.
Se noi volessimo forzatamente adeguare l’ordinamento in base al principio di coerenza, di cui abbiamo già parlato, diremmo: “Se ha usato lo stesso modo di esprimersi il Legislatore, vuol dire che intendeva la materia nello stesso modo”. O quanto meno che faceva una scelta o nell’intendere la materia come oggetto (fatto descritto nella fattispecie incriminatrice) oppure come sfera, area di interessi che in qualche modo la disciplina voleva tutelare. Però, attenzione: non confondiamo il piano (magari sono piani che possiamo benissimo confondere ed identificare fra di loro ed assimilare, però poniamoci questo problema: se siano assimilabili). Noi abbiamo la cultura del bene giuridico nel diritto penale; non nel diritto civile. Abbiamo la cultura del fatto vietato e colpito con la pena nel diritto penale; non abbiamo la cultura del fatto vietato e colpito nella sanzione civile del diritto civile.
Questa forbice fra una soggettivazione della parola materia (qual è il titolare del bene, dell’interesse protetto) oppure di una oggettivazione della parola materia (qual è il fatto vietato o disciplinato dal legislatore con un divieto), sono dei piani che non necessariamente si presentano allo stesso modo quando siamo nel contesto amministrativo o nel contesto tributario o nel contesto civile.
Non è detto che la distinzione fra il piano del bene giuridico (del soggetto che ha un interesse che la legge penale vuole tutelare) oppure il piano oggettivo (nel senso del fatto vietato dalla norma penale) si presenti nello stesso modo nel contesto tributario, amministrativo e civile. Se utilizziamo una teorica della norma che cerchi di accomunare la fattispecie civile o la fattispecie amministrativa (il se…… allora …….), se pensiamo alla stessa scansione della norma come imperativo ipotetico nei vari ambiti civile, amministrativo, potremmo dire che nell’ambito amministrativo la norma è costituita dal “se esistono certe condizioni, tu funzionario, allora, tu sindaco, devi prendere quel provvedimento” oppure“ se il provvedimento è illegittimo, allora in via di autotutela tu sindaco devi annullarlo”.
Possiamo cercare una teoria unificante della norma che attraversi l’intero ordinamento e che valga sempre. Ma allora dovremmo anche domandarci se è possibile oggettivare il significato della parola materia, ad esempio in un ambito che non sia prettamente quello penalistico.
Quale è il fatto vietato nel diritto civile? Dove sono le norme civili? Quale è la fonte del diritto civile? La fonte della legge civile? Il rapporto giuridico che si studia in campo civile, da dove sorge, da dove si origina?
Da un illecito, da un contratto, da un fatto (la morte), da un negozio giuridico (matrimonio).
Come si acquista una proprietà? Usucapione (è un fatto illecito? può esserlo? Se lo è cosa cambia in tal caso?); accessione, occupazione, confusione, specificazione… però non ci sono tutti i modi. Il codice civile non li comprende tutti; alcuni sono di creazione pretoria (accessione invertita, che è un’estensione dell’art. 936 del c.c.; l’accessione in senso classico ha tutta una disciplina particolare: il principio generale si può sintetizzare in :le opere fatte sul suolo poi accedono al suolo. In materia di espropri, già si erano verificati negli anni 60-70 alcuni problemi. La legge regolava l’attività amministrativa in materia di espropriazione, che dava poteri alla P.A., regolando anche temporalmente le condizioni della sua attività, di espropriare nell’interesse pubblico determinati beni appartenuti ai privati; pensate ai casi delle autostrade, arginamento di un fiume, edilizia popolare, ecc.. Si prevedevano degli indennizzi,si poneva il problema se essi dovessero avere un valore di mercato o meno, tutta la distinzione tra valore edilizio e valore agricolo, in base alla natura dei terreni, alla vocazione urbanistica dei terreni. Si diceva: in certi casi il sindaco, regione, provincia, a seconda del tipo di esproprio, deve rispettare un certi tipo di procedura, individuare i beni, sentire le parti, procedere allo stato di consistenza e di occupazione in via di urgenza, deve intervenire il decreto di esproprio che diviene definitivo se non opposto (e ci sono i rimedi giudiziari); se la P.A. rispetta tutte queste norme allora i diritti soggettivi dei soggetti proprietari non sono più tali perché la P.A. è dotata di un potere, datole dalla legge, di affievolire il diritto soggettivo e quindi di trasformalo semplicemente in una situazione giuridica attiva dell’interessato a che l’amministrazione rispetti la legge (si parlava di interesse legittimo in questo senso e sarebbe stato il criterio di riparto tra le due giurisdizioni ordinaria e amministrativa) il diritto mai sarebbe stato affievolito, compresso e indennizzato secondo principi fissati dalla legge.
Nel caso in cui la P.A. fosse uscita dalle attribuzioni che la legge le dava e quindi avesse esorbitato, non attraverso un esercizio errato, ma un esercizio al di fuori dei confini datile dalla legge (dal potere di affievolire), non potendolo fare, gli atti di diritto o di fatto compiuti al di fuori della potestà o del potere attribuitole dalla legge ai fini di affievolimento del diritto con la funzione che caratterizza il potere (data proprio dalla finalità dell’istituto), non sarebbero atti efficaci e quindi idonei a modificare il mondo giuridico, il rapporto giuridico, il quale rimarrebbe non affievolito, perfettamente esistente ma semplicemente inciso, pregiudicato, ma da ristorare. Gli atti compiuti sono atti illeciti, giuridicamente inidonei, se non di fatto, a modificare il mondo giuridico e come tali costitutivi, ad esempio, di fattispecie ex art. 2043 c.c. (obbligo di risarcimento del danno perpetrato non dalla P.A., che tale in questo caso non sarebbe, ma da un soggetto qualsiasi).
L’atto amministrativo in se non può modificare la legge. La legge è la fonte del diritto soggettivo. Se l’atto amministrativo è funzionalmente deviato e quindi compiuto al di fuori dei quello spazio di potere che la legge dà, non è più un atto amministrativo, è un puro fatto, come uno schiaffone, idoneo a fare danno, però non è un atto giuridico, non è un provvedimento amministrativo come tale e quindi non può incidere sulla sfera giuridica.
Ad esempio, un decreto di esproprio che interviene due anni ed un giorno dopo: non c’è l’esproprio. C’è un occupazione senza titolo. Il problema che la Giurisprudenza doveva affrontare è che il privato non può essere indennizzato perché non c’è l’esproprio e quindi non ricorrono i presupposti per l’applicazione della legge; però l’autostrada è stata fatta, le case popolari vicine alla Valle dei Templi ci sono; la scuola è stata fatta, ci sono i bambini tutte le mattine: di fatto c’è stato un esproprio. Che si fa ? Il proprietario ha acquistato la proprietà dell’autostrada ?
Per alcuni anni, fra la fine degli anni 70 e il 90, la giurisprudenza era diversa; ad un certo punto si é assestata ed ha prevalso, finendo alle sezioni unite: dobbiamo interpretare l’art. 936 c.c.. L’occupazione in questo caso è invertita. La proprietà dell’immobile accede alla proprietà della cosa costruita, al manufatto. Si guarda al maggior valore, all’interesse pubblico all’acquisizione, per cui il bisticcio giurisprudenziale era dovuto semplicemente a questo.
Una parte più formale, dogmatica, della giurisprudenza diceva: c’è un fatto illecito (esproprio senza la procedura); però esso presuppone l’obbligazione di risarcire il danno (c’è differenza fra l’obbligo e l’obbligazione, perché l’obbligo va adempiuto comunque, perché il titolare del potere che è simmetrico all’obbligo – siamo nell’ambito pubblico – è obbligato ad esercitare il potere per fare adempiere l’obbligo (p.m., sindaco, prefetto), mentre l’obbligazione presuppone la facoltà dell’esercizio del corrispettivo diritto di credito rispetto all’obbligazione: il creditore non è obbligato a citare in giudizio il debitore). Nell’ambito del diritto di famiglia, quando le obbligazioni sono assistite da un carattere pubblico, in certi casi il diritto di credito diventa anche obbligatorio nel suo esercizio (madre affidataria di un bambino e titolare per sé di un diritto di credito verso il marito che guadagna di più, di un contributo per il proprio mantenimento, in questo caso ha un diritto di credito; ma per la parte che si riferisce al mantenimento del bambino, in questo caso, essa stessa è titolare di un obbligo di esercizio di un diritto di credito del figlio, per ragioni di ordine pubblico).
Si diceva: c’è un illecito da cui di regola dovrebbe derivare un diritto del titolare del diritto soggettivo di rimettere in pristino la situazione e di ottenere il danno.
In realtà, questo è un caso in cui dall’illecito (come accade in alcuni casi per l’usucapione) si acquista la proprietà. E’ stata inserita dalla giurisprudenza l’accessione invertita fra i modi di acquisto della proprietà a titolo originario.
Un’altra parte della giurisprudenza ha invece affermato che da un illecito non potesse sorgere un diritto. È stata data un’interpretazione di carattere diverso, più stemperata.
Sono intervenute le Sezioni Unite e delle leggi a regolare le situazioni. Ancora oggi la situazione grosso modo è questa.
Erano stati espropriati dal Comune di Firenze, per insediare delle cooperative di giovani, alcuni pezzi di riva del fiume Arno, proprio sotto il Ponte Vecchio. Lì sorgeva il problema, senza però che la p.a. emanasse i decreti di esproprio in termini. In realtà, nella specie non erano terreni privati, ma terreni demaniali. Fenomeni simili sono capitati con la alluvione del 2000 in Valle Susa, nella zona da Oulx a Bardonecchia, dove i comuni hanno fatto degli espropri, a volte non facendo i decreti in termini, altre dichiarando di espropriare alcune zone, espropriandone altre; in altri casi hanno espropriato dei pezzettini di terreno in modo tale che però lo stesso risultasse inutilizzabile dal proprietario.
Vedete che in linea interpretativa si è creato un istituto non previsto dal codice, ma che è sicura estensione dell’istituto originale. Sicuramente si è giunti all’elaborazione di questo istituto di fonte pretorile attraverso il ricorso ad un ragionamento analogico, a pescare una disciplina che regola una materia analoga; e dove l’aspetto analogo fra le due materie sarebbe la medesima ragione ispiratrice delle norme, perché le norme sarebbero caratterizzate dal dover per forza risolvere un conflitto potenziale, perché un terreno con una cosa costruita sopra non serve più al proprietario del terreno, da solo; al titolare della proprietà del manufatto costruito sopra non serve a nulla lo stesso se non può accedervi in quanto il terreno è di un altro. Di fronte ad una situazione inscindibile il principio di diritto va enunciato in un senso o in un altro. Se l’istituto si caratterizza per avere questa finalità di unificazione e di consolidamento di una situazione divisa ma che non può proseguire nella sua divisione, allora il principio affermato è quello dell’accessione; ma, in questo caso, viene rovesciato: la proprietà accede al bene se il bene ha un valore economico maggiore oppure se ha un valore pubblico, un significato pubblico più importante (il concetto su cui si era concentrata la giurisprudenza era la “irreversibile destinazione del fondo ad opera pubblica”). In certi casi prevale l’interesse privato; in altri quello pubblico.
Quindi ci troviamo di fronte al problema della stessa materia, che nell’ambito civile o tributario è da stabilire se possa essere riportata all’ambito soggettivo o all’ambito oggettivo sia nel campo civile che nel campo penale o altri.
Vi ho parlato di un caso tratto dalla giurisprudenza civile, ma non a caso. Siamo partiti dal discorso dell’analogia. Questo è proprio uno di quei casi dubbi in cui il giudice ha fatto ricorso al modo di disciplina di un caso simile e di una materia analoga. Ma in realtà, se voi leggerete queste sentenze della Corte di Cassazione civile, vedrete che non si dice: dobbiamo ricorrere all’analogia, al principio generale dell’ordinamento. Si fa un discorso interpretativo; si ragiona; si discute dell’art. 936, dell’occupazione, dei modi di acquisto della proprietà a titolo originario o derivativo; si fa un discorso normativo (la Corte di Cassazione e prima il tribunale e la corte di appello e gli avvocati che ivi hanno sostenuto la tesi poi accolta). Tenete conto che in queste sentenza si è condannato la p.a. al risarcimento del danno. Opera l’istituto dell’art. 2043. Era un danno per avere perso definitivamente attraverso questa irreversibile destinazione di matrice illecita del bene a funzione ad opera pubblica, il diritto soggettivo. Analogamente a una macchina della polizia che all’inseguimento di rapinatori ed hanno investito il pedone che ha perso la gamba: la gamba non c’è più, però il risarcimento va dato. Il risarcimento ex art. 2043 c.c. è stato commisurato in base al valore di mercato del bene (tramite perizia).
L’accertamento del valore è sempre accertamento di carattere convenzionale. Il valore poteva dipendere anche dalla collocazione urbanistica, dagli strumenti urbanistici. Anche sul valore si erano aperte delle controversie: le P.A. sostenevano che esso era il valore c.d. catastale, contenuto nelle leggi di carattere fiscale.
Quello che mi premeva sottolineare con l’esempio è che la Corte di Cassazione diceva di svolgere un’attività di interpretazione della norma, ma in realtà la svolgeva attraverso il mascherato sostanziale tentativo di colmare una lacuna (il classico dubbio che non può essere risolto facendo ricorso all’analogia).
Certo, il Giudice avrebbe potuto decidere di dire: “La proprietà del manufatto accede alla proprietà del terreno”; ma sarebbe stata una interpretazione rigida che non avrebbe tenuto in conto del cd. interesse pubblico e di questo dato che è stato considerato dai giudici: l’irreversibilità.
A noi interessa capire il piano su cui il Giudice si è mosso: io giudice ho una controversia davanti a me; la devo risolvere, ma mi manca la norma che mi dica come la devo risolvere. Se io applico brutalmente la legge dico che l’autostrada è diventata del pastore sardo. Però il povero pastore non può più portare le pecore, perché nel prato ci sono i piloni dell’autostrada. Il costo che ci sarebbe per spostare il manufatto è immane. Devo andare a pescare la disciplina analoga, vale a dire l’art. 936 c.c. e la applico rovesciata, mantenendo la medesima ratio per entrambi i casi, uno regolato e l’altro non regolato. Non è attività creativa nella misura in cui noi riteniamo che essa sia il frutto dell’applicazione dell’art. 12 II comma c.c. Il problema è quale è la discrezionalità di scegliere il caso analogo.
C’è un mondo delle cose esatte che sta sullo sfondo e che è presupposto dal diritto e c’è il mondo delle scelte interpretative che possono coincidere con questo mondo teorico, ipotetico delle scelte esatte e delle soluzioni giuste che è il presupposto del postulato della norma giuridica. Non è detto che ci sia coincidenza fra come l’interprete deve agire e come agisce. La legge impone che ci sia questa coincidenza.
È per questo che noi stiamo discutendo della norma sull’interpretazione giuridica. Il Giudice in questo caso non ha detto che applicava il II comma dell’art. 12, ma lo ha fatto. Questo tipo di ragionamento contratto ed implicito è molto studiato dal mondo anglosassone, da noi pochissimo. Noi abbiamo sempre il bisogno di appoggiarci ad una norma . Però forse i risultati sono gli stessi.
Io direi di uscire dai luoghi comuni e di non usare mai la parola “applicare” contrapposta a “creare”. Voglio sottolineare l’esigenza di normativizzare le scelte giuridiche e riuscire al tempo stesso a capire se sono corrette o non. Se vado a dichiarare tutti i passaggi, devo fare uno sforzo molto più forte, che attraverso la motivazione diventa controllabile e quindi criticabile: se vivo in un ermetismo assoluto, mi sottraggo alla discussione.
È chiaro che esplicitare i ragionamenti è uno dei requisiti tipici della motivazione, perché ne costituisce la finalità istituzionale, che è quella della verifica e del controllo, o della falsificazione in termini normativi, da parte di un altro giudice, o di un altro critico che la pensi diversamente.
Un principio di carattere generale come quello contenuto nell’art. 12 delle preleggi ha una portata generale; così come in piccolo ce l’ha l’art. 61 e 62 del c.p. che vi dice: guardate che questa aggravante si applica a tutti i delitti. O come il tentativo. Una volta come battuta si diceva che l’art. 56 raddoppia tutti i reati. Il che non è esatto perché i delitti di attentato non sono raddoppiabili e poi ci sono alcuni reati a carattere istantaneo.
È come se in ogni norma giuridica, ma non solo penale, ci fosse scritto: “questa norma può essere applicata anche ai casi non espressamente regolati dalla medesima, purché simile o alla materia non espressamente regolata dalla materia purché simile, se esiste una controversia davanti al giudice che non può essere decisa in quanto sussiste un dubbio che non può essere risolto attraverso una univoca individuazione delle intenzioni del legislatore”. Se voi pensate che tutte le norme siano costruite in questo modo non fate altro che pensare che li, giudice non abbia nessuno spazio di discrezionalità nel decidere.
Il problema è: nell’art. 12 delle preleggi c’è anche – a contrario – scritto che non è detto che non ci sia la disposizione (dice “se il dubbio permane”). In questo caso il giudice è obbligato a decidere secondo i principi generali. Vuol dire che c’è una differenza di piano fra le discipline che regolano delle materie (casi simili o materie analoghe) ed i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
Si pone questo problema: se ci sia uno spazio in cui si possono sovrapporre delle discipline con i principi generali; se ci sono dei momenti in cui in certe discipline si può dire che risiedono dei principi generali dell’ordinamento; oppure invece se i principi generali dell’ordinamento stiano per forza oltre le discipline che regolano le materie.
Secondo me si può veramente pensare ad una soluzione di questo secondo punto. Perché, se sono “generali”, non possono appartenere alla disciplina di certe materie. Vedete come anche il mio discorso va ad attribuire significati normativi alle parole, attraverso un minimo di strumentazione logica, che è anche disvelamento di cose che non sono visibili.
Vi ho detto che la parola “generali” in sé stessa allude a un qualcosa che non è materia. E allora ho saltato un passaggio: la contrapposizione classica tra generale e particolare; ho utilizzato “materia” al posto di “particolare”. E però ho fatto uno slittamento tradizionale ed apparentemente istintivo verso la contrapposizione generale/particolare, anziché fare uno slittamento, che invece sarebbe stato molto più consigliabile, che dà un significato normativo alla parola “generale”. “Generale” non è detto che si contrapponga a “particolare”; generale può anche essere sinonimo di “centrale, portante, comune, sovraordinato…”. In quale senso l’art. 12 II comma preleggi ha utilizzato la parola generale? magari lo ha fatto perché in quel modo ha voluto alludere ad una tradizione giuridica che si era formata sulla nozione di principi generali dell’ordinamento, come veniva inteso in quegli anni dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominante (non c’era ancora la Costituzione, si veniva da una costituzione flessibile; il costituzionalismo esisteva come cultura generale, nel senso che si riteneva che il legislatore non fosse libero di fare quello che voleva perché esistevano dei diritti fondamentali che non potevano essere toccati; ma il concetto di costituzione non esisteva).
In definitiva, il parametro in base al quale stabilire quali fossero gli organi vitali, i cardini dell’ordinamento giuridico (che non coincidono con i valori: bene, male, pudore, proprietà, libertà…) quale era ? In quel momento il codice civile e le preleggi non si riferivano ai parametri che oggi abbiamo leggendo la costituzione. Nell’elencazione delle fonti del diritto i principi generali non erano indicati. E allora ? Manca un pezzo.
In realtà, se guardiamo il codice civile, non troviamo quasi mai la nozione di principi generali dell’ordinamento giuridico. Vi faccio un esempio: prendete l’art. 1418 c.c. “Il contratto nullo quando è, contrario a norma imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la mancanza…. l’illiceità della causa, dei motivi nei casi indicati dall’art. 1345…”.
Pensate all’art. 1343 c.c.: “La causa è illecita quando è contraria a norma imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume”.
Di nuovo gli stessi concetti.
Queste sono delle indicazioni che abbiamo.
Nell’art. 2044 c.c. “ …nell’esecuzione di doveri morali o sociali”. Il debito di gioco è l’esempio classico. Nell’art. 2035 c.c. (la prostituzione).
Tra i due c’è una differenza. Da una parte si parla di doveri morali e sociali e dall’altra di buon costume.
Questi valori (buon costume, doveri morali e sociali, norme di ordine pubblico, norme imperative ) sono concetti che in qualche modo si avvicinano ai principi generali dell’ordinamento ma che non si identificano con gli stessi. Non c’è un elenco di detti principi e questo è uno degli argomenti che andrebbero affrontati per sapere qualcosa di più sui canoni imposti all’interpreti nella letture e nell’interpretazione della legge.
Facciano il caso della nota sentenza della Cassazione in materia di truffa aggravata, al punto 9) la Cassazione riprende tutte le obiezioni e le varie soluzioni alternative e dice “risulta invece decisivo il criterio strutturale della descrizione del precetto penale. Nel caso dell’art. 640 bis la fattispecie, distinta attraverso il rinvio al fatto reato, è prevista all’art. 640, seppure con integrazione di un oggetto materiale specifico della condotta truffaldina e della disposizione patrimoniale (le erogazioni da parte dello stato delle comunità europee o degli altri enti pubblici). Una siffatta struttura della norma incriminatrice indica la volontà di configurare soltanto una circostanza aggravante del delitto di truffa. L’obiezione secondo cui vi sono casi in cui la descrizione per relationem tuttavia è compatibile con la configurazione di autonomo reato non regge; a ben vedere tutti i casi addotti a sostegno dell’obiezione (art. 251 II, 452, 527 II) configurano reati colposi, sicché la descrizione del rinvio alla corrispondente ipotesi dolosa non contrasta con la configurazione di una fattispecie autonoma di reato solo per la ragione dei moduli descrittivi adoperati; se da una parte richiama il fatto tipico del reato doloso dall’altra introduce anche una variazione dell’elemento soggettivo, che è essenziale nella struttura del reato medesimo, trasformandolo da doloso a colposo.
È proprio la struttura della fattispecie penale (640 bis) attraverso il richiamo agli elementi essenziali della truffa (640: artifici e raggiri, induzione in errore, con disposizioni patrimoniali, ingiusto profitto, danni del soggetto passivo) e dall’altro dall’introduzione di un elemento specifico (erogazioni pubbliche) estraneo alla struttura essenziale della truffa a denotare la volontà in equivoca del legislatore di configurare come circostanza aggravante e non un diverso titolo di reato.
La descrizione della fattispecie non cambia gli elementi essenziali della truffa, né materiali né psicologici introducendo un solo oggetto materiale specifico (tradizionalmente qualificato accidentale, cioè circostanziale) prevedendo che la condotta truffaldina e la disposizione patrimoniale dell’ente pubblico riguardino contributi, finanziamenti, mutui agevolati o erogazioni dello stesso tipo.
Tra reato base e rato circostanziato c’è un rapporto di specialità unilaterale per specificazione o aggiunta; nel senso che il secondo include tutti gli elementi essenziali del primo con la specificazione e l’aggiunta di elementi circostanziali.
La specialità (quindi il riferimento all’art. 15 c.p.) del 640 bis rispetto alla truffa semplice dell’art. 640 è duplice perché riguarda l’oggetto materiale della condotta dell’agente e la disposizione patrimoniale del soggetto passivo sulle erogazioni da un lato e la natura pubblica del soggetto passivo medesimo; mentre in rapporto alla fattispecie di truffa aggravata contro lo stato ed altri enti pubblici di cui all’art. 640 cpv. n. 1 quella specialità si riferisce solo all’oggetto materiale.
Vedete qui incrocia, poi salta: “quindi immutata la struttura essenziale del reato non cambia neppure il bene giuridico tutelato, che é sempre il patrimonio del soggetto passivo”. Unica cosa che dice: c’è una differenza, “se si volesse sostenere che nella truffa aggravata di cui al 640 bis interviene un mutamento del bene giuridico tutelato, posto che la tutela penale si sposterebbe dal patrimonio alla funzione pubblica amministrativa per dedurne che la fattispecie debba qualificarsi come reato autonomo, si dovrebbe escludere la qualifica circostanziale anche per la fattispecie di cui al 640 cpv. n. 1”.
Però nessuno ha mai detto questo – dice. Quindi si opta per questa ipotesi. Poi alla fine si dice si può inoltre dire che il legislatore non ha rigorosamente adempiuto agli obblighi che gli derivano dall’appartenenza all’U.E. A norma dell’art. 280 del Trattato di Roma gli Stati membri debbono combattere contro la frode.
Questo è il nucleo del ragionamento, che in realtà è molto debole dal punto di vista logico. Innanzitutto, ripete questa parola “strutturale”. Non è che non ci siano nella sentenza delle considerazioni logiche: “strutturale” significa guarda proprio quale è la struttura della norma. Qui si distingue tra l’interpretazione strutturale e forse l’interpretazione funzionale. In antropologia strutturalismo e funzionalismo erano la stessa cosa. Qui, in diritto, non si capisce bene.
PRINCIPI GIUDIZIALI DI DIRITTO SULL’ERMENEUTICA DELLA NORMA PENALE. AUTOGIUSTIFICAZIONE E CIRCOLI VIZIOSI.
Quando la Corte di Cassazione dice: “La Corte di Appello avrebbe dovuto si riferisce esclusivamente alla motivazione, perché il Giudice che sia Tribunale che la Corte di Appello non ha alcun potere di indagine. Il giudice è terzo, non svolge attività di indagine; non è titolare delle azioni penali; non contesta ilo reato (il giudice non prende alcun tipo di iniziativa di ufficio: giudica soltanto sulle richiesta delle parti e quindi sulla contestazione di fatti di reato che avviene attraverso l’esercizio dell’azione penale da parte del P.M., in primo grado, o del Procuratore Generale in appello).
La Corte di Cassazione non può rimandare il processo alla Corte di Appello dicendo “devi fare altri accertamenti”. La Corte di Cassazione cosa fa: o respinge il ricorso che può essere proposto dall’imputato o dalle parti civili (per quanto riguarda la statuizioni civili) o dal P.M.; può accogliere il ricorso riformando i tutto o in parte la sentenza, annullandola in certi casi respingere il ricorso confermando in toto la sentenza emessa dal giudice a quo, sentenza che passa in giudicato. Può annullare un sentenza (della Corte di Appello o del Giudice di Pace), oppure accoglie il ricorso e, visto che non è il giudice di merito, e, quindi, che non ricostruisce il fatto ma controlla se ad esso, ormai come definitivamente accertato dalla Corte di appello, sia stato siano state applicate le norme e le leggi corrette, vale a dire che il fatto sia stato ricondotto a delle norme che lo prevedono e che tali norme siano state correttamente interpretato dal giudice di merito. La Corte di Cassazione non ha il potere di riformare la sentenza, perchè quando si parla di riforma vuol dire entrare nel merito, avendo gli stessi poteri del giudice che l’ha emessa. Ma la Corte di Cassazione non ha gli stessi poteri del giudice del fatto, perché non é giudice del fatto, ma è giudice del diritto. Se accoglie il ricorso annulla in tutto o in parte la sentenza; enuncia un principio di diritto (dice “questa è la norma di diritto che andava applicata) e o è un annullamento (lo studierete nelle procedure) “secco”, senza rinvio, oppure è un annullamento che però richiede un nuovo giudizio e quindi annulla la sentenza, enuncia il principio di diritto, rimette gli atti di nuovo alla Corte di appello che ha emesso la sentenza affinché decida nuovamente il processo sempre sulla base del fatto come è stato accertato, ma alla luce del principio di diritto enunciato .
Tutto ciò per dirvi di non dire che la Cassazione può dare indicazioni al Giudice sul fatto. Il Giudice di rinvio pronuncia una sentenza e il processo inizia daccapo dal grado da cui arriva .
La differenza fra il meccanismo penale e quello civile di calcolo della prescrizione in certi settori ha dato luogo a dei contrasti interpretativi in giurisprudenza e comunque adesso sarebbe lungo parlarne.
Art. 513 bis. Sembra un reato comune, perché inizia con la parola “Chiunque”, non un reato proprio. “Chiunque nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva compie atti di concorrenza con violenza o minaccia è punito con la reclusione da due a sei anni”.
Vedete il rinvio al c.c. (2595, 2601 c.c.). Vedete gli elementi normativi – di carattere extrapenale – come compaiono e quindi che senso ha quello che abbiamo detto prima sul fatto della improprietà dal punto di vista terminologico di chi scegliesse un’interpretazione letterale, mentre un’interpretazione normativa avrebbe molto più significato. Vedete che indubbiamente c’è una “lettera”. Si dice “atti di concorrenza”. Ma è anche vero che é il commentatore che ha scritto tra parentesi il richiamo al codice civile. Se voi andate a prendere la G.U. non troverete mai le parentesine con i numeri. Se andiamo a prendere l’art. 2595 c.c. (disciplina della concorrenza – disposizioni generali – limiti legali alla concorrenza….) siamo in materia di responsabilità extracontrattuale, aquiliana, regolata dall’art. 2043 c.c. e seguenti a livello dei principi generali, che comporta o un dolo o una colpa civile che viene però in questo ambito ulteriormente specificata, con una disciplina difficile da elaborare e da capire, che nulla ha a che fare con quella dei marchi e dei brevetti e delle privative (lì c’è un marchio, c’è un brevetto, c’è una legge, si può dire che non siamo neppure nell’ambito della responsabilità contrattuale né extracontrattuale, che sono forme di responsabilità in ambito civile previste in linea generale dall’ordinamento).
Poi c’è anche la responsabilità precontrattuale che da alcuni viene considerata a parte; da altri invece viene ricondotta alla responsabilità extra contrattuale. Quella precontrattuale è una responsabilità significativa ma impalpabile, perché non definita espressamente nell’ambito del codice civile e sembrerebbe essere in contrasto con la responsabilità contrattuale. È vicina, ma non è ancora responsabilità contrattuale, perché il contratto non c’é. Se non mi sono impegnato, che tipo di responsabilità contrattuale posso avere? Per definizione non mi sono impegnato. Non dovrebbe essere extracontrattuale, perché la responsabilità extracontrattuale presuppone proprio che ci sia la violazione che proviene dal fuori di una sfera giuridica direttamente tutelata dall’ordinamento. Una violenza carnale è, oltre che un reato molto grave, una forma di illecito di carattere extracontrattuale, perché c’è la violazione di beni (della persona, della personalità, dell’integrità) che peraltro comunque sono costituzionalizzati. Perché il diritto della persona è diritto di proprietà di sé stessa non a contenuto patrimoniale. Se vengo investito da una macchina e mi rompo una gamba, c’è una responsabilità aquiliana, extracontrattuale, perché viene violato il mio diritto soggettivo indipendentemente da alcun legame contrattuale. Se faccio lavorare troppo la mia segretaria e questa si ammala (ha male agli occhi, fa straordinari: oltre le 40 ore settimanali di contratto gliene faccio fare altre 40 tutte sul computer). Che causa mi fa: di responsabilità contrattuale o di responsabilità extracontrattuale? Indubbiamente c’è un contratto di lavoro caratterizzato una certa di libertà ma in un quadro di ordine pubblico, non derogabile per libera disposizione delle parti (il tetto massimo degli straordinari non può essere superato, così ad esempio ai dirigenti delle imprese non vengono pagati straordinari, perché nella loro stessa qualifica è previsto che debbano lavorare di più). Certamente come datore di lavoro sono uscito dai miei poteri contrattuali. Se la segretaria si rifiuta un giorno di fare le otto ore al computer e la percuoto, commetto un reato di lesioni o semplicemente di percosse (se non c’è una malattia come evento della mia condotta materiale di violenza o percosse) qui è un illecito a parte: c’è un contratto ma non c’entra niente con il ceffone. Siamo nell’ambito della responsabilità penale punibile a querela, ma certamente nel campo della responsabilità civile (responsabilità aquiliana) dove il termine di prescrizione è di cinque anni.
E allora, quando parliamo di concorrenza che viene direttamente richiamata dal 513 bis, in che area siamo? E, quando parliamo di responsabilità precontrattuale, in che area siamo?
Difficile sarebbe configurare la responsabilità precontrattuale come una responsabilità extracontrattuale, perché in qualche modo, sì, non c’è ancora un contratto, ma in qualche modo c’è la lesione di un diritto soggettivo (della personalità o patrimoniale).
Il furto genera una responsabilità aquiliana perché, a prescindere dalla sussistenza del reato, c’è un illecito civile, perché la vittima viene impoverita. Anche nel danneggiamento c’è una responsabilità civile C’è il 635 c.p. ma c’è anche un illecito aquiliano. Quando Voi scrivere sopra i banchi o incidete “Io amo Patrizia” commettete un reato: un danneggiamento aggravato (635 c.p.).
La responsabilità precontrattuale: io ho trattato sino all’ultimo un acquisto e poi alla fine non avevo nessuna intenzione di comprare. Se c’erano ancora delle trattative era evidente che io non avevo ancora concluso un contratto. Non c’è una lesione del diritto soggettivo dell’altro, perché sicuramente, non avendo ancora comprato, non ho inciso il suo diritto soggettivo di proprietà.
Posso avere inciso un’aspettativa di fatto.
C’è una bella differenza tra la responsabilità precontrattuale e le altre due. Sulla precontrattuale è intervenuta la giurisprudenza o nello staccarla dalle altre due come figura autonoma oppure ancorandola all’ordine della responsabilità extracontrattuale, innestandola su una forma di preaccordo, di statuto minimo di un futuro accordo che poi viene violato attraverso una forma di malafede (che sarebbe l’elemento psicologico della responsabilità precontrattuale), con un danno economico non ad uno dei due diritti soggettivi che venivano prospettati in un rapporto di scambio o sinallagmatico eventuale. Non è stato danneggiato né il prezzo ipoteticamente in trattativa né il bene ipoteticamente in trattativa.
Se ci fosse stato un negozio non ci sarebbe stato nessun problema. Se Tizio non mi vende la casa, se ho fatto il contratto (scritto, ad substantiam per i beni immobili; per i mobili è orale: basta l’incontro di proposta ed accettazione: non è necessaria la traditio, come avveniva nel diritto romano). Avvenuto l’incontro delle volontà, il diritto è tutelabile con la rivendica – reivindicatio: l’azione che insegue la cosa. Per un immobile, la proprietà non passa con il mero incontro della volontà finché non si manifesta nella forma prevista ad substantiam: in questo caso non può farsi azione di rivendicazione, ma azione di adempimento dell’obbligazione. Non si può fare la rivendica perché, senza la forma ad substantiam, la cosa non è passata di proprietà e il dante causa può venderla ad un terzo. Se accade, ed il terzo trascrive l’acquisto, non si può più chiedere l’adempimento ma l’equivalente).
Se c’è un negozio vero e proprio o c’è un trasferimento di un diritto o sorgono delle obbligazioni reciproche. Se il signore che ha promesso per iscritto con un compromesso (che si fa in agenzia) la casa a qualcuno non adempie, l’altro può chiedere o la risoluzione del contratto (e la restituzione dell’acconto che può essere diversamente qualificato), o chiedere l’adempimento. Sarà il giudice con la sentenza che trasferirà la proprietà e condannerà (dietro domanda dello steso acquirente) a pagare il prezzo in cambio del trasferimento di proprietà.
Invece, nella responsabilità precontrattuale siamo in un’altra situazione perché non c’è negozio: c’è un pre-negozio sul quale la giurisprudenza ha, attraverso vari ragionamenti, sviluppato l’istituto.
La tutela dell’affidamento va vista con riferimento ad un criterio che – appunto – non è un criterio normativo. La frase “tutela dell’affidamento” non vuol dire niente da un punto di vista giuridico. È sicuramente un ragionamento persuasivo, ma debole. Anche se contenuto in principi giurisprudenziali ormai consolidati, dal punto di vista normativo non significa niente.
Pensate al caso del Grande Torino, della tragedia di Superga. Dopo la tragedia nel 1949 ci furono più cause, sia civili che penali, soprattutto civili, antipatiche ed incrociate. Sono stati scritti dei bei libri giuridici.
Lì è sorto un problema; una delle rivoluzioni giuridiche del secolo: il tema della tutela del credito dalle lesioni del terzo.
Che cosa era successo. Sicuramente allora, anche se i calciatori guadagnavano come degli impiegati o poco di più, la squadra aveva vinto molti campionati di seguito, con giocatori ancora giovani, di ventidue–ventiquattro anni e che, quindi, avrebbero vinto ancora per altri sei, sette anni, e che ormai stavano raggiungendo un’età nella quale probabilmente avrebbero cominciato a vincere sistematicamente anche in Europa, cosa che fino ad allora non avevano fatto, e la Società il Torino aveva stipulato contratti con molte altre società, per il futuro (incontri futuri, tornei, sponsor…). A loro volta gli stessi calciatori avevano fatto contratti di questo genere e non solo: c’erano dei contratti fra la società ed i calciatori. Non c’era ancora nulla di reale; però c’erano già dei contratti; dal punto di vista civilistico c’erano dei diritti di credito.
E qui ci sono state tutte le cause: delle società verso il Torino, del Torino verso le società, contro le assicurazioni, delle famiglie contro il Torino. Bravissimi gli avvocati. C’è un bellissimo libro che è uscito nel 78-80 (La tutela del credito nei confronti del terzo di BUSNELLI).
Si diceva: tu che hai subito un danno perché effettivamente avresti avuto dei redditi, già previsti in un contratto, non hai più il tuo debitore; e io che sono il creditore del tuo debitore sono estraneo a te, per cui tu non hai il diritto di credito nei miei confronti, diretto. Non si può dire che sia stato violato da me un tuo diritto soggettivo, perché io con te non avevo legami; gli altri (i parenti) dicevano: no, certo: io non ho un contratto con te, però ho un diritto verso Tizio che aveva a sua volta un diritto nei tuoi confronti (si è immaginato di usare la surrogazione: 2901 c.c.). La Giurisprudenza ha dovuto affrontare questo problema. Tenete conto che qui c’erano anche i giudizi penali nei quali le parti si sono costituite parte civile, esercitando nel giudizio penale le azioni civili (che si può esercitare anche davanti al giudice penale. Si preferisce anticiparla ed esercitarla davanti al giudice penale il quale magari può semplicemente emettere una condanna generica e poi bisogna fare il processo per il quantum in sede civile). Lì c’era un principio generale: quello di ammettere che si potesse chiedere il risarcimento di un diritto soggettivo che non c’era. Perché si studia che il diritto soggettivo è un rapporto giuridico fra due parti. Poi effettivamente c’è stata un’apertura (inizialmente era stato negato, ci sono state varie pronunce in appello, cassazione ..) e negli anni successivi si è ammessa effettivamente questa tutela del credito nei confronti del terzo. Sono variate addirittura le interpretazioni date a gli istituti della rivalsa, della surrogazione, dell’estromissione, dell’accollo e si è arrivati ad un contesto sostanziale in cui si dice: c’è un danno, c’è una situazione giuridica che va tutelata, c’è un responsabile civile. Si è presa una linea più sostanzialista (sicuramente più confusa giuridicamente) che è andata poi di pari passo con la creazione della responsabilità (giurisprudenziale in via interpretativa, per analogia, direi, anche in fase civile con riferimento ai principi generali dell’ordinamento che regolavano casi simili) precontrattuale.
Codicizzato nel codice penale è sicuramente il tema della concorrenza sleale.
“Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi, compie atti di concorrenza sleale chiunque…” – ed elenca (diffonde notizie, apprezzamenti….) – “se gli atti sono compiuti con dolo o con colpa l’autore è tenuto al risarcimento del danno”.
Si potrebbe anche dire che questa disposizione si incrocia con la norma 513 bis c.p.p., la integra, perché è elemento costitutivo del fatto, è un elemento di fatto l’atto di concorrenza, che però ha una qualificazione giuridica, perché si esce direttamente al di fuori del codice penale; è un elemento di fattispecie che diviene penale, nel momento in cui viene richiamato attraverso un’espressione semantica normativa, contenuta in una norma incriminatrice.
Se non ci fosse stata la norma 2598 c.c., la disciplina sarebbe la stessa? cambierebbe qualcosa? Fatto illecito, danno, risarcimento del danno, immediato e diretto, collegato da nesso di causalità, al fatto (la giurisprudenza, con propria creazione, o meglio invenzione di principi che vengono applicati in casi simili, estende la nozione di danno anche a quello che è un effetto indiretto).
Si guardi al 2598 c.c.: “usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri o imita servilmente i prodotti di un concorrente o compie con qualsiasi altro mezzo atto idoneo a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; diffonde notizie o apprezzamenti sui prodotti… si vale di mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare “.
Noi abbiamo il 2043 che dice: “Chiunque cagiona ad altri un danno ingiusto…”. Cosa si può osservare? Sicuramente “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto” il vuoto del 2043, se lo si raffronta con il 2598 c.c..
Ci si può rendere conto di quali sono quelli che io mi sono permesso di definire gli enunciati normativi non scritti – perché evidenti che sono ora dati per scontati – e che sicuramente fra cent’anni non si sapranno più. Ho difficoltà io a sapere, visto che sto parlando di una legge che è stata elaborata più di 65 anni fa. Anzi, che è stata sostanzialmente elaborata molto prima perché più o meno l’impianto è quello dell’inizio del 1800.
Quindi vedete il vuoto. Cominciate a ragionare.
Qualunque fatto doloso o colposo va bene. Ma il dolo non ci descrive mai l’elemento oggettivo. Ragioniamo da penalisti sul 2043 c.c., si faccia finta che al posto di “obbliga colui che ha commesso il fatto al risarcimento del danno” ci sia “è punito con la pena di …”. D’altra parte, se pensate all’omicidio (chiunque cagiona…) non c’è scritto colposamente o dolosamente perché in linea generale vige l’art. 42 c.p. (“la morte di un uomo è punito…”). La norma avrebbe potuto essere scritta “qualunque fatto doloso o colposo commesso da un uomo che cagioni la morte di altri è punito con …”. Nel diritto penale però la parola “fatto” viene utilizzata – raramente, nel 43 ed in pochi altri – dal codice come evento naturalistico, oppure come condotta (la dottrina intende la parola fatto come elemento oggettivo, come insieme dei pezzi che costituiscono l’elemento oggettivo). E quindi non c’è l’abitudine, mentre nel civile si usa di più la parola fato perché le forme di responsabilità sono le stesse ma sono più articolate. Il diritto penale non ha una natura indipendente ed autonoma rispetto al diritto civile. Se voi studiate la storia del diritto (romano, cinese, ecc.), voi avete l’impossibilità di distinguere fra civile e penale, come ho già detto. Riuscite a distinguere nel momento in cui vi sono delle istituzioni che si autoqualificano in un certo modo. Nel diritto civile, quindi, si utilizza la parola “fatto” perché il coefficiente di colpevolezza nel diritto civile è più sfumato. In un esame di diritto penale o di diritto civile si può fare la domanda: è ammessa la responsabilità oggettiva nel diritto penale? Cos’è la responsabilità oggettiva? È una responsabilità – si dice comunemente – senza colpevolezza. Oppure, se volete è la responsabilità senza dolo e senza colpa. È oggettiva: il fatto comporta la responsabilità tout court. Che cosa è necessario perché ci sia la responsabilità? C’è una cosa che è necessaria, oltre naturalmente alla condotta: il nesso causale.
La legge del ‘69 sull’obbligatorietà dell’assicurazione automobilistica prevede eccezionalmente un caso di responsabilità oggettiva tra conducente e proprietario della vettura. Non confondiamo tra penale e civile: il proprietario della vettura, se il conducente fa un disastro con la macchina, penalmente non ne risponde.
Parliamo di responsabilità civile, aquiliana. In essa risponde chi ha compiuto il fatto con dolo o con colpa.
Stiamo parlando di una norma penale, il 513 bis. Siamo ritornati a certi schematismi, di cui abbiamo già parlato più volte, di qualificazione degli elementi e ci domandiamo se la nozione di “atti di concorrenza” (qui c’è anche con violenza o minaccia ed è questo che dà carattere di reato all’atto di concorrenza) sia completamente sovrapponibile alla nozione del 2598 c.c. di “atti di concorrenza sleale”.
Qui vedete non c’è l’aggettivo “sleale”. La parola “atti di concorrenza” compare nella rubrica del 2598 c.c. Vi richiamo tutto il discorso fatto a proposito delle rubriche (dalla giurisprudenza: se siano acquisibili o meno come elementi normativi che in qualche modo impongono un’interpretazione piuttosto che un’altra oppure se siano solo argomenti, segni di altro). Però nella rubrica si parla anche di “sleale”, per cui sembrerebbe che una cosa siano gli atti di concorrenza un’altra quelli di concorrenza sleale. E allora, se dessimo una lettura letterale, diremmo che le parole (2595 e seguenti) sulla concorrenza non siano richiamabili perché verrebbe colpito l’atto di concorrenza; l’atto di concorrenza è lecito. Io ho un concorrente. Ho un avvocato che l’altro giorno mi ha piazzato una targa vicino alla mia con sopra scritto che in realtà il suo ingresso è altrove e che pacificamente mi ha fatto un atto di concorrenza. Bisogna vedere se è corretta o no.
Vi ho detto che il 2043 è una norma molto nuda, perchè sembra solo parlare del nesso di causalità e dice “colposamente o dolosamente”. Non dice molto. Non c’è scritto “chi compie un fatto ingiusto”. La parola ingiusto è riferita al danno.
Quale é il danno ingiusto? Anche nel diritto penale spesso compare il “fatto ingiusto”. Pensate all’abuso di ufficio (323 c.p.). Spesso si dice: è ingiusto se è lesivo di un diritto soggettivo. Che un fatto sia lesivo di un diritto può essere, ma se è un fatto lecito è lecitamente lesivo. Quindi nel 2043 c.c. ci sarebbe la possibilità di ritenere ingiusto il danno quando significa che il fatto ha ingiustamente leso un diritto soggettivo, e quindi il danno è ingiusto. Un fatto di concorrenza comporta ad esempio un danno giusto. Non ingiusto.
La concorrenza gli avvocati teoricamente se la dovrebbero fare con la bravura, no con la pubblicità. I commercianti anche con la bravura, ma non solo; si possono fare pubblicità.
Comunque vedete che il 2043 è nudo, perché comunque non dice quali sono le condizioni a cui il danno è ingiusto, cioè il fatto è ingiusto. Dice che deve essere doloso o colposo: ma se io faccio una concorrenza leale lo faccio dolosamente, volontariamente.
ORIENTAMENTI DEVIANTI DELLA GIURISPRUDENZA NEI PAESAGGI ERMENEUTICO-NORMATIVI.
Un volume appena uscito proprio dedicato alle preleggi è (edito Giuffrè, primo volume) curato da CESARE RUPERTO (libro raccolta della giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina). È il momento di parlare della legge sull’interpretazione della norma penale non più vista come il soggetto del nostri discorso, ma come il suo oggetto.
La legge è sempre applicabile e sempre interpretabile.
Anche la legge sull’interpretazione viene interpretata dai giudici e viene interpretata in due modi. Innanzitutto, nel contesto delle sentenza per fare chiarezza su alcuni istituti. La sentenza (citata) sulla truffa aggravata deve risolvere il problema se in quella zona 640 bis si possa parlare di un’aggravante o di una fattispecie autonoma di reato.
Certamente, ma in questa meno che in altre, c’è un’enunciazione di principio di carattere generale (che in una sentenza viene sempre fatta per risolvere un caso specifico, tant’è che poi il vincolo giuridico dell’affermazione del principio contenuto in una sentenza della Cassazione riguarda quel caso lì, quella controversia lì, e quindi ha un’efficacia vincolante, per quanto riguarda la cassazione, di carattere definitivo su quella vicenda, per diritto).
Però in questo caso la cassazione deve leggere la legge e deve dare sicuramente un’interpretazione sulla legge. Ma come fa a darla senza leggere anche le norme che regolano l’attività interpretativa, che incidono, che parlano di come va svolta l’attività interpretativa.
Ad un certo punto la Corte, oltre a dover decidere il caso specifico, sa di dovere enunciare un principio o quanto meno decidere, risolvere il caso agganciandosi ad un principio che essa stessa dice esistere nel diritto.
E c’è un secondo profilo, che non è solo quello di non uscirsene con un non liquet, che è quello di affermare l’esistenza di un diritto che mi spinge a guardare alla ratio normativa piuttosto che alla lettera.
E se si pensa bene, che cosa succede dopo? Che questi principi enunciati sono anche principi di lettura delle norme che reggono l’attività interpretativa e vengono a costituire come tali, non dei principi che esistono nella realtà giuridica, ma degli insiemi, degli ordini di canoni ermeneutici che costituiscono il modo con cui le norme interpretative vengono intese ed applicate.
Teoricamente, i giudici di legittimità potrebbero sbagliare, se esistesse una verità a cui raffrontarci, assoluta, sul modo con cui le norme che regolano l’attività interpretativa vengono intese.
Esse però ci dicono come questi canoni ermeneutici vanno letti, vanno intesi, come è la legge che regola l’attività interpretativa.
Qui entriamo più sul raffinato, anche se non è possibile affrontare temi così importanti senza ogni volta andare a verificare i ragionamenti contenuti in una sentenza.
Se esaminate la giurisprudenza sia civile che penale e – soprattutto direi – amministrativa avrete l’impressione abbastanza precisa che esistono grosso modo due orientamenti paralleli; due modi di intendere il diritto, che corrono insieme e paralleli, come due fiumi paralleli e non si sa bene quale sia il più frequentato. A volte ci sono anche degli incroci fra questi due fiumi. C’è un po’ di confusione se si leggono le sentenze ed anche le opinioni dottrinali. Quello che vi dirò, in qualche modo ci porterà poi di fronte ad una porta che abbiamo già aperto senza bene descriverne il contenuto nei giorni scorsi, che è quella che ho cercato di far vedere sullo sfondo dicendo: guardate che il problema dell’attività interpretativa probabilmente, visto che le preleggi ci dicono molto poco, sta nei casi dubbi, cioè sta nell’applicazione dei principi fondamentali del diritto, sta nel colmare le lacune. Tutto quello che è prima non è attività ermeneutica, ma è pura e semplice in claris non fit interpretatio, applicazione della legge.
In questo senso un po’ di confusione c’è nel senso che si dicono in giurisprudenza delle cose condivisibili ma vengono riportate ad una lettura dell’art. 12. Probabilmente andrebbero riportate alla II parte dell’art. 12, ai dubbi; tant’è che la parola “dubbio”, “incertezza”, ricorre. E qui andiamo un pochino sul difficile. Mi preme sottolinearlo perché non c’è sicuramente nella scaletta che adesso seguiamo un ordine di valore; non c’è assiologia. Non pensiamo che questi principi cui fa riferimento la Corte di Cassazione od altri Giudici vengano visti o debbano essere visti in un ordine di importanza, in un ordine assiologico, di valore giuridico che esiste. È una premessa importante, perché visto che comincio subito a parlarvi di interpretazione costituzionale, sembrerebbe che questa sia l’interpretazione più importante.
Io mi limito a fare una rassegna neutra e a farvi vedere come l’interpretazione si avvita su sé stessa e va a dirsi che cosa è nella giurisprudenza.
Costante è la giurisprudenza, soprattutto del Consiglio di Stato, ma anche nella giurisdizione ordinaria nel senso di dire che dopo l’avvento della costituzione c’è un criterio di base: che i principi posti da una costituzione rigida (quindi non flessibile) sono principi che investono l’intero ordinamento e funzionano come criteri di ermeneutica delle leggi ordinarie. Se una norma si presta a diverse interpretazioni, di cui ciascuna produce effetti di maggiore o minore ampiezza di intensità, l’interpretazione da scegliersi quindi è obbligatoria è quella più aderente al principio costituzionale.
Questo è stato un orientamento che non condivido ma che esiste ed è importante. Ma non è l’unico.
Se una norma di legge, per la sua formulazione letterale, è suscettibile di più interpretazioni di cui una darebbe alla stessa un significato costituzionalmente illegittimo (guardate: sembra che si inserisca un sindacato diffuso, come succede ad esempio in Inghilterra, di costituzionalità in capo al Giudice, mentre il Giudice non ce l’ha. Ad esempio nell’ordinamento italiano deve applicare la legge – “è soggetto solo alla legge” e la deve applicare; non la può disapplicare; non la può dichiarare incostituzionale. Se ritiene che la norma ordinaria sia in conflitto con un principio affermato dalla costituzione e che dall’applicazione di questa norma illegittima derivi un effetto rilevante, importante sulla decisione, è obbligato a sospendere il giudizio, sollevare una questione pregiudiziale e trasmettere gli atti alla corte costituzionale che farà a sua volta una valutazione di non manifesta infondatezza della questione sollevata dal giudice e in caso affermativo, decidere se la legge è costituzionale o meno nei modi che voi sapete).
Attraverso la citata interpretazione, frequente e prevalente in dottrina penalistica, e molto forte nella giurisprudenza, invece, il giudice in qualche modo, attraverso questa indicazione interpretativa, dovrebbe salvare la norma ordinaria interpretandola in modo conforme alla Costituzione. Ma non sempre. A condizione soltanto che la norma a livello letterale non sia chiara e sia suscettibile quindi di diverse interpretazioni , una delle quali non conforme al dettato costituzionale.
Ora sarebbe una forma di sindacato diffuso di costituzionalità in capo al giudice non completa, perché non è la stessa cosa , nel senso che qui il giudice avrebbe dei limiti, dei paletti. Non potrebbe dire: “anche se la norma è chiarissima, io la leggo in un altro modo, in modo tale da conformizzarla al principio costituzionale, sostituendomi quindi alla Corte Costituzionale”. Ma potrebbe farlo solo quando la norma non sia chiara sotto il profilo della sua lettera.
GIURISPRUDENZA NEI CAMPI NORMATIVI.
Facciamo un esempio. Vi sarà capitato di andare in un posto e dopo avere seguito le indicazioni stradali, ad un bivio, di non trovare più il cartello. Così a questo punto tutte le vie sono indifferenti, a meno che l’amico che vi aspetta non vi abbia detto “sempre a destra o sempre a sinistra o dritto” o che una via porti in un campo, in uno sterrato o in un bosco dove è evidente che non c’è la casa che cercate. Lì la lettera non vi dice niente – e quindi vi è indifferente – o vi dice qualcosa che non ha assolutamente senso.
Quindi, il principio costituzionale sarebbe un criterio ermeneutico di deviazione, cioè sarebbe un cartello che manca (rimanendo all’esempio appena fatto) e che dice: ”Vai verso la Costituzione”. Pertanto, lo si può chiamare “criterio ermeneutico di deviazione” versus Costitutionem; questo criterio presuppone una alternativa indifferente, che porta ad un dubbio reale, il quale legittimerebbe l’utilizzazione di questo criterio costituzionale di deviazione. Infatti, ad esempio, un’altra giurisdizione superiore, equiparata al Consiglio di Stato e alla Corte di Cassazione, verso cui non esiste un ulteriore rimedio, è il Tribunale Superiore delle Acque, il cui Presidente è, in ordine gerarchico, il quarto magistrato in Italia .
Fra le numerose sentenze della Corte di Cassazione c’è la formulazione per la quale “se una norma di legge, per la sua formulazione letterale, è suscettibile di più interpretazioni, di cui una darebbe alla norma un significato costituzionalmente illegittimo, il dubbio è soltanto apparente – per cui non c’è bisogno di ricorrere ad un’analogia per colmare una lacuna – e deve essere superato e risolto, interpretando la norma in senso conforme alla Costituzione e alle leggi costituzionali” (Corte di Cassazione, sentenza del 12 giugno 1975 n° 2342; 27 gennaio 1978 n° 393; 22 giugno 1983 n° 4272; 5 maggio 1995 n° 4906). A questo punto l’interprete “sarebbe” obbligato ad andare verso tale criterio ermeneutico di deviazione (non in senso negativo).
Anche la Corte Costituzionale afferma l’esistenza di questo principio; si autolegittima a fornire dei criteri ermeneutici obbligatori all’interprete, fra cui quello dei principi costituzionali come essa li legge (si veda la sentenza del 12 febbraio 1996 n° 36 o quella del 12 marzo 1999 n° 65). In altre parole – sempre in altre sentenze (Corte di Cassazione, 3 febbraio 1986 n° 661) – l’interprete, prima di investire la Corte Costituzionale, deve verificare la possibilità di giungere ad una lettura della norma stessa nel rispetto dei tradizionali canoni ermeneutici, intendendoli in armonia con la Costituzione. “Se una norma incide su posizioni costituzionalmente garantite, come il diritto di proprietà, tra i vari possibili significati attribuibili, deve essere preferito quello più rigoroso e restrittivo, che pregiudichi in maniera meno gravosa quelle posizioni” (T.A.R. Basilicata, 19 novembre 1983 n° 138): questa massima intende dire che, visto che il diritto di proprietà è costituzionalmente garantito, il riferimento al principio costituzionale deve servire.
Ci sono molti esempi tratti dalla giurisprudenza su come, seguendo questa linea, questo canone ermeneutico, la giurisprudenza, anziché decidere in un modo, decide nell’altro. Ad esempio, nel Trattato di diritto privato diretto da RESCIGNO viene utilizzata un’espressione in ossequio a questo orientamento: in fondo “la giurisprudenza ha maturato la equilibrata consapevolezza che la soluzione del rapporto tra Costituzione ed applicazione della legge da parte del giudice ordinario va ritrovata sul terreno dei limiti”, vale a dire che esisterebbe una gamma di situazioni intermedie tra l’applicazione meccanica della legge e un sindacato diffuso da parte del giudice ordinario. Dunque, si è aperta una porta nuova.
Il fatto che la Costituzione sia entrata in vigore dopo i codici ha svolto un’influenza sul modo di intendere il ruolo dell’interpretazione e questo è accaduto sia nella giurisprudenza che nella dottrina. Pertanto, c’è un ragionamento implicito, presupposto, dato per scontato, che non viene apertamente dichiarato, il quale è a sua volta frutto di un ragionamento giuridico che va obbiettivamente rilevato (e che è già stato anticipato). In parole povere, certamente la Costituzione rappresenta un canone di controllo negativo delle norme che non hanno rango costituzionale, ma a condizione che queste norme siano illegittime costituzionalmente, cioè vengano dichiarate costituzionalmente ilegittime. Il discorso della potenzialità delle norme ordinarie ad essere in contrasto con la Costituzione non è previsto dall’ordinamento. Non c’è alcuna norma che affida una valutazione di potenzialità di legittimità costituzionale all’interprete, sia esso giudice costituzionale o giudice ordinario. Quindi, il fatto stesso che la Costituzione venga dopo e che è più importante costituirebbe un canone ermeneutico, nel senso che essa, essendo venuta dopo, avrebbe implicitamente – sotto il profilo prescrittivo – abrogato quelle disposizioni che regolano l’attività ermeneutica, che non prevedono che si debba fare ricorso a questi principi sospesi nella Carta Costituzionale, anche se non ancora oggetto di un’espressa statuizione di contrasto con delle norme ordinarie da parte dell’interprete.
Tutto ciò non è previsto dall’ordinamento giuridico, è, però, un’implicita presupposizione che c’è nelle massime enunciate prima. È un’interpretazione di carattere politico, perché non è sicuramente un’interpretazione di carattere normativo, che viene fondata su un ragionamento pseudo giuridico, ma comunque non direttamente riconoscibile. Quantomeno su di essa sussistono dei problemi.
Di fronte a più possibili interpretazioni, il criterio ermeneutico che va privilegiato sarebbe quello della “rispondenza costituzionale”. Però, questo criterio vale nei soli casi nei quali vi sia una effettiva incertezza sulla reale intenzione del legislatore, e non anche quando la mens legis traspaia chiaramente dalla formulazione letterale della norma in correlazione logica con il complesso normativo nel quale è sistematicamente inserita. In tal caso unico rimedio offerto dall’ordinamento è costituito dal giudizio incidentale di illegittimità costituzionale: sospensione del giudizio (in questi termini si è espresso il Consiglio di Stato, sez. VI, il 13 maggio 1985 n° 163). Per utilizzare il criterio di deviazione ci vuole l’effettiva incertezza, che causa un’alternativa interpretativa; questa situazione a sua volta porta l’interprete a dover cercare il principio fondamentale, che non è la stessa cosa del principio contenuto nella Costituzione.
Un’altra sentenza afferma che “il sospetto di legittimità costituzionale di una norma non può autorizzare un’interpretazione della norma stessa che sia in palese contrasto con la sua formulazione letterale ”: dunque, prima c’è l’interpretazione letterale; poi c’è l’interpretazione dell’intenzione del legislatore. Questo è il primo dei due grandi orientamenti.
ORIENTAMENTI MENO INIBITORI DELLA GIURISPRUDENZA NEI BOSCHI NORMATIVI.
Invece, il secondo non oblitera quella letterale ed afferma che “le disposizioni di legge di chiaro ed univoco significato non sono suscettibili di interpretazione adeguatrice alle norme costituzionali, in quanto tale procedimento esegetico è consentito al giudice nel solo caso in cui la norma contestata si presti a contrastanti interpretazioni”. In altri termini, il giudice non può dare nessuna interpretazione adeguatrice se la lettera è chiara.
Dunque, privilegiare l’interpretazione costituzionalizzante è possibile solo “quando è incerta la reale intenzione del legislatore” e cioè quando non è certa la mens legis. In altre parole, ci sarebbe questo canone ermeneutico quando dalla lettera si può arrivare ad interpretazioni che contrastano fra di loro oppure quando un’interpretazione contrasta coi principi costituzionali. In questo ragionamento viene presupposta l’esistenza di un chiaro ed univoco principio costituzionale, che si suppone direttamente affermato dalla Costituzione, dalla Corte Costituzionale oppure evinto liberamente dal giudice ordinario, che – è vero – che non ha un sindacato diffuso sulla costituzionalità, ma che ha il potere di sospendere il giudizio andando ad interpretare la Costituzione, anche se non attraverso una decisione.
CANONI ERMENEUTICI PER CORREZIONE O MANIPOLAZIONE.
Aspetto ancora più problematico è quello dell’interpretazione di una norma data dalla Corte Costituzionale in occasione di una decisione di rigetto. Su questo tema la giurisprudenza è abbastanza concorde e ritiene che con la sua decisione la Corte Costituzionale vincoli il giudice ordinario. Le tesi giuridiche formulate dalla corte Costituzionale sono orientamenti autorevoli, ma non rappresentano una lettura autentica della norma e, quindi, non vincolano il giudice. Anche l’interpretazione della Corte Costituzionale, quando rigetta la questione, non vincola il giudice, che resta libero di ricostruire il contenuto di una norma secondo il proprio apprezzamento. Però, nel caso in cui la sentenza sia una sentenza interpretativa di rigetto, il giudice remittente “può procedere ad una diversa soluzione interpretativa della norma oggetto della decisione con il solo limite di non concludere nel senso scartato dalla Corte Costituzionale” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 16 dicembre 1998 n° 25). Dunque il giudice è sì libero di interpretare, ma non può interpretarla nel modo escluso dalla Corte Costituzionale. Però, quel giudice è solo il giudice remittente, perché per tutti gli altri giudici i principi interpretativi non sono vincolanti. Infatti, nei giudizi diversi, pur essendo un precedente autorevole, questo, da un punto di vista astratto, non è vincolante al di fuori del processo, cioè in altri procedimenti.
“Sebbene la sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale non sia munita di efficacia erga omnes, facendo essa sorgere un vincolo solo nel giudizio a quo, il giudice che, in un diverso giudizio, intenda discostarsi dall’interpretazione proposta dalla sentenza costituzionale, non ha altra alternativa che quella di sollevare ulteriormente la questione di legittimità, non potendo mai assegnare alla formula normativa un significato ritenuto incompatibile con la Costituzione” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 16 dicembre 1998 n° 25). Perciò, il giudice non ha la facoltà di disapplicare, per una pretesa incostituzionalità, una determinata disposizione di legge in base a considerazioni espresse dalla Corte Costituzionale in relazione all’esame di altre norme (Corte di Cassazione, 24 giugno 1981 n° 4412). Attenzione, però, perché non è detto che si stia parlando della stessa norma; può essere che ci sia una sentenza della Corte Costituzionale che dichiara l’incostituzionalità di una norma e che fa una considerazione interpretativa su di una norma diversa, tuttavia richiamandosi ad un principio che potrebbe estendersi anche ad una norma diversa: il giudice non può mettere insieme due norme attraverso questo ragionamento. Questo parere, in realtà, nel periodo dei c.d. pretori di assalto della Pretura di Torino – si veda la sentenza del 2 marzo 1981, pubblicata in Lavoro 80 – non era condiviso da quest’ultima, la quale sosteneva che “a seguito della pronuncia di incostituzionalità di una norma di legge, la normativa residua che disciplina la materia deve essere sottoposta come tutte le norme di legge ad un’interpretazione che ne adegui il contenuto ai precetti costituzionali. A tal fine il giudice può ricorrere anche alle motivazione della sentenza della Corte Costituzionale che ha pronunciato l’illegittimità della norma ”. Quindi, secondo i c.d. pretori d’assalto, il giudice poteva anche discostarsi ed andare contro l’interpretazione letterale ed adeguare direttamente la norma alla Costituzione, evitando una dichiarazione di incostituzionalità della norma, parafrasando un canone ermeneutico costituzionalistico attraverso un’interpretazione manipolativa di rigetto della questione di costituzionalità ed accogliendo non più un canone ermeneutico di costituzionalizzazione per deviazione, che presuppone una incertezza interpretativa, ma per correzione o per manipolazione.
CRITERIO “DI SALVEZZA”. UN ORIENTAMENTO PIÙ RISTRETTO DEL PERCORSO DOTTRINARIO NEL CAMPO NORMATIVO.
Aprendo le porte al tema dell’interpretazione sulle leggi sull’interpretazione si affronta subito il tema principale dei rapporti tra le due parti dell’art. 12 preleggi.
Il primo orientamento indicato è quello di ritenere fondamentale il canone dell’art. 12 preleggi, per il quale la norma va interpretata innanzitutto e principalmente dal punto di vista letterale, non potendosi al testo attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse: sempre che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contrastante interpretazione, in tal caso si deve ricorrere al criterio logico, al fine di individuare attraverso una congrua valutazione del fondamento della norma, la precisa intenzione del legislatore, avendo cura, però, di individuarla quale risulta dal singolo testo che è oggetto di esame, e non già in via subordinata e complementare quale può genericamente desumersi dalle finalità ispiratrici di un più ampio complesso normativo in cui quel testo, insieme con altri ma distintamente da essi, è inserito (così la Corte di Cassazione, 16 ottobre 1975 n° 3359). Dunque, secondo la Suprema Corte l’interprete deve leggere il testo della norma e seguirne la lettera e basta, non potendo assolutamente prescindere da questo; se, però, il testo della norma non è così chiaro ed univoco, allora si può ricorrere al secondo criterio dell’intenzione del legislatore, che è sussidiario, è una sorta di “criterio di salvezza”.
L’intenzione del legislatore costituisce, pertanto, il criterio logico. Essa consiste nell’individuare qual è il fondamento di quel testo, ma non nel mettere quel testo nell’insieme di norme che disciplinano quel settore o quella materia, non nell’andare a vedere la finalità, la ratio complessiva di quella disciplina in modo tale da trovare l’intenzione contenuta in quel testo, cioè la ratio legis, attraverso altri testi.
Bisogna, invece, fermarsi a quel testo e domandarsi quale sia lo scopo di quel testo e basta: qui siamo già nell’interpretazione logica, che rifiuta il riferimento al più ampio complesso normativo e che non deve contrastare con la lettera, dovendosi inserire in quegli spazi lasciati incerti dalla lettera. Se la lettera non lascia degli spazi incerti, allora non si può ricorrere alla interpretazione logica. Quindi, secondo questo primo orientamento il principale canone di ermeneutica giuridica è la lettera del testo normativo, mentre i criteri ermeneutici logici, sistematici, incentrati sulla mens legis, sono alternativi alla interpretazione letterale, subordinati alla ponderazione semantica della lex. Pertanto, l’intenzione del legislatore sarebbe quella espressa nel medesimo contesto dispositivo, mentre gli altri criteri ermeneutici utilizzabili sono possibili solo quando c’è ambiguità nel dettato normativo. Quando l’interpretazione letterale di una norma è sufficiente, è pacifica, chiara ed univoca, non si deve ricorrere all’interpretazione logica, specie se attraverso questa si tenda a modificare la volontà di legge chiaramente espressa. In merito c’è una famosa sentenza della Cassazione, del 24 giugno 1958 n° 2243, che parla di lettera della norma e però attribuisce alla lettera un’importanza normativa, in quanto afferma che, “poiché le norme costituiscono regole di un sistema a struttura logica, deve darsi alle parole il significato accolto dal sistema, a meno che esso non sia in contrasto con il contenuto sostanziale della singola disposizione”. “L’interprete deve applicare la legge al caso concreto tutte le volte in cui ricorrono i presupposti oggettivi, senza darsi carico di controllare se nel caso concreto sottoposto al suo esame sussistono anche quei motivi che hanno indotto il legislatore ad adottare una determinata regolamentazione” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 gennaio 1972 n° 3): dunque, l’interprete non deve andare a vedere lo spirito della norma, deve solo guardare che cosa dice, per cui, se nel caso specifico l’applicazione risulta ingiusta, deve comunque applicare il summus ius summa iniuria.
PREVALENZA NELL’INTENZIONE IN CASO DI CONTRASTO COI PRINCIPI DELLA NORMA.
Ma allora, qual è il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse? Come si applica questo principio?
Una sentenza della Corte di Cassazione del 19 gennaio 1989 n° 253 doveva risolvere il problema di quale fosse il significato letterale della espressione “imprese industriali e commerciali”, di cui l’art. 35 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori): “adoperando detta espressione nel suo significato tecnico-giuridico si limita l’applicazione dell’art. 18 della legge 300/1970 (articolo sul licenziamento senza giusta causa)”. Ed allora quali sono queste “imprese industriali e commerciali” alle quali si può applicare questo divieto di licenziamento senza giusta causa?
Tra le imprese industriali e commerciali ci sono anche le scuole private? Al riguardo, la Suprema Corte ha affermato che “l’attività di insegnamento, anche se implicante l’uso di beni strumentali ed esercitata a fronte di contribuzioni pubbliche e dirette private, non è riconducibile ad alcuna delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., le quali, come reso manifesto dall’interpretazione di tale norma alla luce anche dei lavori preparatori e dei principi dello ius gentium, quale riconosciuto dall’art. 10 Cost., si caratterizzano tutte per la loro attitudine a soddisfare bisogni concreti, intrinsecamente diversi da quello dell’istruzione”: dunque, le scuole private non sono imprese industriali e commerciali sulla base dello ius gentium e dell’interpretazione dell’art. 2195 c.c..
Un altro esempio è quello di riproduzione audio-visiva. C’era un consigliere comunale che, sulla base del regolamento comunale che vietava nelle sedute del Consiglio comunale la riproduzione audio-visiva, aveva deciso di usare un registratore portatile, con la conseguenza che sono poi state instaurate delle cause giudiziali, nell’ambito delle quali il giudice doveva decidere se nella nozione di riproduzioni audio-visive rientrasse o meno l’uso di un registratore portatile. Il giudice adito ha ritenuto di no sulla base del fatto che “l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca mercè l’esame complessivo del testo della mens legis, specie se attraverso siffatto procedimento possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua e sia palese altresì l’infruttuoso ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario, l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico. Il secondo, quindi, funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo infine assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale soltanto nel caso eccezionale in cui l’effetto giuridico risultante dalla formazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa” (Corte di Cassazione, 6 aprile 2001 n° 5128).
Qui la Suprema Corte ha distinto fra il concetto di conflitto e quello di inadeguatezza: se c’è un conflitto della ratio legis con l’espressione letterale allora si può fare ricorso ad un’integrazione, ad una correzione; ma se, invece, semplicemente la norma è inadatta, così come costruita, ad andare incontro alla ratio legis, allora la correzione non può essere fatta. Dunque, la correzione è ammessa se c’è un conflitto, mentre non è ammessa se c’è semplicemente una difformità.
Spesso si dice che sia importante il titolo di una legge, la rubrica di un articolo, per dare o meno una certa lettura. Secondo la giurisprudenza il titolo di una legge è sì un elemento utile, ma non è parte della legge, così che spesso ha un carattere classificatorio ed è una pura enunciazione teorica, dottrinaria. Non rientra nella funzione del potere legislativo dare delle teorie o delle definizioni.
Invece, il titolo diventa importante e vincolante quando la legge si autoqualifica come interpretativa , perché attraverso la legge è espressa la volontà di dare alla legge un particolare valore o una particolare efficacia. Nel contrasto tra titolo della legge e contenuto della norma, chiaramente prevale il contenuto, anche se il titolo può comunque avere un valore nel caso in cui siano equivoche le disposizioni. Però, parte della giurisprudenza ha anche affermato che l’intestazione della legge costituisce un elemento di grande rilievo nell’interpretazione della portata degli effetti delle disposizione normativa (Corte di Cassazione, 4 gennaio 1978). Questo orientamento è, però, criticato dalla dottrina evolutiva (GIULIANI nel Trattato di RESCIGNO), la quale ha obbiettato che, appellandosi alla rubrica o al titolo, addirittura si violerebbero i divieti dell’art. 15 preleggi, in virtù del quale ci sarebbe un principio generale per il quale rubrica non facit legem. Si è, però, detto che quando vi è un articolo unico allora il titolo diventa importante, così come esso è rilevante quanto rimane sempre lo stesso ma cambiano le espressioni se ci sono delle modifiche legislative. “Non hanno valore legislativo le intitolazioni apposte ai libri, ai capi e quando vi siano i singoli articoli di un vasto testo unico, mentre la volontà del legislatore si rinviene nel testo delle norme” (Commissione Centrale delle Imposte).
Quanto ai lavori preparatori, si è sempre detto che essi hanno un valore sussidiario dell’interpretazione della legge: la volontà che si ricava da essi non si può sovrapporre alla volontà normativa della legge, quale emerge dal significato proprio delle parole e dall’intenzione del legislatore. Dunque, vi è una voluntas legis distinta dalla voluntas legislatoris. Per avere un rilievo, però non obbligante, i lavori preparatori non devono contrastare apertamente col testo legislativo; altrimenti non valgono nulla. In particolari circostanze possono valere quando chiariscono l’origine e la finalità di una norma. Tuttavia, a condizione che non manifestino concetti od intendimenti che non si trovino formalmente espressi come volontà legislativa. I lavori preparatori non possono essere invocati a sostegno di una interpretazione diversa da quella consentita in base ai normali criteri; devono essere idonei a chiarire la portata di una disposizione legislativa e non possono, comunque, sopperire a carenze presunte o reali di una disposizione normativa; hanno un valore orientativo e sussidiario per la ricerca della ratio della legge, la cui volontà oggettiva si sovrappone radicalmente agli intenti ed alle opinioni dei singoli membri del Parlamento; non hanno un valore di per sé determinante, ma sono uno degli elementi da valutare in un contesto più generale; il riferimento ad un elemento extratestuale è utile per trovare degli elementi interpretativi, quando la norma è oscura o si presta ad interpretazioni contrastanti o comunque diverse, ma non può essere consentito per dare un senso diverso da quello fatto palese dal significato delle parole.
In definitiva, in giurisprudenza si è data rilevanza ai lavori preparatori quando la norma si presta ad interpretazioni diverse, per cui si preferisce ad un altro significato.
C’è un riferimento abbastanza costante alla norma oggettiva, vale a dire alla norma estesa.
Le risoluzioni parlamentari in ordine all’interpretazione e all’applicazione di leggi vigenti non hanno valore legislativo, trattandosi di atti costituzionalmente atipici, non previsti dalla Costituzione.
Addirittura in alcune sentenze si è parlato di tradizione giuridica come elemento comprimario di ermeneutica legislativa, soprattutto in materia di lavoro: si veda, ad esempio, la Corte di Cassazione (22 marzo 1976) secondo la quale, “quando il giudice pronuncia secondo equità, allora i termini del giudizio possono essere presi anche dal concetto di giustizia, dalla legge naturale, nei principi costituzionali, nello spirito informatore della contrattazione collettiva, nelle disposizioni del codice civile sul rapporto di lavoro ed, infine, nella tradizione giuridica, quale elemento comprimario di ermeneutica legislativa ai sensi dell’art. 12, comma 1, preleggi”. È stata richiamata altresì la tradizione scientifica nazionale, in quanto compresa nei principi generali dell’ordinamento, richiamati dall’art. 12 preleggi: essa costituisce un criterio comprimario di ermeneutica legislativa.
Ed una nuova legge è rilevante nell’interpretazione di quella anteriore? Qualcuno ha sostenuto che anche lo sviluppo storico degli istituti può essere importante perché in qualche modo esprime i valori costituzionali. Ci si è domandato se, anche quando non ci sono ancora delle leggi ma solo dei progetti di legge, ci sia un segnale da parte dell’ordinamento tale che ci si può agganciare ad essi per dare un’interpretazione di legge attuale. Può una nuova legge, anche se è già approvata ma ancora non entrata in vigore, essere utilizzata per andare a leggere in senso conforme a disposizioni interpretative? Si può dire sì e no, ma io direi di no.
L’applicazione rigorosa di una norma, cioè l’interpretazione equitativa – si è detto – si risolverebbe in un determinato caso in un trattamento ingiusto e vessatorio: “tale interpretazione equitativa di una norma di legge o di un contratto è però possibile soltanto se vi sia nella volontà di interpretare una zona grigia in relazione alla quale il giudice possa discrezionalmente interpretare un principio di equità, non quando, per la precisione e la chiarezza manifestate dalla norma o nel contratto, l’interpretazione equitativa si risolverebbe in violazione della legge o in alterazione dell’equilibrio del negozio quale le parti ebbero a presentarselo”.
Si è anche parlato di principio di congruità: se è vero che addurre dei problemi non è un argomento a favore, “è vero altresì che ove un’interpretazione apparentemente rigorosa si riveli sostanzialmente insoddisfacente, tale considerazione deve indurre l’interprete a riconsiderare il processo logico seguito” (Corte di Cassazione, adunanza plenaria, 18 giugno 1968).
L’interpretazione evolutiva guarda all’evoluzione della vita sociale, con un modo di procedere dialettico: è un concetto – per così dire – evolutivo diverso dall’evoluzionismo biologico e selettivo. Però applicare alla vita sociale l’evoluzionismo vero e proprio può risultare pericoloso. Pertanto, il fare riferimento all’interna carica vitale appare rischioso, per le conseguenze a cui ciò può portare.
L’ERRARE GIURISPRUDENZIALE NEI BOSCHI DELLA LACUNA.
È importante distinguere l’ancoraggio a criteri ermeneutici giuridici dall’ancoraggio a criteri filosofici: quando i giudici si danno delle regole interpretative – nel senso che interpretano le norme che dovrebbero regolare la loro attività ermeneutica – fanno riferimento alla disciplina normativa, occorre sempre stare attenti se fanno riferimento a quella disposizione di legge oppure all’insieme combinato di quelle disposizioni che regolano questo tipo di situazioni. Sembra che la giurisprudenza continui ad ancorare le norme che regolano l’attività interpretativa alla prima parte dell’art. 12 preleggi, mai alle lacune. Il problema dell’attività ermeneutica nel caso dubbio sta proprio dove la legge non ha dato una disciplina, dove c’è un vuoto di disciplina, ove occorre pertanto andare a muoversi secondo un’attività ermeneutica, ricorrendo ai principi generali dell’ordinamento giuridico.
“Allorquando una mera interpretazione letterale della legge, limitata ad una sola disposizione, non estesa al contesto globale del provvedimento legislativo, non attinge a risultati soddisfacenti, è compito dell’interprete ricercare l’effettiva ratio legis per poter attribuire alla norma il significato e la portata che si vogliono raggiungere”(Corte di Appello di Trento, 29 aprile 1969): se la norma è la combinazione di molte disposizioni, non si può pretendere di trovare in una disposizione la risposta al modo con cui devo disciplinare una certa situazione. Dal particolare non si potrà mai evincere qual è il contesto.
Dalle sentenze citate emerge come spesso ricorrano parole come “criterio integrativo”, “criterio sommatorio”, “criterio subordinato”, “criterio sussidiario”: questi concetti non sono nelle disposizioni di legge, ma sono frutto di una ipotesi di lettura dell’interprete, che però non riposa su nessun tipo di disposizione.
Passiamo ora al secondo orientamento cui si è accennato, ove l’intenzione del legislatore è intesa come ratio legis e non come intenzione fisica di chi ha fatto la legge. Anche in giurisprudenza si dice che “quando il significato tecnico-giuridico delle espressioni letterali adoperate per manifestare la volontà legislativa della norma giuridica sia univoco, non si può dare alla norma un significato diverso da quello letterale o logico alla ricerca di una volontà del legislatore non corrispondente a quella resa evidente” (Corte di Cassazione, 28 agosto 1979 n° 4669).
Cosa vuol dire “il significato tecnico-giuridico delle espressioni letterali”? significa che le espressioni letterali hanno, per forza di cose, un significato tecnico-giuridico.
Il criterio logico, sussidiario a quello letterale, è stato anche chiamato criterio teleologico: “l’interpretazione teleologica previsto dall’art. 12, II parte, preleggi può assumere rilievo prevalente rispetto a quella letterale soltanto nel caso eccezionale in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione di legge sia incompatibile con il sistema normativo”. Dunque, quando la lettera è chiara, ma il suo significato è incompatibile col sistema normativo, si può dire che la lettera non ha senso e, a questo punto, può essere utilizzata l’interpretazione logica (teleologica). Quando il significato letterale contraddice il senso della norma, allora bisognerebbe dare priorità all’interpretazione logica nella ricerca dell’esatta volontà legislativa.
La volontà del legislatore sta nell’adeguato esame del fondamento e dello scopo della norma. L’interpretazione sarebbe diversamente imperfetta in contrasto con lo spirito della legge, che va ricavato dai motivi che la determinarono, dallo scopo da raggiungere. Il fatto che la lettera sia chiara a livello grammaticale non è sufficiente, ma è necessario trovare un senso reso palese dal significato proprio delle norme secondo la loro connessione – il che vuol dire che la lettera non può porsi in contrasto con le argomentazioni logiche sull’intenzione del legislatore. In ogni caso si dovrebbe ricercare la ratio oggettivamente immanente.
Ci sono dei continui slittamenti non dichiarati dell’attività interpretativa, ad esempio a proposito dell’art. 12 preleggi, come emerge da tutta una serie di massime.
La volontà del legislatore va ricavata dallo spirito della legge, che a sua volta va ricavata dai motivi: “nella ricerca del significato delle norme giuridiche se l’interprete non assolve il suo compito, se si arresta alla sola espressione letterale delle stesse, deve in ogni caso ricercare la ratio oggettivamente immanente; deve tener presente la funzione delle norme costituzionali in quanto integrative di quelle ordinarie; deve ricercare il fondamento e lo scopo per le leggi speciali; i criteri ermeneutici devono essere ricercati all’interno della relativa disciplina, pur dovendo l’interprete nel contempo adeguarsi ad un canone di coerenza tra le parti di cui si compone l’ordinamento giuridico”. Dunque, l’interprete di deve ancorare ad un canone di coerenza, che è diverso dal canone costituzionale.
L’interprete deve fingere e deve muoversi come se le norme non contenessero antinomia. Postulare una coerenza significa postulare che esista un principio centrale nell’ordinamento che vieti l’incoerenza e che impone all’interprete di eliminare tutto ciò che è incoerente. Ma questo principio non c’è.
In dottrina l’interpretazione deve essere sempre funzionale, cioè “con riferimento alla ragione della legge, poiché la legge impone di procedere all’interpretazione utilizzando l’insieme dei criteri letterale e funzionale, cosicché non sembra esatto dire che l’interprete dovrebbe acquietarsi di fronte al significato letterale del testo, se questo non presenta dubbi interpretativi, posto che anche un testo apparentemente chiaro può in realtà offrire un significato più appropriato alla ragione giustificativa della legge e, quindi, occorre sempre verificare tale ragione. Quindi, fondamento, scopo, mens legis, voluntas legis, motivi informatori ed ispiratori della situazione legislativa, nonché dalla finalità attraverso di essa perseguita, contesto sistematico e senso generale della normativa possono consentire di ritenere che ci sia stato un errore nella manifestazione della volontà”. A questo punto la volontà del legislatore si storicizza e va distinta dalla volontà dei singoli partecipanti, per cui “quando l’espressione della volontà normativa si approssima al momento dell’applicazione o dell’interpretazione della legge e quando il contesto politico, economico e sociale del tempo dell’applicazione della legge sia simile o uguale a quello del tempo in cui la legge fu promulgata l’interprete deve far propria la delineazione generale delle esigenze cui il legislatore ha inteso ovviare con l’emanazione della legge sulla base dei lavori preparatori”.
Non diversamente, in altre occasioni si è precisato che la locuzione “intenzione del legislatore” deve intendersi come volontà oggettiva della norma, voluntas legis, da tenersi distinta dalla volontà dei singoli partecipanti al processo formativo di essa, cioè dalla voluntas legislatoris. Essa “va ricavata dai motivi informatori ed ispiratori della disposizione legislativa, nonché dalla finalità perseguita attraverso di essa”. La mens legis sarebbe ricavabile anche in modo antiletterale da una lettura funzionale della norma.
“Dove la lettura della norma sia ambigua e sia infruttuoso il criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca attraverso l’esame complessivo del testo della mens legis, l’elemento letterale e l’intenzione del legislatore, rivelatisi insufficienti in quanto utilizzati singolarmente acquistano, nel procedimento interpretativo della legge un ruolo paritetico, sicchè mediante la valorizzazione della congiunzione ‘e’ interposta nel comma I dell’art. 12 preleggi fra un criterio interpretativo e l’altro l’intenzione del legislatore funge da criterio comprimario di ermeneutica, atto ad ovviare l’equivocità della formulazione del testo da interpretare ” (Corte di Cassazione, 26 febbraio 1983 n° 1482). È chiaro che con una posizione di questo generale, funzionalista, non ci sarà mai bisogno di scendere alla seconda parte dell’art. 12 preleggi. Nell’orientamento funzionalista c’è il riferimento a criteri extranormativi, con la conseguenza che è molto improbabile che si arrivi a dire che la disciplina è incompleta; per cui, di fatto, si disapplica la seconda parte dell’art. 12 e, quindi, ci si riporta ad una combinazione congiuntiva di una interpretazione letterale neutralizzabile nella sua lettera, con una lettura funzionalistica che è logicamente e razionalmente esaustiva ed è più difficilmente criticabile.
Bisogna avere il coraggio di leggere l’art. 12 ed arrivare anche alla sua seconda parte ed assumersi la responsabilità di dire che esistono dei casi dubbi, la cui risoluzione richiede il ricorso ai principi generali dell’ordinamento, anche nell’ambito penale. Una volta che si ha questo coraggio, non ci si nasconderà dietro l’intenzione del legislatore e lo stesso giudice dovrà argomentare con riferimento ai principi del diritto.
VINCIGUERRA, nel suo manuale, afferma che l’art. 15 “si inserisce in un contesto letterale in cui le figure criminose si intrecciano per la presenza di elementi comuni…” ed aggiunge che “c’è anche un forte interesse pratico a circoscrivere il più possibile il concorso formale eterogeneo. Ciò spiega le dilatazioni a cui il principio enunciato nell’art. 15 c.p. è stato sottoposto dalla dottrina”.
Cosa vuol dire “dilatazioni”? Significa che l’art. 15 c.p. è stato letto ampliandolo, estendendolo. L’art. 15 c.p. concerne esclusivamente il rapporto tra norme penali e non il rapporto tra norme penali e norme di altra natura.
Tutto quanto precede serve per consentire di dare liberamente una lettura non fideistica dei percorsi argomentativi ermeneutici anche della Corte di Cassazione (e dei giudici di merito).
Un pezzo della c.d. norma estesa è proprio la norma che impone al giudice di decidere.