DISPENSE AD USO ESCLUSIVO DEGLI STUDENTI
Università degli studi di torino e del piemonte orientale
facoltà di giurisprudenza-scuola di specializzazione per le frofessioni legali
“Bruno Caccia e Fulvio Croce”
massimo C. Capirossi
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MATERIALI DI STUDIO PRELIMINARI ALLA LEZIONE SU
“DISCRASIE TRA DOTTRINA E GIURISPRUDENZA NEL DIRITTO PENALE”
UN NUOVO MOMENTO DI DISCRASIA FRA I PARADIGMI DOTTRINALI E GIURISPRUDENZIALI DI DIRITTO PENALE (DIRITTO PENALE IN EUROPA E ORIZZONTE DI MUTAMENTO DEI PARADIGMI DOGMATICI DOTTRINARI E GIURISPRUDENZIALI).
Sussidiarietà del diritto penale nazionale e comunitario
La questione della titolarità in capo alle Comunità Europee del potere sanzionatorio in materia penale (*) (**).
Vorrei tratteggiare in modo molto generale alcuni aspetti che nella cultura giuridica classica, nella cultura dogmatica, sembrano essere elementi di frizione tra regole che a tratti si danno per acquisite, per scontate e che a volte presentano e prospettano profili quasi di antinomia tra di loro e che, quindi, sono foriere, in quanto tali, di problemi. Per i professionisti, di qualsiasi estrazione si tratti, i problemi costituiscono pane quotidiano e, quindi, vedere, partendo da un tema così ampio e generale, che esistono dei problemi, può essere utile anche alla vita professionale di tutti i giorni.
Vedere un problema significa poi eventualmente prospettarlo con riferimento ad una situazione specifica davanti al giudice, o quanto meno dimostrare al giudice che il problema non sussiste. Dipende chiaramente dalla posizione di chi (avvocato, pubblico ministero, funzionario) si investe in questo compito.
Vi darò l’impressione di essere molto generico, molto generale e a volto poco chiaro, ma questo dipende dal problema che ci siamo affidati.
Cercherò anche di fare qualche considerazione di tipo generale, di tipo teorico. Se avremo tempo magari mi avvarrò di qualche schemino alla lavagna, credo con non buoni risultati dal punto di vista grafico o grafologico, ma in ogni modo questo potrebbe servire – magari approfitterò per anticipare qualche schizzo nella pausa caffé – per vedere come in realtà esistono già oggi delle indicazioni abbastanza precise nel senso che sia ormai dato di fatto, legge data, diritto dato, quello di una necessità per il giurista – sia teorico che professionista – di riarticolare una teoria delle fonti ed una teoria della norma giuridica e in particolar modo della norma penale, senza confondere la fonte con la norma.
Ho fatto questa premessa generica per dire che sostanzialmente, se avessero ragione i penalisti, non ci sarebbe ragione di fare questo tipo di lezione, perché i penalisti – partendo da una nozione, che vedremo, di ‘diritto penale’ e di ‘norma penale’ – ritengono che le Comunità Europee oggi non abbiano competenza, potestà, in materia penale.[1]
A questa conclusione chiaramente i penalisti pervengono muovendo da una nozione di diritto penale, di competenza in materia penale, di giurisdizione in materia penale, di “distinzione fra fonte, principio di legalità, principio di sovranità, norma” di un certo tipo e partendo da questi dati – che vengono dati per scontati – in modo consequenziale ritengono che non sussista competenza, fonte, potestà, principio di legalità che siano in qualche modo governabili a livello comunitario. Questo lo dico in modo abbastanza chiaro in quanto nel contesto della dottrina penalistica (ma non mi piace usare il termine ‘dottrina’, per cui direi della ‘cultura nazionale’ e non solo) non si ritiene che sussista un problema di questo genere[2].
Esistono delle voci affermative isolatissime, forse – direi – c’è solo una voce di Riondato (che è professore qui a Padova) che invece ritiene – partendo tuttavia per un verso da considerazioni di carattere generale, cui perviene attraverso uno slittamento della nozione di competenza penale e di norma penale, per altro verso muovendo da una lettura di alcune norme contenute nei trattati europei che darebbero sostanzialmente, dal punto di vista formale, esegetico, una legittimità alla risposta positiva alla domanda se sussista una potestà penale dall’angolazione del diritto comunitario. Il concetto di “materia penale” lo vedremo meglio dopo.
Un’altra cosa che voglio dire, avendo malgré moi frequentato un pochino alcuni “circhi giuridici itineranti” per l’Europa, è che, in realtà, dalle discussioni che sono abbastanza ricorrenti, a partire dal 1992 fra i giuristi europei, fra quei giuristi di cultura tendenzialmente penalistica che si occupano di questi problemi, in questi convegni internazionali, ormai da tredici anni sostanzialmente, tutte le discussioni sono fatte da un’angolazione futuribile, noi diciamo de jure condendo, in ordine a quelli che possono essere gli strumenti, le basi giuridiche, gli strumenti di carattere teorico, di teoria della politica criminale, quindi la nuova codificazione generale, minima, parziale, di parte generale e di parte speciale, con riferimento a certi beni. Si tratta comunque di considerazioni e di discussioni sicuramente interessanti, ma che non toccano i problemi centrali dei rapporti fra i diritti nazionali fra di loro (soprattutto, direi) ed i rapporti dei diritti nazionali insieme ed, in secondo luogo, il rapporto dei diritti nazionali singolarmente considerati rispetto alle potestà di normare il mondo economico e il mondo sociale, che oggi caratterizza l’esistenza delle istituzioni comunitarie.
Prescinderei in questa chiacchierata – e già questa è una posizione che mi porta, lo vedrete, in una situazione difficile – dal parlare (se non con riferimento ad alcuni problemi di carattere teorico che ci dovranno servire) di problemi di diritto futuro.
Sicuramente questi problemi de jure condendo investono le scelte dei legislatori nazionali (usiamo questa parola ‘legislatori’ perché è più facile usarla), dei legislatori (o del legislatore) comunitari, dei legislatori delle convenzioni internazionali, ma non noi oggi, che dobbiamo invece occuparci di diritto positivo, dobbiamo vedere se esistono dei problemi e come è possibile risolverli. Quindi, soltanto di passaggio, alla fine toccherò un punto che invece è toccato a trecentosessanta gradi, in maniera esclusiva e pervadente, da chi si occupa del problema della potestà penale dell’U.E. Quindi non parlerò del Libro Verde (Green Book), se non per dire sinteticamente che cos’è; non parlerò del Corpus Juris[3]; non parlerò dei delitti dell’Europa (Europadelikten)[4], che è un altro tentativo di codificazione privata, direi ottriata, un progetto di codificazione minima inclusa nei c.d. Europa Delikten, progettata dal Prof. Tiedemann, che era uno dei componenti del gruppo di studio incaricato dalla Commissione Europea di redigere un progetto minimale di codificazione penale, in materia di tutela degli interessi finanziari della Comunità ed altro, che poi si è spezzato, bloccando i lavori dopo la seconda versione di questo progetto (la c.d. versione di Firenze del 2000)[5], ma ci torneremo brevemente dopo.
Ora, a questo punto, la difficoltà di fare questa lezione, se non si parla assolutamente di diritto futuro dell’U.E., è più che evidente.
Parto da lontano, con qualche considerazione di carattere generale, con qualche battuta.
Ma perché i penalisti, cioè i giuristi che si occupano prevalentemente di diritto penale, sono stati gli unici ad occuparsi del problema a livello teorico, o quanto meno a scriverci sopra in modo espresso e poi peraltro, hanno ritenuto di escludere attualmente una potestà in materia penale (ripeto: la parola “materia” non mi convince, ma ci torneremo poi: perché quella di materia “penale” è una nozione molto tecnica utilizzata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha elaborato una nozione di materia penale completamente diversa da quella che caratterizza tendenzialmente la cultura giuridica dei vari Paesi europei e direi che non è assolutamente sovrapponibile, perché diversa dalla nozione assolutamente elastica e ricavata in negativo di diritto penale della Corte di Giustizia Europea)? Perciò, per ora uso l’espressione “materia penale”[6] per arrivare poi a dire che, a mio avviso, non è corretto usarla quando si parla di norma penale comunitaria[7].
Se abbiamo la pazienza di uscire dal fuoco penalistico dato al problema, vediamo che quasi tutti i comunitaristi ritengono che sussista una competenza penale (ad esempio Tesauro in modo abbastanza chiaro). Questo è già un tema che dovrebbe farci riflettere. è chiaro che la cultura del comunitarista è una cultura diversa da quella del penalista, nel senso che è diversa la sensibilità ed è diversa l’angolazione da cui esamina il problema. Devo tuttavia rendere onore ad alcuni penalisti, estremamente attenti ed estremamente raffinati, anche loro professori, ma professori che si caratterizzano per una sensibilità anche professionale rispetto a temi che tradizionalmente vengono avversati dal penalista puro, dal teorico puro, come Donini e Paliero, di estrazioni completamente diverse, che – pur ritenendo allo stato non sussista una competenza, una potestà nel senso di poter normare con delle sanzioni penali in capo all’U.E. – pur non essendo inseribili in scuole di pensiero come la scuola tedesca, che ha sicuramente lavorato molto sui profili di possibile distinzione fra la sanzione amministrativa e la sanzione penale, hanno comunque studiato accuratamente alcuni aspetti caratteristici del diritto comunitario sanzionatorio e quindi hanno una particolare sensibilità in materia comunitaristica. Difatti poi vedremo che, in realtà, il problema della potestà penale è anche il problema della potestà amministrativa e che, in qualche modo, c’è una strana situazione di ritorno e di eco fra questi due ambiti e questi due piani che è stata bene coltivata dalla Corte di Giustizia.
In realtà non abbiamo un’opinione consolidata dei civilisti[8], né di quelli che sono più adusi ad occuparsi di diritto amministrativo in ordine a questo tipo di questione, se sussista appunto questo tipo di potestà da parte della Comunità Europea.
Sempre a livello di considerazioni generali – di cui mi scuso, ma spero poi di riuscire a spiegare il perché affronto da lontano il problema in questa prima fase della chiacchierata – quello che balza agli occhi, per quanto riguarda la cultura penalistica e la cultura comunitaristica è proprio negli atteggiamenti che il giurista ha di fronte al dato giuridico. Uso la parola ‘dato giuridico’ e non ‘legge’ perché anche questa è un’abitudine che forse ha caratterizzato troppo la dottrina penalistica che si è occupata al riguardo.
Se voi parlate con un comunitarista, che sia avvocato, professionista, magistrato (ma è più difficile perché in genere a fare i giudici vanno – a prescindere dai criteri di nomina e di selezione dei magistrati – a far parte delle istituzioni giudiziarie comunitarie non sempre persone che nella vita professionale si sono operativamente occupate di diritto: così non sono sempre magistrati, non sono sempre avvocati, spesso sono dei puri teorici che poi si trovano a fare i giudici a livello comunitario) la differenza culturale balza subito agli occhi. Il comunitarista ha verso le decisioni (della Corte) un atteggiamento culturale assolutamente diverso da quello del giurista classico. Il classico legge il disegno di legge, studia i lavori parlamentari: poi, quando il testo scritto si è staccato dalla fonte che ne ha legittimato l’emanazione, inizia a leggerlo, esaminarlo, osservando il contenuto letterale degli enunciati linguistici che lo caratterizzano, il rapporto tra di loro, il senso ed il significato attribuibile ad ogni parola, lo rapporta con altri sensi, altri significati, formula alcune letture, dà delle spiegazioni, inizia a svolgere un lavoro ermeneutico; e, comunque, da quel momento in poi iniziano le discussioni, le opinioni.
Le sentenze vengono fatte a loro volta muovendo da percorsi interpretativi, vengono impugnate, vengono criticate, vengono riviste; esistono delle oscillazioni giurisprudenziali all’interno delle diverse sezioni (quando dopo anni si arriva alla Cassazione) della Cassazione (all’interno della Cassazione ci sono sei, sette, otto Presidenti di sezione, che a loro volta compongono il Collegio; all’interno di una sezione possono esserci oscillazioni). Esistono delle sentenze che vengono pronunciate in relazione ad un parametro normativo. Qualche volta intervengono le Sezioni Unite, a volte le Sezioni Unite (o le singole) ritornano, ritenendo di articolare diversamente i principi. Qui i soggetti per cui la vicenda è finita o quasi dal punto di vista interpretativo sono le parti e i loro difensori.
Il comunitarista invece si muove in modo assolutamente diverso: legge la sentenza (penso alla Corte di Giustizia, ma ci sono anche le sentenze del Tribunale di primo grado, che – si auspica – possa estendere le proprie competenze anche a piani che oggi sono di esclusiva competenza della Corte di Giustizia), la considera come un dato definitivo e commenta la sentenza per le sue ricadute nel senso che essa, più che essere illuminata è condizionata dal testo normativo (trattati, normazione primaria, normazione derivata, che caratterizzano sostanzialmente l’apparato istituzionale comunitario – torneremo anche al senso che correttamente va dato nel rapporto con i diversi ordinamenti nazionali alla parola “istituzione”). La sentenza del giudice comune, invece, è in qualche modo parametrata e condizionata dal testo normativo che rimane vivo nel senso di essere comunque un criterio di riferimento per i critici e che per gli interpreti è comunque un dato oggettivo, reale, in relazione al quale qualcuno potrà sempre affermare (anche un nuovo giudice) che l’affermazione contenuta nella sentenza è vera o falsa, quindi – direi – l’omologo della realtà nel mondo delle scienze naturali, per quanto riguarda il diritto. Invece, per quanto concerne una decisione della Corte di Giustizia, questo tipo di processo è sostanzialmente rovesciato, perché c’é il contenuto normativo dei trattati, delle disposizioni derivate che viene illuminato, trasformato, chiarito dalla decisione della Corte, che viene data per assodata e non più rivedibile.
Il comunitarista – e a questo punto non solo più il comunitarista – andrà poi a esaminare – e la sua attenzione sarà unicamente concentrata su questo profilo – quelle che sono le ricadute applicative della decisione di principio della Corte sul diritto nazionale e sul diritto interno, anche di rango costituzionale.
Vedete che di fronte ad una sentenza della Corte di Giustizia sostanzialmente ci si trova in una condizione completamente rovesciata: la sentenza della Corte diventa il parametro, ma con una differenza; mentre il parametro costituito dal testo normativo è un parametro scritto, articolato con degli enunciati che hanno un carattere prescrittivo, hanno un carattere generale, si rivolgono attraverso delle formule sintetiche e contratte in modo indifferenziato alla generalità dei consociati e non fanno riferimento ad una situazione particolare di necessità di mettere a raffronto un fatto caratteristico della società civile con una norma, la decisione della Corte si caratterizza per formulare un’enunciazione di principio che viene perfettamente ritagliata sul caso specifico che non ha più quel carattere – pur essendo tendenzialmente un principio logico – di apertura e non costituisce più un testo intorno al quale può ruotare la discussione se una sentenza (come succede per il giudice nazionale) sia corretta o meno rispetto a quel testo. Quindi, c’è una situazione che sicuramente dipende dalla portata giuridica, dall’effetto giuridico istituzionalizzato della sentenza, ma che comunque è significativo nel senso di trasformare completamente la cultura del comunitarista.
Sicuramente non sono stato sufficientemente chiaro, però volevo sottolineare che la Corte di giustizia è una delle istituzioni che caratterizzano l’U.E. e non solo più l’U.E., perché essa ha poi delle competenze che vengono ritagliate ad hoc a livello convenzionale. Vi sono molte importanti convenzioni: mi viene in mente la convenzione PIF del 1995. In materia di tutela degli interessi finanziari degli Stati membri dell’U.E., che è stata integralmente ratificata ed attuata negli ordinamenti interni anche se in maniera diversa, la quale espressamente, anche se non sotto questi profili, prevede una giurisdizione della Corte di Giustizia al riguardo (la Corte di Giustizia si caratterizza per essere una delle istituzioni comunitarie). Le istituzioni comunitarie si caratterizzano per un principio, che abbiamo anticipato nella prima lezione del primo modulo, in base al quale non vale il classico principio di distinzione tripartita tra i poteri.
Siamo abituati a pensare al Parlamento, che ha potestà di normazione anche agli effetti penali (cerco di non usare più “materia penale”) e conosciamo il principio di legalità, da cui discende il principio di tassatività , il principio di tipicità, il principio di irretroattività, tutti principi che troviamo, prima ancora che nella carta costituzionale, prima ancora che nell’art. 25 e nell’art. 27 Cost., nel codice penale, nelle Preleggi (disposizioni sulla legge in generale, di dodici anni dopo rispetto al codice penale). Conosciamo l’esistenza nei Paesi europei – anche quelli che non hanno una carta costituzionale scritta – della giurisdizione, del cosiddetto potere giurisdizionale e conosciamo poi l’esistenza del cd. potere esecutivo, ma non conosciamo bene – anche perché le opinioni sono diverse – come si inserisca il potere politico tra tutti questi poteri.
Nell’ambito delle istituzioni comunitarie non esistono istituzioni che si identifichino con nessuno di questi poteri; non esiste un potere legislativo, distinto da un potere esecutivo, distinto da un potere giudiziario e nessuna istituzione si caratterizza in qualche modo, tutto sommato, per non essere invece munita di queste tre funzioni.
Ora, questo fa sì che (non voglio adesso fare un discorso di dottrina politica, che non è assolutamente nelle mie capacità, però è importante dire questo perché ci si può rendere conto che) la Corte di Giustizia[9] mischi i tre ambiti, anche se la griglia della c.d. tripartizione dei poteri non è sovrapponibile ai poteri della Corte di Giustizia:
- sostanzialmente una portata generale ed astratta di molte delle proprie decisioni – pensate alle decisioni sulle questioni interpretative della norma comunitaria, che hanno una portata generalizzata e si caratterizzano per un effetto erga omnes e per il futuro; addirittura hanno un qualcosa di estremamente analogo, anche se non assimilabile sotto altro profilo, al potere che caratterizza le Corti Costituzionali, che sono dei giudici negativi, nel senso che hanno un parametro negativo che è quello di alcuni divieti, limiti che sono contenuti nelle Carte costituzionali verso il legislatore, il quale se eccede da questi limiti – è un postulato, poi non è esattamente così – se viola dei divieti, se finisce nella rete della Carta costituzionale, questa interviene e espunge, sin dall’inizio, ma con dei temperamenti che sono caratteristici dei diversi ordinamenti, le leggi che sono uscite dal potere che invece era attribuito, seppure in modo negativo, al legislatore;
- la Corte di Giustizia emana delle decisioni che hanno un effetto – non sempre, a meno che la stessa Corte non ponga dei temperamenti che a lei sono consentiti in ordine anche alla portata delle proprie decisioni sui Trattati, attraverso la sua interpretazione degli stessi – di fare venire meno delle norme primarie dei Trattati o secondarie sin dal loro inizio. Chiaramente è difficile (non potrebbe farlo) che la Corte intervenga nel senso di cassare sin dalla sua nascita una disposizione che è contenuta in un trattato, ma sicuramente attraverso una sua lettura essa può in modo definitivo modificarne la portata;
- un’altra considerazione che balza agli occhi al comunitarista è la seguente: le sentenze della Corte sono sentenze definitive. Questa è un’altra cosa che sfugge normalmente al penalista che affronti l’argomento che stiamo trattando. Non ho mai visto una contraddizione aperta tra le sentenze della Corte di Giustizia. Ho visto degli slittamenti, dei superamenti. Ma chiaramente sto parlando a livello molto generale; poi, è chiaro che il ruolo del comunitarista è quello sicuramente di appoggiarsi a dei precedenti, cosa che invece non caratterizza il giurista classico, il giurista di diritto comune. Questo fa sicuramente riferimento al precedente, ma lo fa in seconda battuta, cioè se esiste poi una soluzione chiara, conveniente, già data, ma il fuoco non è questo. Ora sicuramente questa tendenza alla non contraddizione non è tanto la conseguenza del fatto che la Corte di Giustizia cerca di adeguarsi per non far fare brutta figura ai propri precedenti enunciati, né credo che sia spiegabile unicamente con il fatto dell’alta qualità dei suoi componenti, il che è indiscusso. Però, è altrettanto vero che in linea tendenziale, chi viene chiamato a far parte della Corte di Giustizia è una persona che comunque viene espressa da una categoria professionale di buon livello. Non credo che la nostra Cassazione o la Corte Costituzionale sia composta da magistrati che non sono all’altezza.
A questo punto viene quindi da chiedersi come mai questa tendenza, non tanto a riferirsi ai propri precedenti quanto a non contraddirsi, caratterizzi la Corte di Giustizia.
Probabilmente la Corte, procedendo per affermazioni di principio di carattere progressivo che dipendono da casi specifici e da situazioni reali, via via va a riempire uno spazio che astrattamente è aperto, ritagliando, scolpendo il diritto comunitario nazionale, un pochino come teorizzava Michelangelo in negativo, conforme al diritto sempre di più e con piccole scalpellate. Articola sempre in una direzione di progressiva affermazione della giustiziabilità a livello comunitario delle scelte giudiziali dei giudici dei Paesi membri e delle scelte politico-normative dei legislatori, ponendo ad essi in modo progressivo, con una serie di paletti che si articolano sempre di più, dei vincoli e dei limiti di carattere legislativo. Più la Corte interviene, più precisi sono i limiti ed i vincoli che derivano al legislatore civile (pensate alla materia della concorrenza, regolamenti sulla concorrenza, commerciale), con riferimento ad ambiti che non sono così precisi, non sono elencati in modo tassativo, come di competenza e di attribuzione specifica dell’UE oggi; mentre più facile è individuare le situazioni, le materie in cui continua ad esistere una competenza concorrente fra i vari Paesi e l’U.E.. Quindi, io ho visto questa tendenza (ma so che non é solo una mia opinione) particolare del comunitarista a dare come dato indiscusso ed estremamente interessante i pronunciati di principio della Corte di Giustizia.
Ora, un’altra caratteristica dei penalisti è quello di testualizzare il proprio ragionamento. Essi si muovono di fronte alla domanda se sussista o meno una potestà penale dell’U.E. esattamente come si muovono nella vita quotidiana quando debbono dare una lettura di una norma incriminatrice contenuta nel codice penale; si avvicinano alla disposizione, ne esaminano il carattere testuale, il significato delle parole, nel loro linguaggio, seguendo il linguaggio originario ed eventualmente ne danno una lettura di carattere sistematico. Adottano lo stesso atteggiamento quando esaminano quelle che potrebbero essere delle disposizioni che sono contenute nei trattati che caratterizzano l’U.E. e quindi dicono: “Quella norma mi sembra poter prevedere una competenza penale o amministrativa dell’U.E.”.
Una considerazione che non trovo nelle discussioni che si fanno in materia (segnalerò poi alcuni lavori importanti) sull’ambito in cui può profilarsi un problema di interferenza fra una normazione di rango comunitario e una normazione statale o statuale. Se pensiamo al primo, vediamo che per ragioni storiche per lo più si è in un ambito che, da un’angolazione nazionalistica, secondo una cultura penalistica, è extrapenale. Di tutto e di più potevano occuparsi le C.E.E., ma non di beni che tradizionalmente erano considerati come appartenenti al diritto penale classico. Altri erano gli scopi per cui le comunità erano nate. Quindi il nostro settore, il settore comunitario, è un settore extrapenale.
La norma penale, questa è la domanda, che carattere ha ?
Adesso non voglio scomodare le solite diatribe se abbia una natura enciclopedica, un carattere sanzionatorio, rispetto a degli illeciti che sono già previsti come tali nell’ordinamento, né se il diritto penale si caratterizza per essere un diritto frazionato.
Sicuramente, al di là del diritto criminale classico (omicidio, lesioni…), la norma penale ha un carattere estremamente selettivo, frazionato ed il rapporto, la calibratura, fra una scelta di incriminazione con una sanzione criminale, penale non è stato approfondito (tenete conto che a livello europeo si parla di diritto ‘criminale’, è difficile che si parli di diritto ‘penale’. Si parla di diritto penale quando si dice “sanzionatorio, afflittivo, punitivo”). In generale, la scelta di optare a livello nazionale per una norma che abbia una sanzione criminale è una scelta che si giustifica in termini storici, per quanto riguarda il diritto criminale, ma oggi spesso è una scelta casuale. Si ritiene di addebitare una sanzione penale, che ha una dose di afflittività notevole, quando si ritiene che soltanto attraverso la sanzione penale si possa ingenerare un effetto di prevenzione generale, se non speciale, molto efficace e quindi si possa sostanzialmente pervenire alla tutela, attraverso il divieto, di beni importanti.
Ma sarebbe interessante – e ci torneremo successivamente – esaminare quale sia il rapporto tra quelle sanzioni criminali che per la prima volta tutelano certe situazioni giuridiche o di fatto o aspettative meritevoli di una certa tutela e quelle sanzioni penali che si aggiungono a dare una ulteriore tutela già prevista nel diritto interno. Questo è un problema delicato, che tocca poi di rimbalzo i cardini del diritto sanzionatorio comunitario, i principi di sussidiarietà, di proporzionalità del diritto comunitario rispetto alle competenze nazionali.
Oggi, infatti, si sposta il fuoco del diritto criminale dal diritto nazionale all’ambito comunitario, perché solo oggi si discute di fenomeni criminali che sono riconducibili in qualche modo al diritto criminale ma che hanno una portata extraterritoriale (riciclaggio, truffa, ecc.).
Ora dicevo che la norma penale nel contesto nazionale ha carattere selettivo, perché o interviene da sola per proteggere una certa situazione giuridica oppure interviene successivamente all’intervento di norma che ha un carattere extrapenale, appoggiandosi ad essa per l’individuazione di quelle che sono le condotte vietate attraverso gli elementi extrapenali od i concetti di antigiuridicità speciale o altre connotazioni che fanno sì che essa, a livello di prescrizioni e di modalità di condotta vietata, si arricchisca ed abbia senso soltanto grazie a delle iniezioni giuridiche che avvengono a livello extrapenale, con norme amministrative, con norme civilistiche, di carattere commerciale, o di provenienza comunitaria.
Il principio della sussidiarietà dell’intervento penale rispetto ad altre forme di interventi, che caratterizza invece il diritto comunitario rispetto al diritto nazionale a livello di affermazione di principi, non è mai stato codificato a livello nazionale.
Solo oggi che è stata elaborata una cultura delle sussidiarietà e della (vedremo poi con riferimento al Trattato che cosa intendiamo con questi principi, anche se sono già stati introdotti nelle precedenti lezioni) proporzionalità, si affronta il problema di diritto interno se il diritto penale sia conforme a questo canone logico e, secondo alcuni anche costituzionalizzato, che sarebbe quello dell’extrema ratio e della c.d. sussidiarietà e della proporzionalità – se la sanzione minacciata abbia un carattere afflittivo che in qualche modo venga giustificato dall’importanza del bene (io preferisco parlare di situazione giuridica tutelata, anziché di bene, perché con la teoria del bene rischiamo di andare fuori e sono assolutamente critico, ma non voglio esprimermi verso alcuni lavori che sono stati fatti in ambito comunitario da certa dottrina penalistica comunitaria che ha trapiantato la teoria del bene tutelato di matrice penalistica all’ambito della tutela sanzionatoria comunitaria. Ci torneremo quando faremo un breve riferimento al Corpus Juris).
L’idea che si possa ricorrere alla sanzione penale soltanto quando essa è inevitabile ed assolutamente indispensabile perché il semplice ricorso di una sanzione ad una previsione di ordine pubblico in materia civile o commerciale, o di una previsione amministrativa o tributaria non è sufficiente, utile, funzionale allo scopo di tutelare una certa situazione giuridica, privata o pubblica che sia, è un’idea relativamente nuova. è vero che esiste un percorso attento della nostra dottrina costituzionalistica o della stessa Corte Costituzionale, che è intervenuta a più riprese sindacando alcune scelte del legislatore, ma é anche vero che le Corti Costituzionali (quella italiana, quella tedesca e quella spagnola) sono state sempre estremamente restie ad intervenire attraverso un sindacato di razionalità sulle scelte di opzione per un tipo di sanzione piuttosto che un’altra fatta dal legislatore, ritenendo che la questione semmai avrebbe dovuto porsi con riferimento non al principio di sussidiarietà quanto ad un’effettiva lesione di alcuni principi fondamentali nell’ordinamento costituzionale.
Ora, dicevo, la norma penale – se pensiamo alla nostra legislazione, ma lo stesso vale per la legislazione tedesca o francese – non si caratterizza per essere tendenzialmente sussidiaria; non esistono dei paletti contenuti nell’ordinamento giuridico nazionale che definiscono quale deve essere il rapporto fra sanzioni di diversa matrice (civili, amministrative e penali), non stabiliscono delle regole di un loro eventuale assorbimento e sul loro eventuale cumulo. Siamo molto in difficoltà, anche dopo una bella legge quale quella sulla depenalizzazione o sull’illecito amministrativo (Legge 689/1981), a verificare quando norme ad esempio penali ed amministrative tocchino gli stessi fatti, invadano lo stesso campo e si pongano fra loro in un rapporto di concorso apparente; l’opzione per la specialità, il criterio di specialità (è principio che conosciamo noi, ma ad esempio nei Paesi europei non esiste. Non ho bisogno di citare Prosdocimi che ha chiarito molto bene già dieci anni fa che non vi è una sovrapponibilità tra situazioni incriminatici contenute in norme diverse nel caso in cui queste norme invadono in tutto od in parte lo stesso ambito di tutela; vale a dire prevedono la difesa di situazioni giuridiche che in qualche modo sono sovrapponibili tra di loro e come tali non siano sommabili) è stato da noi adottato e pone tutta una serie di problemi di matrice aristotelica: il rapporto tra genere e specie è problematico. In Francia mi sembra che giungano a risultati analoghi ai nostri senza utilizzare il principio di specialità, ma facendo riferimento ad una teorica del fatto che giustificherebbe chiaramente e presupporrebbe il divieto di prevedere due volte in una disposizione lo stesso fatto, con delle conseguenze giuridiche sanzionatorie che siano sommabili anche se diverse (ne bis in idem sostanziale in base al quale non possono essere applicate più sanzioni ricollegate a più precetti che vietano la stessa situazione di fatto o situazioni di fatto tra di loro omologabili).
Il problema del raffronto tra situazioni normative che sicuramente vanno a toccare gli stessi ambiti del normabile giuridicamente o situazioni giuridiche omologhe, analoghe però, con delle sanzioni di tipologia diversa, non trova nessun tipo di soluzione, nessun tipo di istituto nel nostro ordinamento giuridico.
Tolti i casi rarissimi in cui c’è un’espressa presa di posizione, noi ci troviamo costantemente di fronte dottrina e giurisprudenza a dichiarazioni apodittiche in base alle quali si dice che ogni settore ha una sua autonomia qualificatoria e sanzionatoria e come tale, stante il principio di discontinuità della legge, non si pone un problema di assorbimento tra sanzioni che hanno natura o caratteri diversi. Tenete conto che questa è sicuramente una petizione di principio, o quanto meno è una soluzione che può andare bene in un contesto nazionale, dove l’ordinamento è unificato, dove esso può portare delle multiqualificazioni del medesimo fatto senza prevedere espressamente delle modalità di articolazione in questa situazione complessa di articolazione; ma questo non vale nei rapporti tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento comunitario, dove invece non si pongono problemi di questo tipo, addirittura, vedremo, andandosi ad investire gli istituti – presenti od assenti – che caratterizzano il diritto nazionale, nel senso di modificarli.
L’azione comunitaria è per definizione amministrativa o civile, almeno dalle sue origini. Tutela certe sfere extrapenali che solitamente sono sfere economiche. Però la parola ‘amministrativa’ e ‘civile’ che ho usato dipende senz’altro da un’opzione nominalistica che io ho adottato e che normalmente si adotta perché non troviamo teoricamente delle sanzioni che noi qualificheremmo come ‘penali’. Non le qualificheremo penali perché sono esterne al nostro ordinamento giuridico e se noi riteniamo che solo nel nostro ordinamento giuridico, in base al principio di tipicità, possono essere presenti delle sanzioni penali, per definizione quelle che provengono da fonti non riducibili al nostro ordinamento giuridico non possono chiaramente essere definite penali. Quindi, se adottiamo un criterio di fonte, quello che viene dal diritto comunitario non può essere penale; se adottiamo un criterio formalistico, non lo qualificheremmo comunque mai, anche in questa maniera, come sanzione di carattere penale, perché non proviene da un giudice, secondo un procedimento giurisdizionale.
Effettivamente la Corte di Giustizia non è un giudice che irroga sanzioni penali. Le istituzioni che prevedono delle sanzioni sono, ad esempio, il Consiglio o la Commissione europea, nei limiti in cui si ritiene ammissibile questo, anche se vi sono state discussioni in materia nel senso che il Consiglio non possa delegare alla Commissione la scelta della tipologia e del quantum, del quomodo delle sanzioni amministrative, ma tale competenza dovrebbe riservare a sé medesimo.
Ma proprio questi problemi hanno caratterizzato l’importante sentenza della Corte di Giustizia del 1990 in una causa contro la Germania (che sosteneva che da una parte la Commissione non era competente a precedere certe sanzioni, che avevano carattere penale perché si caratterizzavano per una particolare afflittività, perché avevano carattere stigmatizzante). La Corte non era intervenuta a definire, pur dicendo che in realtà non si trattava in quel caso di sanzione penale, senza definire la sanzione penale, cosa che invece ci si aspettava che facesse.
L’ambito delle attribuzioni dell’U.E. è sicuramente, istituzionalmente, non storicamente, destinato alla tutela dei beni della vita che in qualche modo si possono ricondurre al diritto penale classico, per cui – direi – un profilo di interferenza tra potestà penale ipotetica ed astratta dell’U.E. con la potestà penale classica non si è posto. Si pone oggi in materia dei cd. beni economici. Perciò l’ambito delle funzioni che sono tipiche del diritto penale tradizionale nel contesto comunitario sono pochissime. La Corte di Giustizia ha elaborato però, partendo dai profili che caratterizzano le sanzioni amministrative, dei principi che svolgono una funzione di cuneo rispetto ai principi generali penalistici, che invece caratterizzano i diritti nazionali. Si è creato un fenomeno curioso: attraverso delle potestà in materia economica che sono state in via progressiva sempre più esercitate dalle istituzioni comunitarie, attraverso regolamenti e, in veste minore, delle direttive, si è verificata la situazione per cui spesso la Corte, nell’esaminare profili vuoi in via interpretativa delle norme comunitarie vuoi in caso di procedimenti per infrazione, per situazioni di contrasto tra alcune disposizione derivate delle istituzioni comunitarie con delle situazioni giuridiche soggettive o diritti soggettivi dei privati, ha elaborato nell’ambito delle sanzioni amministrative dei principi caratteristici del diritto sanzionatorio che via via sono andati ad incidere su principi, direi, del diritto nazionale sanzionatorio, che tendenzialmente ne hanno portato una modificazione. Brevemente, vedremo in materia di sanzioni amministrative quali sono questi principi.
Così, il diritto criminale oggi caratteristico dei vari Paesi ha subito a livello di principi alcune modifiche anche sotto il profilo della parte generale dei principi generali.
Ho fatto questo discorso molto generale perché mi premeva sottolineare che ci troviamo di fronte, quando guardiamo all’insieme dei trattati ed alle disposizioni di legge comunitaria derivate o comunque di atti equiparabili come forza e valore alle leggi, ad una situazione molto diversa rispetto a quella che siamo abituati a trovare quando guardiamo al diritto nazionale nel suo rapporto con il diritto costituzionale. Io non condivido – come ho già detto alla tavola rotonda in materia di fonti alla fine del primo modulo – quelle impostazioni in base alle quali la norma nazionale può essere interpretata anche con delle forzature per renderla conforme alla Costituzione. Se la Costituzione italiana e le altre hanno delle parti programmatiche, si tratta di parti politiche, che sono rivolte ai legislatori, al Parlamento; le elezioni politiche esistono proprio perché esiste uno spazio politico dei Parlamenti e, quindi, una libertà che le carte costituzionali danno sotto il profilo programmatico ai legislatori. Quello che più importa, invece, secondo me, è il contenuto negativo delle carte costituzionali, quali sono i divieti che esse pongono al legislatore. Non ritengo quindi che esistano delle norme direttamente prescrittive che in qualche modo attribuiscono diritti e doveri o in via diretta dei poteri o diritti soggettivi ai privati o agli enti pubblici, se non nella parte istituzionale della giurisdizione, dove si prevedono certe autorità importanti (penso alle magistrature superiori o ad altre situazioni). Sicuramente la Costituzione non è un trattato: dalla Costituzione non sono evincibili delle attribuzioni per materia delle istituzioni che a loro volta possono, a livello di normazione derivata, svolgere un’attività di politica attraverso delle norme. Invece i trattati si caratterizzano per questa peculiarità e, quindi, danno delle indicazioni alle istituzioni che a loro volta emanano delle norme. Di conseguenza, il rapporto che c’è tra la Corte di Giustizia ed i trattati o il potere legislativo comunitario ed i trattati non è lo stesso che invece caratterizza il Parlamento nazionale rispetto alle carte costituzionali. Questa è una considerazione molto generale, ma in qualche modo influenza il modo in cui il giurista deve affrontare il tema della potestà penale.
I comunitaristi estremi ritengono che sia prevista, perché non esclusa, per forza di cose, in capo alle istituzioni comunitarie, una potestà di emettere norme penali. Questa attribuzione ci sarebbe nel senso che, essendo attribuite in via esclusiva o concorrente delle competenze per materia alle istituzioni comunitarie (quindi all’U.E. in questo caso) su quelle materie, in maniera esclusiva o concorrente con i poteri legislativi nazionali, l’U.E. può legiferare, ponendo dei divieti e sanzionando, esattamente come succede in ossequio al principio di tipicità e comunque al principio di tassatività anche in materia civile – non è soltanto un principio che caratterizza la materia penale, ma caratterizza anche la materia civile e la materia amministrativa – nell’ambito delle fonti interne. Una fonte è abilitata attraverso delle forme previste dalla legge ad emanare delle norme in certi ambiti, in certe situazioni e le norme, si sa, si caratterizzano tendenzialmente con delle previsioni, per lo più a carattere negativo, perché la legge ha e deve avere contenuto generale ed astratto, (e) prevedendo delle conseguenze a delle violazioni. Ne deriva – secondo i comunitaristi estremi – che dove le istituzioni europee hanno il potere di intervenire con degli atti aventi forza normativa, in quanto atti aventi forza normativa, sono abilitati ad esprimere sanzioni.
Secondo i penalisti, invece, questa situazione non sarebbe ammissibile, perché i penalisti, o almeno coloro che si oppongono alla potestà penale dell’U.E. (penso a Grasso, a Bernardi, Picotti, o a Manacorda), ritengono che non sia ammessa una potestà penale, in quanto la medesima sarebbe abilitata a prevedere le condotte vietate, ma non a prevedere le sanzioni. è curioso.
In due bellissimi lavori, Riondato[10] e Bernardi[11] hanno lavorato nel senso di dire: sì, indirettamente l’U.E. incide sulla norma penale perché svolge un ruolo di eliminazione, abrogazione (lo ha accennato la volta scorsa Ambrosetti[12]), di integrazione del precetto penale. Se la norma comunitaria contrasta con la norma nazionale e se la norma nazionale integra il precetto penale (in materia economica, per lo più, le norme hanno questa struttura, non sono sempre norme in bianco, però in parte rinviano per la previsione delle condotte vietate a dei concetti che stanno al di fuori della stessa norma che si chiama penale perché viene inserita in un codice penale o nella legge penale speciale), come tali vanno a modificare costantemente e ad integrare il precetto. Questo lo possono legittimamente fare, ma non possono prevedere una sanzione penale, che è caratteristica del legislatore nazionale. Una volta si diceva perché esiste il deficit democratico, perché le istituzioni comunitarie non hanno fondamento democratico; oggi il problema è superato attraverso la possibilità della codecisione; il problema sostanzialmente sarebbe risolto da un punto di vista politico.
Ma non è questo che interessa a noi; a noi interessa sapere che la Corte non è un giudice penale, che a livello comunitario non esistono giudici penali. A noi interessa sapere che mai attraverso norme di legislazione di rango primario, comunitario, è stata prevista una sanzione a presidio di un precetto che prevede la reclusione. Noi sappiamo che la Commissione od il Consiglio prevedono attraverso regolamenti (quando non demandano la medesima previsione alle autorità nazionali) delle sanzioni amministrative e sappiamo anche che non esiste una magistratura, o una giustiziabilità, nel senso che queste sanzioni amministrative non vengono applicate direttamente da un’autorità amministrativa comunitaria e che non è previsto un giudice, a livello comunitario, che irroghi delle sanzioni amministrative previste nel caso di violazione di certi precetti di rango comunitario. Sicuramente non abbiamo la possibilità di sovrapporre la situazione istituzionale comunitaria rispetto a quella nazionale: sappiamo che questo potere non è stato esercitato o è stato esercitato soltanto nell’ambito delle sanzioni amministrative[13].
Ora, torniamo un attimo alle disposizioni che sono contenute nel Trattato: lo faccio per correttezza rispetto a tutti coloro i quali si sono occupati dell’argomento, anche se non ritengo che il riferimento sia significativo più di tanto.
L’art. 280 del Trattato istitutivo della C.E. nella nuova numerazione costituisce una riformulazione del vecchio art. 209 A) del Trattato di Maastricht così come è stato modificato dal Trattato di Amsterdam con la decisione del Consiglio CE del 2 ottobre 1997, ratificato il 16/06/1998, che ha sostituito e modificato l’articolo: “La Comunità e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari della comunità stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli stati membri”.
A questo punto si è ritenuto da alcuni che l’art. 280 (vedremo poi meglio subito dopo) possa costituire una base giuridica della potestà in materia penale di cui stiamo discutendo. Si sarebbe usciti dal profilo della semplice e pura armonizzazione e si sarebbe giunti sostanzialmente a livello di trattato alla convinzione che vi sarebbe stato un obbligo condiviso per tutti gli Stati membri di ricorrere in certe materie (frodi lesive degli interessi finanziari della comunità) alla possibilità di adottare delle misure dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli stati membri. Il riferimento alle misure dissuasive ed all’efficacia sarebbe stato una prima impalcatura per radicare una competenza normativa che non si estendesse chiaramente ad un’applicazione giudiziaria e giudiziale delle sanzioni, ma quantomeno che potesse giungere alla previsione di una potestà di sanzioni eventualmente applicabili in altri ambiti.
Art. 280, II comma: ” Gli Stati membri adottano per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari delle comunità le stesse misure che adottano per combattere contro le frodi che ledono i loro interessi finanziari”.
Ora, con il II comma si sarebbe posto un obbligo di parificazione o di assimilazione per gli Stati membri, nel senso che ad essi sarebbe derivato l’obbligo di applicare internamente a tutela di questi beni comunitari (interessi finanziari delle comunità), le stesse condizioni sanzionatorie adottate a tutela dei propri beni (va fatta una precisazione che, probabilmente, è nota: quando si parla di interessi finanziari non bisogna pensare a qualcosa di lontano dall’attività professionale di tutti i giorni – e ciò anche per i professionisti che ritengono di non trattare questioni di diritto comunitario – perché per interessi finanziari delle comunità si intendono cose molto vicine a noi: non solo il mancato pagamento dei dazi doganali – e questo potrebbe interessare il professionista che si occupa di diritto doganale – o l’indebito utilizzo di contributi comunitari – ed anche questo può interessare quelli che si occupano di questa materia – ma un tipico esempio è quello dell’I.V.A., laddove una parte del gettito I.V.A. è di competenza del bilancio comunitario, ragione per cui si tratta di un imposta di origine applicata da tutti gli stati membri che hanno anche la gestione e la responsabilità della riscossione, ma poi una percentuale di questo gettito va a finire nelle casse comunitarie).
Sostanzialmente, con riferimento a beni come il bilancio comunitario ed a tutte quelle fattispecie che sono già sanzionate nei singoli Paesi da anni [(e, quindi, dal 1995 sicuramente con l’approvazione del Regolamento del 1988, di cui parleremo, che disciplina in via generale le sanzioni amministrative afflittive, parapenali e penali, dell’U.E., formulando dei criteri univoci e molto dettagliati sulle c.d. sanzioni sui generis, che poi debbono essere applicate dalle autorità amministrative nazionali e sono opponibili davanti ai giudici ordinari nazionali (quello della legge 689/1981 nel nostro paese, per intenderci)], tutte queste condotte sarebbero già sanzionate a livello amministrativo e sarebbero sanzionate in alcuni Paesi anche con delle norme amministrative interne e ad oggi sono sicuramente in parte sanzionate dalla legislazione nazionale (ci sarà una lezione apposita sulla truffa comunitaria ex artt. 640 bis, 316 bis e ter c.p. e 2 della legge 698/1986, disposizioni (alcune) che precedono la nota Convenzione PIF in materia di tutela degli interessi finanziari, diversamente attuata nei vari Paesi con disposizioni completamente diverse; a livello comunitario si sarebbe ritenuto, con il Trattato di Amsterdam, di effettuare un’espressa previsione – questa può essere una lettura, però diversa da quella che dà ad esempio Picotti sull’art. 280 – dopo una convenzione – che non è diritto comunitario, se non nella misura in cui rimanda o venga espressamente richiamata come parte integrante del diritto comunitario – perché si è prevista questa divisione del Trattato dopo una convenzione che già aveva posto degli obblighi, dopo la sottoscrizione, di attuazione dei vari Paesi. Con l’art. 280 si attribuirebbe, secondo una certa dottrina italiana, all’istituzione comunitaria la possibilità di intervenire sulla materia.
Con il primo comma che ho letto prima, si stabilisce l’obbligo degli Stati di combattere contro le frodi mediante misure, adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive ed efficaci. Se gli Stati membri (II comma: principio di assimilazione) hanno una disciplina, con la medesima devono promuovere a livello normativo interno la tutela di questi interessi finanziari; e, se penale, con una disciplina penale, con sanzioni che quantomeno abbiano lo stesso carattere e che abbiano anche il carattere della proporzionalità, della utilità, dell’efficacia, della dissuasività.
Al III comma si dice: “Gli Stati membri coordinano l’azione diretta a tutelare gli interessi finanziari delle comunità contro la frode.” Qui sembrerebbe che si sia nell’ambito del c.d. Terzo Pilastro, perché si parla di semplice coordinazione dell’azione.
Ma con il IV comma si dice “Il Consiglio deliberando secondo le procedure di cui all’art. 251, previa consultazione della Corte dei Conti, adotta (quindi la Comunità) le misure necessarie nei settori della prevenzione e lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari delle Comunità “ e qui si parla solo di tutela degli interessi finanziari delle Comunità, mentre al I comma, dove si pone l’obbligo agli Stati, si parla anche di altre attività illegali. Quindi, al IV comma, quando si attribuisce, nel Trattato, al Consiglio (organo legislativo), in codecisione (art. 251 Trattato) con il Parlamento europeo, la competenza (la parola ‘misure’ è ampia e tende, secondo la Corte di Giustizia, a significare sia la previsione che la sanzione) e si adottano le misure necessarie per la lotta contro la frode, dove si dice “necessarie” secondo la Corte significa che debbono essere delle misure che possono essere tutte quelle possibili a livello normativo e che debbono essere necessariamente impostate secondo i principi di sussidiarietà (perché potrebbe esservi un’attribuzione in questa materia, ampia) ma che, anche in ossequio al principio di sussidiarietà, possono essere prese se le disposizioni normative interne dei vari Paesi non sono ritenute sufficienti.
“Necessarie” vuol dire anche che debbono avere un tasso di proporzionalità, che siano ossequiose del principio di extrema ratio, ma che possono giungere ad una portata adeguata rispetto agli scopi (questo è il ragionamento che fa la Corte) che debbono essere raggiunti, che consistono nella tutela (divieto) contro la frode che lede gli interessi finanziari della comunità, al fine di pervenire ad una protezione efficace ed equivalente in tutti gli Stati membri. Per efficacia si intende una previsione normativa (che ha carattere generale); soltanto con essa si può attingere il requisito dell’equivalenza.
Poi – ed è questa la difficoltà degli interpreti e della dottrina che ha cercato di trovare una spiegazione a questo articolo – per un verso si prevede la potestà anche di carattere penale, che al IV comma prevede solo la frode e gli interessi finanziari delle Comunità, mentre al I si parla solo di attività illegali.
A questo punto sicuramente la potestà è ritagliata sugli interessi finanziari dell’U.E., che costituirebbero, secondo certa dottrina, beni tipici a carattere sovranazionale secondo alcuni, a carattere ipernazionale secondo altri, a carattere comunitario secondo altri ancora; beni tipici della Comunità, perché rientrerebbero nel patrimonio di questa e come tali sarebbero tutelabili esclusivamente attraverso normazione comunitaria. A questo punto ci sarebbe una attribuzione della relativa materia per appartenenza, per titolarità e quindi un potere di normare in materia in modo completo.
Alcuni hanno cercato di superare la difficoltà prevista nell’ultimo comma. La frase che mette in difficoltà è questa: ”…tali misure non riguardano l’applicazione del diritto penale nazionale o l’amministrazione della giustizia negli Stati membri”.
La traduzione è quella che è. Ci sono sempre problemi di traduzione in ambito comunitario, cosi che, volendo, si possono fare salti mortali e dare prove di capacità esegetica ed ermeneutica. La dottrina prevalente in Italia ritiene che sicuramente questa disposizione significa che non è previsto a livello comunitario un giudice che applica sanzioni penali e che sono i giudici nazionali che debbono applicare queste sanzioni penali; altra dottrina ritiene che la parola sia soltanto quella di “applicazione del diritto penale nazionale“ e che con tale espressione non si intenda previsione di un diritto penale e di norma penale. Questa seconda opinione è sicuramente più convincente. Ma io osserverei che, volendo, si potrebbe dare anche un’ulteriore lettura, anche se queste letture normative dei trattati lasciano il tempo che trovano, perché una corretta esegesi dei poteri di attribuzione va fatta leggendo complessivamente l’ordinamento comunitario nei suoi rapporti con l’ordinamento nazionale, alla luce dei principi che vengono ormai comunemente accolti e che entrano a far parte dell’ordinamento – vedremo poi come – in modo piuttosto chiaro. Dicevo, quindi, che si può dare alla frase una terza lettura: questi poteri attribuiti alle istituzioni comunitarie non toccano le competenze in materia di applicazione della giustizia che hanno i singoli Paesi membri. Anche in alcune pregevolissime decisioni della Corte di Giustizia, si enuncia un principio e si usa questa espressione: “Comunque in questa situazione rimane impregiudicata la possibilità del singolo Paese di emanare una norma penale”, cioè, in qualche modo, si autorizza il singolo Paese, lo Stato, ad emanare norme penali. Vedremo quando. Quindi si potrebbe anche dare questa lettura e dire che questo è un campo completamente diverso; qui la Comunità ha una competenza che non interferisce con la separata competenza che hanno le legislazioni nazionali parlamentari o governative.
In una luce come quella che si è ricordata, la dottrina italiana è quasi concorde nel ritenere che esistano sostanzialmente due piani completamente separati e paralleli, in materia di fonti nazionali e di fonti comunitarie e che quindi la potestà eventualmente penale comunitaria sia una potestà normativa sussidiaria penale non a carattere giurisdizionale o applicativo e che, tuttavia, questa potestà sia esercitatile con le norme di diritto derivato che siano ossequiose del principio di sussidiarietà, nel senso di poter ricorrere a sanzioni di carattere criminale qualora negli ordinamenti interni non si ricorra efficacemente a questo tipo di misure.
Questo tipo di soluzione però non risolve completamente il problema della strumentazione che dovrebbe essere utilizzata con riferimento a questo tipo di base giuridica.
Si è detto molto, in sintesi si può dire, con Grasso[14], che in un lavoro estremamente attento aveva espresso in modo abbastanza chiaro, che non sarebbe corretto ricorrere ad un regolamento, perché questo tipo di lettura testuale dell’art. 280 porrebbe seri problemi in materia di applicazione del diritto penale, avrebbe dei problemi di interferenza con le giurisdizioni nazionali in materia penale. La direttiva non sarebbe adatta perché lascerebbe uno spazio di ampia discrezionalità ai Parlamenti interni, così che l’obiettivo della universalizzazione di questi istituti e quindi della parità di trattamento e della coerenza di disciplina nei vari Paesi non potrebbe essere facilmente raggiunto con il meccanismo della direttiva.
Si era suggerito ad un certo punto (ad esempio De Vero lo aveva sostenuto, anche se assolutamente contrario alla potestà penale) addirittura una modifica del Trattato con l’introduzione di un art. 280 bis che prevedesse espressamente la potestà giurisdizionale penale del giurista nazionale attraverso norme di carattere derivato, la regolamentazione delle competenze e delle ipotesi di reato minimale. Il Corpus Juris è andato in questa direzione, con il progetto che è poi rimasto fermo, nel senso di individuare otto fattispecie incriminatrici poste a tutela di questi interessi finanziari della Comunità con meccanismi di integrazione con il diritto interno, nel senso di prevedere una specie di criterio di specialità che facesse prevalere la disposizione comunitaria e, poi, delle [15]disposizioni di parte generale (è stato definito una specie di microsistema questo ritrovato de jure condendo) che però rinviasse, per tutto quanto non previsto, sia come parte generale, sia come istituti di cautela tra parte generale e parte speciale, al diritto nazionale: prevedendo che se ne occupasse il diritto nazionale individuando poi un apparato procedurale di regole parziali, da integrarsi con il diritto nazionale, e l’istituzione del P.M. europeo[16],[17] che agisca separatamente e parallelamente ai P.M. nazionali, portando però al giudizio con dei criteri molto elastici di scelta del foro davanti al giudice nazionale chi fosse stato colpito da un’imputazione per violazione di queste norme penali di carattere comunitario. Questo è il quadro direi molto sintetico della discussione che si è fatta sino ad oggi sul tema.
In realtà altri autori hanno suggerito altre norme cui fare riferimento, soprattutto muovendo dai poteri sanzionatori in materia di diritto penale amministrativo o amministrativo sanzionatorio, di cui agli artt. 40, 43 e 172 del Trattato per derivare se effettivamente esista un’espressa competenza (Riondato).
Alcune norme che sono state richiamate nella discussione sul punto fino al quale si estenderebbe la potestà dell’U.E. in materia di sanzioni penali sono state: l’art. 229 del Trattato (“I regolamenti adottati congiuntamente dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo in virtù delle disposizioni del presente Trattato possono attribuire alla Corte di Giustizia una competenza giurisdizionale anche di merito per quanto riguarda le sanzioni previste nei regolamenti stessi”). In senso negativo rispetto al potere si è argomentato (così ad esempio De Vero), per quanto riguarda il diritto nazionale, con l’art. 11 Cost. e poi si è fatto riferimento all’art. 308 del Trattato ed, infine, all’art. 203 del Trattato C.E.C.A.. Si tratta comunque sempre di osservazioni che in qualche modo sono la conseguenza di alcune assunzioni di principio che si sono fatte.
Occorre dire che anche le opinioni minoritarie, di chi ritiene che ci sia una espressa legittimazione penale, vengono argomentate da una lettura sempre un po’ estesa di singole disposizioni. Però, il problema è molto più ampio, più vasto ed andrebbe rivisto. Anche gli artt. 40, 43 e 100 del Trattato potrebbero sicuramente, nella misura in cui prevederebbero “un potere anche in materia sanzionatoria della Comunità”, dare indicazioni in tale senso. Infatti l’art. 40 (ora 34) del Trattato statuisce al II comma che “per raggiungere gli obiettivi previsti dall’art. 33 l’organizzazione comune nelle forme indicate può comprendere tutte le misure necessarie al raggiungimento degli obiettivi definiti dall’art. 33 ”; l’ex art. 43 (oggi 37) al IV comma prevede che “su proposta della commissione previa consultazione del Parlamento europeo il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, stabilisce i regolamenti o le direttive oppure prende decisioni senza pregiudizio delle raccomandazioni che potrebbero formulare ”. Si tratta comunque sempre di indicazioni puramente formali e che andrebbero rivisitate.
Fino ad adesso, anche se non si può in un tempo così limitato esaminare tutti i profili dell’incidenza indiretta o diretta delle fonti normative comunitarie sui precetti e sulle sanzioni nazionali, abbiamo avuto l’idea che esistono sicuramente diversi ordini di fonti che operano e che per utilità (come ha fatto molto spesso la Corte Costituzionale italiana) consideriamo distinti [18]gli ordinamenti nazionali e comunitari, per cui si potrebbe parlare di ordinamenti che si integrano e che sono, però, caratterizzati da una pluralità di fonti. Ogni fonte, poi, ha un’incidenza parziale sull’organizzazione normativa dei precetti da cui conseguono le sanzioni di natura penale, teoricamente caratteristiche degli ordinamenti nazionali, mentre la separazione, diciamo lo spezzarsi in due, secondo la classica strutturazione della norma, tra precetto da un lato e sanzione dall’altro, sarebbe un po’ una situazione nuova del panorama teorico, nel senso che ciascuna fonte avrebbe sostanzialmente una portata limitata, cioè non vi sarebbe una potestà di normazione esclusiva[19] sulla fattispecie né per una fonte né per l’altra, né per l’ordine nazionale delle fonti né per l’ordine comunitario delle fonti. Non solo, ma la misura del dosaggio dell’intervento teorico e previsto di una fonte o dall’altra sarebbe eventuale, nel senso che – a mio avviso – non vi sarebbe un’unificazione temporale dell’intervento legislativo: questa sarebbe una delle caratteristiche della convivenza tra questi meccanismi integrati delle fonti.
Un’altra considerazione flash: il modo con cui queste fonti si integrano per andare a trovare una soluzione normativa dipende molto dal modo con cui giustizialmente, cioè grazie agli interventi molto importanti della Corte di Giustizia, sono stati risolti alcuni problemi applicativi della convivenza tra i principi nazionali e comunitari. Vedremo che nel contesto delle sanzioni amministrative, dopo alcuni interventi della Corte di Giustizia, le istituzioni comunitarie hanno previsto un regolamento basato su principi molto articolati, caratteristici proprio delle tradizioni degli ordinamenti penalistici europei, cristallizzati dalla giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’Uomo che ha un effetto qualificatorio vincolante nei singoli Paesi. I suddetti principi, dunque, arrivano dal diritto penale nazionale e attraverso la loro generalizzazione in principi della Corte dei Diritti dell’Uomo (che però non interferisce con la competenza della Corte di Giustizia) sono stati inglobati nel Trattato nella I parte, in quanto già previsti dalla Carta fondamentale dei diritti dell’uomo. Quindi, dalle tradizioni comuni dei vari Paesi questi principi arrivano a livello comunitario e poi vengono riaffermati e rigeneralizzati con la giurisprudenza della Corte di Giustizia e così ritornano nei vari ordinamenti (data la portata universale delle decisioni della Corte di Giustizia) e vanno a interferire e a condizionare tutti gli istituti classici del diritto penale. Chiaramente sono principi che vengono normalmente utilizzati dalla Corte di Giustizia in materia di sanzioni nei settori economici, per cui quel diritto che è tipico dei diritti speciali, cioè quelli economici, dei vari Paesi spinge in tema di responsabilità delle persone giuridiche, in tema di concorso dei terzi coi soggetti legittimati all’erogazione di contributi, nella dimensione processuale (si pensi al diritto al silenzio, che la Corte di Giustizia e la Corte dei diritti dell’uomo hanno riconosciuto in misura diversa: la prima, ad esempio, non l’ha riconosciuto per le persone giuridiche, ma solo per i privati), così che le norme nazionali anche di carattere processuale vengono disapplicate dai giudici nazionali.
Caso eclatante del 2003 è quello portato alla Corte di Giustizia sul ne bis in idem, che ha condotto alla disapplicazione di una parte del nostro codice di procedura penale, che definisce il giudicato, giudicato che per la Corte di Giustizia è anche quello fatto dal Pubblico Ministero con una transazione, con una rinuncia all’azione, in modo tale da poter garantire il divieto di doppia sanzione, cioè il ne bis in idem, in ambito comunitario[20]. [21]
Altro caso rilevante si è avuto in materia di personalità della responsabilità penale: sia la Corte dei diritti dell’uomo sia la Corte di Giustizia hanno ritenuto che esiste un dovere del legislatore nazionale di adottare il principio di colpevolezza pura, quindi o di colpa o di dolo, per la responsabilità personale dei soggetti sia in sede penale che in sede amministrativa. Perciò ci sarebbe l’obbligo del legislatore di prevederla anche quando opera con delle sanzioni penali e, se non la prevede, devono essere disapplicate le norme contrastanti coi principi comunitari enunciati dalla Corte di Giustizia pensando alle tradizioni comuni, i quali principi, però, una volta che vengono recitati nella sentenza, diventano vincolanti e generalizzati. La Corte di Giustizia, ad esempio, ammette in certi casi la responsabilità oggettiva anche in ambito penale, purché sia in qualche modo collegata a dei doveri funzionali alla c.d. teoria del rischio di organizzazione[22] e, quindi, in qualche modo informata ai coefficienti tipici della colpa. Nell’ambito dell’interpretazione della lettura delle norme del d.lgs 231/2000 in materia di responsabilità (penale) amministrativa delle persone giuridiche, anche se i penalisti continuano a qualificare la responsabilità come responsabilità penale, si tratta comunque di una responsabilità amministrativa [23]per colpa.
Tutti questi sono esempi “telegrafici” che finiscono, schermati dalla Corte di Giustizia, negli ordinamenti interni e comportano la costante disapplicazione di tutti quegli istituti di diritto penale che non sono adeguati[24]. Con ciò il diritto penale del contenzioso diventa importante, perché, ad esempio, sia il giudice ordinario penale che civile, competente in materia di opposizione alle sanzioni amministrative comunitarie oppure nazionali, ci deve essere per forza, perché se non c’è le sanzioni vengono comunque annullate secondo le decisioni della Corte di Giustizia o così anche la creazione di un giudice diventa una conditio sine qua non per l’applicazione di una sanzione. Quello che è rilevante sottolineare è che più interviene la Corte di Giustizia più enuncia principi; più intervengono le istituzioni comunitarie più si erode lo spazio di intervento normativo del legislatore nazionale. Se il legislatore nazionale interviene in modo adeguato anche non attraverso la sanzione penale, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, se la sanzione non penale o extrapenale ha i requisiti dell’efficacia, della dissuasività, della proporzionalità e tutti quei requisiti che vengono prescritti dai legislatori nazionali (si veda la c.d. sentenza sul mais greco del 1989, con cui la Corte di Giustizia aveva condannato la Repubblica ellenica ad adeguare sostanzialmente la propria legislazione di tutela per evitare il caso di acquisto di prodotti dalla Jugoslavia, che venivano commercializzati senza pagare i dazi comunitari come prodotti tipici greci) allora essa impedisce al medesimo legislatore nazionale di interferire con la funzione penale, perché questa deve avere il carattere della sussidiarietà, per cui se non è necessaria, se non è extrema ratio, non può intervenire, o viceversa, se è necessaria ci sarebbe il vincolo del legislatore a provvedere a quel certo tipo di sanzione. Dunque, le opzioni di politica legislativa comunitaria tolgono spazio normativo al legislatore nazionale sia in campo civile che amministrativo che penale: dove c’è un esercizio della potestà normativa delle istituzioni comunitarie non c’è più possibilità di esercizio della competenza normativa concorrente del legislatore nazionale[25]. Questa situazione ci porta al c.d. criterio di competenza o di prevalenza, nel senso che il rapporto tra le fonti nazionali e le fonti comunitarie, che viene impostato dalla nostra Corte Costituzionale come un rapporto di parallelelismo o non di interferenza, nel senso che le due rette parallele non si toccherebbero mai e se si toccassero ci sarebbe la c.d. teoria dei controlimiti[26]. Qualora ci fossero interferenze sui diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione (che non dovrebbero esserci perché comunque le istituzioni comunitarie hanno recepito i diritti fondamentali che tendenzialmente coincidono con quelli costituzionali), per legge queste interferenze non dovrebbero esserci. In ogni caso, nella misura in cui non ci fosse un contrasto, cioè un’interferenza, tra queste due rette parallele, ma il progressivo estendersi, ampliarsi, gonfiarsi dell’ambito normativo comunitario andasse a sovrapporsi al diritto nazionale, lo attraverserebbe – secondo la dottrina costituzionalistica italiana – senza esserne impedita e questo continuerebbe a rimanere in vigore e valido, ma non sarebbe più efficace. Da qui la teoria della non applicazione, perché non si può dire né abrogato né annullato, perché questo esiste, sopravvive; sarebbe diritto valido ma non applicabile dal giudice nazionale, che è giudice sia del diritto nazionale sia del diritto comunitario (che peraltro, come prevede la stessa Costituzione, fa parte del nostro ordinamento in quanto abbiamo aderito ad esso col Trattato). Dunque secondo il paradigma nazionalistico statualistico le rette sono parallele e non possono interferire, ma se interferiscono per un’interferenza apparente, la fonte interna continua per definizione a produrre una norma valida anche se illegittima dal punto di vista comunitario; in questo caso, il giudice nazionale è tenuto ad applicare, sulla base dell’ordinamento giudiziario e dei vincoli costituzionali, la norma, che, per adesione ai Trattati e per competenza, è partecipante del diritto nazionale, mentre la Corte di Giustizia sarebbe competente solo sul diritto comunitario. In realtà questa è un’affermazione dietro cui la Corte di Giustizia si è sempre trincerata, che però incontra un’eccezione, secondo la quale la Corte di Giustizia è competente a decidere, quindi la questione è ammissibile, se esiste un collegamento, quindi un interesse ad avere un’interpretazione della Corte di Giustizia, quando la norma comunitaria è espressamente collegata ad una norma nazionale che viene in questione davanti al giudice. In parole povere questo vuol dire che la Corte Costituzionale (rectius: di Giustizia) attraverso il rapporto che è nelle norme indica il contrasto e non solo più la corretta lettura della norma sulla base del vecchio art. 177 del Trattato (oggi art. 234) e da qui non ne deriva la validità in termini kelseniani della norma, ma la sua inefficacia. Quindi oggi scopriamo una vecchia categoria che era andata in disuso, quella della non coincidenza tra una norma valida, legittimamente emanata sulla base del rispetto della gerarchia delle fonti, e una norma efficace, cioè applicabile, per cui distinguiamo tra validità ed applicabilità della norma.
Quanto detto ci porta a ritornare al discorso sulla sussidiarietà e sulla proporzione. Non dimentichiamoci che siamo nell’U.E. dentro la quale coesistono delle dottrine continentali e delle dottrine di common law, ma non dimentichiamoci neppure che il diritto nazionale (si pensi alla cultura penalistica attuale) ha una teorizzazione piuttosto recente, in quanto l’epoca delle codificazioni risale grossomodo all’Ottocento. Sono duecento anni di storia in cui si parla di diritto penale, di esclusività del Parlamento in materia penale e in cui si dice che la norma penale deve essere prevista (artt. 2 e 202 c.p.) e che la fonte deve regolare l’intera fattispecie con precetto e sanzione e non è delegabile questo tipo funzione. Esistono, però, delle situazioni molto rilevanti sotto quest’ultimo profilo: si pensi alle leggi delega, ai decreti delegati e ai decreti legge: queste soluzioni non toccano tradizionalmente il diritto criminale, ma in molti aspetti lo hanno toccato, come negli anni ’80 con la previsione di cause di giustificazione per gravi delitti approvate con decreti legge. Questa dottrina della esclusiva in materia di normazione sia sul precetto che sulla sanzione in capo al Parlamento è relativamente recente, perché contempla la previsione di una potestà pubblica o di un diritto soggettivo pubblico tutelato da una norma incriminatrice attraverso la previsione del precetto e la predisposizione di un meccanismo sanzionatorio che viene applicato dal giudice e che come tale definisce la norma come penale secondo un criterio formale. Ma la tradizione giuridica occidentale piuttosto che anglosassone è completamente diversa: si muoveva dall’idea dell’azione esercitata davanti al giudice e successivamente quel giudice riconosceva l’ammissibilità dell’azione andando ad enunciare come conseguenza della decisione l’esistenza di una situazione giuridica che era meritevole di tutela, analogamente a quanto accadeva con le actiones nel diritto romano e a quanto accade ancora oggi nel mondo anglosassone, molto e profondamente influenzato dal diritto romano, non solo in ambito civile, ma anche in ambito penale. Per cui l’idea che il diritto soggettivo sia scorporato o scorporabile dalla sanzione o che la potestà penale sia disancorata dalla tutela giurisdizionale e, quindi, prescinda dal profilo della sua giustiziabilità, è di creazione piuttosto recente.
Oggi probabilmente siamo in un contesto diverso: proporzione e sussidiarietà sono concetti che dovrebbero valere per il diritto nazionale e che oggi sono stati normativizzati nel diritto comunitario; nel momento in cui sono stati normativizzati nel diritto comunitario valgono, in quanto istituti giuridici che regolano il rapporto tra il diritto comunitario e il diritto nazionale, anche per quanto riguarda il diritto nazionale indipendentemente dal fatto che siano previsti in norme costituzionali. Si dice comunemente in dottrina che l’operatività della proporzione e della sussidiarietà in ambito nazionale è costituita da una retta parallela alla retta che costituisce l’operatività di questi due principi in ambito comunitario. Purtuttavia esiste un’interferenza della seconda sulla prima, nel senso che la Corte di Giustizia ha il potere di valutare se le scelte di politica sanzionatoria interne sono conformi al modo con cui i beni su cui le istituzione comunitarie, avendone in astratto il potere, hanno deciso di intervenire normativamente regolandole. Ne deriva che anche la Corte di Giustizia – che, quando venga richiesta, può pronunciarsi su questi principi – nel momento in cui interviene rende non più contestabile il rapporto che passa tra la sfera normativa delle istituzioni comunitarie e la sfera nazionale. Più interviene la giurisprudenza comunitaria, più vengono regolati i rapporti fra gli ambiti diversi di comunitario e di nazionale. In questa prospettiva, il problema della teoria delle fonti[27], nel momento in cui si ritiene di unificare i campi attraverso il giudice nazionale, diventa un problema di giustiziabilità ed allora occorre non dimenticarsi che l’azione davanti ad un giudice è strettamente ancorata alla situazione giuridica soggettiva che si vuole far valere. Sia nel Corpus Juris sia nel Libro Verde sul Pubblico Ministero europeo (che sono simili, ma nel secondo si rinuncia alla parte generale invece prevista nel primo) si escogitava un Pubblico Ministero comunitario che però andava a portare in giudizio qualcuno davanti al giudice nazionale: in questi progetti – per fare una battuta – l’unica cosa a cui non si era pensato era l’unica cosa giusta. Essi, infatti, sono stati criticati per vari motivi, ma l’unica ragione per cui non sono criticabili è quella che prevede che sia il giudice del diritto sostanziale che si applica che dovrebbe giudicare. Essi hanno sì distinto tra P.M. comunitario e giudice nazionale (che in quella veste è comunque giudice comunitario in quanto giudica su reati comunitari), ma hanno rispettato il principio di giurisdizione, perché è il giudice del diritto sostanziale che giudica. Questa scelta è stata molto apprezzata dagli inglesi, poiché per loro non è tanto importante il diritto soggettivo (che sia in campo civile che in campo penale è di matrice austriaca e non francese, dei primi del secolo XIX), quanto agganciare l’azione al diritto. In questa veste la procedura ed il diritto sostanziale si riavvicinano. A questo punto, il pensare ad un meccanismo giustiziale di riconoscimento e di scoperta di certi principi non è poi un qualcosa che contrasta con la tradizione giuridica occidentale. Ci sarebbero un ritorno dell’azione e la previsione di un suo riconoscimento giurisdizionale, laddove il prodotto di questo riconoscimento giurisdizionale non sarebbe un prodotto legislativo, bensì giuridico. Noi di tradizione giuridica precettesca dovremmo stare ben attenti, quando facciamo le traduzioni, a cominciare a distinguere nuovamente tra legge e diritto (noi ci laureiamo alla facoltà di Giurisprudenza e non di Legge!), in quanto nel common law il prodotto delle decisioni giurisprudenziali è sicuramente diritto, peraltro scritto e avente una valenza generale e astratta, perché, pur essendo focalizzato su un caso specifico, enuncia un principio che vale per l’avvenire, ma lo enuncia soltanto quando è richiesto di verificare se non ci siano antinomie nell’ordinamento giuridico, che è quello nazionale più quello comunitario, perché nel momento in cui esistono delle antinomie[28][29] sulla base del concetto di applicabilità e non di validità, esse vengono risolte. Nel momento in cui il giudice di diritto comune accoglie un principio e lo applica, la sua decisione rappresenta una decisione significativa che può anche costituire un precedente per tutti i giudici; si profila veramente un’ipotesi di decentralizzazione dei meccanismi di composizione dei conflitti e una nuova prospettiva di teoria del precedente, che è fondato sull’applicazione di decisioni. Vi è, perciò, un’influenza reciproca di un ordinamento rispetto all’altro, nel momento in cui, in conformità coi principi enunciati dall’alto, vengono ulteriormente specificate e articolate le questioni di difficoltà.
Recentemente Bacigalupo, presidente della seconda sezione della Corte Suprema spagnola, nonché professore di diritto penale a Madrid, ha scritto un’apologia della nomofilachia: in Spagna l’istituto della pregiudizialità “giuridica” non c’è, per cui occorre rendere vincolanti le sentenze del giudice della Corte Suprema, nel senso che i giudici si devono adeguare al precedente. Da noi in Italia non c’è questo tipo di vincolo[30].
La Corte di Giustizia è un organo di nomofilachia? No, probabilmente no: il maggior numero dei casi viene deciso dal giudice di diritto comune, che prima si è chiamato nazionale, poi ordinario ed ora di diritto comune. Il giudice di diritto comune applica la legge direttamente, la può interpretare, in caso di dubbio[31] può chiedere una sentenza alla Corte di Giustizia, ma se chiede e questa ritiene la richiesta inammissibile, l’interpretazione sul punto è finita. Può, perciò, anche esserci un interesse dei giudici nazionali ad occuparsene essi stessi, in prospettiva, nel momento in cui siano sufficientemente convinti da dei precedenti delle questioni interpretative. L’effetto dovrebbe allora essere quello di una omologazione progressiva dei vari diritti nazionali, ciascuno portando un po’ di esse attraverso delle unificazioni necessarie, a livello di Corte di Giustizia, agli altri. Questo tipo di situazione, ad esempio in ambito penale, è stata definita come problematica: si è detto “adesso le Comunità hanno scoperto i propri beni finanziari e vogliono subito ….. “. Quando Donini ha sollevato questo dubbio io ero d’accordo, perché si era creata molta velocità in materia penale per l’esigenza di penalizzare a livello comunitario a cui era seguita una doppia velocità caratteristica delle singole Nazioni, sia a livello di crimini tradizionali che a livello di delitti economici, che invece si caratterizzerebbero secondo altri criteri (Paliero ha teorizzato l’abbandono del dolo, che è molto problematico nella sua forma eventuale, una nuova costruzione dell’elemento comune che in qualche modo si avvicina alla colpa e che nell’ambito economico è in qualche modo una responsabilità per rischio creato oppure una forma di colpevolezza per l’organizzazione, cioè una forma di volontaria responsabilità). Al di là delle questioni di etichettatura degli istituti, c’è un altro fenomeno particolare, nel senso che – come si è detto in precedenza nel contesto dell’illecito amministrativo della depenalizzazione dei vari Paesi, come l’Italia – le garanzie tipiche del diritto sostanziale penale e del diritto processuale sono importate nel diritto amministrativo. Invece le garanzie di istituti tipo il divieto di retroattività, personalità della responsabilità, cause di giustificazione, errore di diritto, inesigibilità di un comportamento altrimenti non evitabile, sono state trapiantate, dietro la spinta della Corte di Giustizia e della Corte dei diritti dell’uomo, dal diritto penale al diritto sanzionatorio amministrativo e da questo diritto sanzionatorio amministrativo vengono ribaltate nell’ambito del diritto penale interno attraverso la disapplicazione degli istituti contrari fatta da parte del giudice penale.
Un caso tipico che interessa proprio il problema del parallelismo delle fonti è quello di un certo avvocato italiano, il quale si era laureato in Germania, dove aveva superato l’esame da procuratore, aveva poi iniziato a lavorare in Italia, dove era stato sottoposto a processo penale per esercizio abusivo della professione.
Dall’ambito amministrativo comunitario i principi vengono poi riportati all’ambito del penale comunitario. A questo punto si è detto che l’art. 5 del Trattato, che stabilisce il principio di attribuzione specifica delle competenze implicitamente ma che impone agli Stati l’obbligo di collaborazione e, quindi, l’obbligo di fedeltà – come stabilito dalla corte di Giustizia – si caratterizzerebbe per attribuire per un verso una competenza esclusiva alla Comunità e per l’altro una competenza concorrente. Nel campo dei concetti di sussidiarietà e di proporzionalità si è detto che il principio comunitario di sussidiarietà opera come limite per la normazione penale interna soltanto però nel caso in cui la competenza comunitaria sia una competenza concorrente con la competenza dei singoli Paesi per certe materie, mentre invece il principio di proporzionalità è caratteristico sia della competenza esclusiva della Comunità che della competenza concorrente, nel senso che in entrambi i casi il principio di proporzione imporrebbe e vieterebbe quelle situazioni che non corrispondono al medesimo principio, che la scelta di adottare delle sanzioni penali sia idonea rispetto ai risultati comunitari che devono essere raggiunti, sia indispensabile, cioè sia extrema ratio, non sia cioè altrimenti evitabile, e che non debbano esistere dei mezzi non penali, che sono afflittivi, per raggiungere lo stesso risultato. A questo punto si è creata proprio a livello di indicazione (ed anche di creazione) giurisprudenziale una teoria che è stata definita strumentalistica, economicistica, cioè costi e benefici, nel senso che le indicazioni della Corte di Giustizia, la quale può disporre delle perizie anche ai fini di valutare la conformità al Trattato di un avvenuto esercizio di una potestà anche in materia penale da parte dei singoli Paesi, dovrebbe rispondere a questa logica e di ciò si è lungamente parlato in ambito comunitario: un Consiglio europeo del 12 dicembre 1992 di Edimburgo ha stabilito, sulla base anche di certa giurisprudenza della Corte, che “il problema dei motivi per concludere con obiettivo comunitario non può essere sufficientemente analizzato dagli Stati membri, può essere meglio analizzato a livello comunitario e devono essere comprovati da indicatori qualitativi o se possibile quantitativi”. La Commissione europea, con una Comunicazione al Consiglio e al Parlamento del 27 ottobre 1992 aveva parlato della previsione di test di efficienza comparativa tra la realizzabilità degli scopi comunitari a livello dei singoli Stati membri. C’è poi stato un Accordo interistituzionale di Lussemburgo dell’ottobre 1993; un VII Protocollo del Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997; una XXIII Dichiarazione sul futuro dell’Unione contestualmente al Trattato di Nizza; si è parlato di verifiche cumulative negative e positive sull’insufficienza del ricorso a legislazioni nazionali per l’aggiornamento degli scopi prefissati e di un test positivo sulla prognosi di una migliore capacità di intervento della legislazione comunitaria, ecc.. Occorre precisare che rispetto alle Corti Costituzionali nazionali ci sarebbe un limite estremo di sindacabilità delle scelte legislative, nel senso che le Corti Costituzionali avrebbero un divieto di fare giudizi di fatto relativi all’efficacia delle leggi (altra peculiarità del diritto comunitario). A ciò si aggiunga l’art. 33 del Trattato C.E.C.A.: “L’esame della Corte non può vertere sulla valutazione dello stato risultante da fatti e circostanze economiche in considerazione dei quali sono state prese e dette decisioni e raccomandazioni, salvo che siano mosse accuse ad alta autorità per aver commesso uno sviamento di potere, di aver misconosciuto in modo palese disposizioni del Trattato con ogni forma giuridica concernente la sua applicazione”.
Dunque, il profilo futuro dei criteri, anche di controllo, della verifica del rispetto sia della sussidiarietà che della proporzionalità, diventa un profilo che appartiene sicuramente al discorso strumentale, ma è anche un discorso che caratterizzerà l’evoluzione del giudice di diritto comune.
Occorre purtroppo tralasciare, per ragioni di tempo, un discorso importantissimo, che è quello del mandato d’arresto europeo[32], su cui ci sono degli studi molto attenti sul fatto che queste leggi interferiscono sul diritto penale sostanziale, nel senso che creano un’estensione, sotto certe forme, della territorialità, dietro la veste apparente del diritto processuale, della cooperazione tipica del Terzo Pilastro, sulla base di una distinzione tra diritto sostanziale e diritto processuale che peraltro non è condivisa da nessun Paese europeo.
Si dice comunemente che le sanzioni penali sono quasi tutte indirette, essendo pochissime le sanzioni che organizza direttamente la Commissione europea. Si è detto anche che l’art. 172, che prevede la giurisdizione della Corte di Giustizia sulle sanzioni, è stato letto, ad esempio da RIONDATO, come norma cardine per dimostrare la potestà penale delle istituzioni comunitarie, perché – si dice – se la Corte di Giustizia può giudicare sulle sanzioni abbiamo affiancato a potestà, discussa, di prevedere dei divieti, la possibilità di prevedere delle sanzioni e la loro giustiziabilità, non però la loro applicabilità, perché il giudice penale, ad esempio, applica sì le sanzioni, mentre la legge le commina; invece, nel campo del diritto comunitario le sanzioni sono amministrative o parapenali (definite anche penali dalla Corte dei diritti dell’uomo per distinguerle da quelle risarcitorie, laddove vengono definite penali quelle sanzioni dal carattere afflittivo, ristorativo e soprattutto retributivo e dall’efficacia astratta e generale, un’efficacia di prevenzione generale e speciale, per lo più generale). Dunque l’art. 172 complicherebbe il campo, nel senso di dare anche ad un giudice che non è quello dell’applicazione, perché l’applicazione la fa la Commissione europea, la possibilità di giudicare sulle sanzioni. Nell’ambito delle sanzioni amministrative, comunque, esiste da parte del Regolamento una disciplina specifica sul rapporto, in materia di concorso apparente, tra le sanzioni di natura amministrativa comunitarie e quelle nazionali: tendenzialmente si applicherebbero entrambe; addirittura il Regolamento prevede la possibilità del giudice amministrativo o del giudice ordinario, davanti cui si oppongono le sanzioni amministrative, di sospendere il giudizio in attesa della definizione di un processo penale, di cui deve tener conto nel momento in cui decide la quantificazione di una sanzione. C’è un certo ibrido sulla discrezionalità dell’Amministrazione oppure sulla discrezionalità della Commissione nel momento in cui prevede in via anticipata la procedibilità delle sanzioni amministrative, ma questo è un problema difficile, di cui non c’è tempo di parlare.
In definitiva, vi sarebbero sostanzialmente delle facoltà dei giudici nazionali di intervenire con la sanzione penale a condizione che la sanzione penale sia già prevista per le materie nazionali analoghe, in virtù cioè del principio di assimilazione (art. 280 del Trattato), per il quale il legislatore nazionale deve prevedere in certi casi la medesima tutela per i beni di rilievo comunitario, che non sono solo più gli interessi finanziari, ma possono anche essere proprio i beni delle attribuzioni delle istituzioni comunitarie. In certi casi il legislatore nazionale avrebbe un obbligo di ricorrere ad una sanzione dissuasiva qualora le altre disposizioni interne non siano sufficienti; in altri casi vi sarebbe un obbligo di dare una soluzione dissuasiva che sia comune, cioè prevista nello stesso modo nei vari Stati. Questo obbligo, in rispondenza alle norme del Trattato, obbligo che viene esercitato anche a livello comunitario, può essere esercitato in vari modi: o prevedendo specificamente delle sanzioni a livello centrale, quindi a livello della Commissione e di Consiglio, oppure, invece, dando delle indicazioni di massima, con un regolamento o con una direttiva, al legislatore nazionale, che poi è tenuto ad attuarle, oppure prevedendo semplicemente una libertà del legislatore nazionale di utilizzare gli strumenti che ritiene più opportuni.
A questo punto torniamo al discorso penale. Spesso la Corte nazionale, interna, ha la possibilità di fare ricorso ad una tipologia di sanzione che viene reputata adatta, la quale deve però rispettare i criteri della sussidiarietà, della proporzionalità e dell’efficacia. Però, nei casi in cui sia stata esercitata bene una potestà in materia penale da parte del legislatore interno nazionale, questa potestà è esaurita secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, nel senso che non può più essere esercitata la medesima potestà: in altri termini, una disposizione che tutela un certo bene non può più essere modificata, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia. Se viene fatta una legge che tutela in misura minore un bene (una situazione giuridica soggettiva come la concorrenza) che è considerato primario, rilevante, non appartenente in via esclusiva all’Unione, ma rientrante fra le materie di cui la comunità è attributaria e sulla quale esiste una competenza concorrente, essa dovrebbe essere disapplicata dal giudice se questi se la sente di dare una diretta lettura delle norme comunitarie in questo senso o altrimenti adeguandosi ai principi della Corte di Giustizia, a condizione che questa si sia pronunciata proprio su quella situazione pre-normativa, di fatto. Se il legislatore penale ha invaso una sfera che non è sua, la norma penale dovrebbe essere immediatamente non applicata, dichiarata inefficace, perché contrastante con la norma comunitaria. Invece, se ha esaurito il proprio potere non può chiaramente ritornarvi, ad esempio abrogando una norma penale che verrebbe rivista e comunque dovrebbe essere dichiarata inapplicabile. è vero che c’è la dottrina contraria che ritiene che soltanto le situazioni giuridiche soggettive dei privati possono essere meritevoli di tutela davanti alla Corte di Giustizia e che invece non siano meritevoli di tutela le situazioni giuridiche soggettive di diritto pubblico; è anche vero che – secondo la Corte di Giustizia – una situazione giuridica di cui è parte attiva la Comunità, che peraltro è anche ammessa a costituirsi parte civile nei processi penali allo stesso modo delle istituzioni pubbliche (anche se a rigore dovrebbe corrispondere un diritto soggettivo), sarebbe azionabile anche davanti alla Corte di Giustizia. Quasi sempre la Corte di Giustizia, nel momento in cui fa salva la potestà penale nazionale, afferma che in via di principio nulla osta che il legislatore nazionale emani o abbia emanato una norma penale in materia, cioè autorizza ora per allora nelle proprie sentenze il corretto esercizio da parte del legislatore, però ancorando sempre questo tipo di giudizio al modo con cui è stato esercitato il potere di punizione, in senso penale, da parte del legislatore nazionale. Dunque viene fatta salva la potestà nazionale di intervenire in materia: così in buona sostanza la Corte di Giustizia riconosce la “libertà” del legislatore nazionale quando si comporta bene, cioè fa salva la sua facoltà di fare norme in materia penale. Allora chi è che decide? Qual è la competenza? La Corte di Giustizia decide sui poteri che ha l’Unione, ma chi è il titolare dei poteri astratti di normazione nelle materie in cui c’è competenza esclusiva o concorrente dell’Unione europea?
Non si tratta di poteri esercitati, precetto più sanzione; non sono previste dai Trattati delle possibilità di istituire degli organi giurisdizionali; la Corte non impone alla Comunità i mezzi; non li impone in certi casi neppure agli ordinamenti nazionali; non sono applicabili le disposizioni successive nazionali contrastanti col diritto comunitario anche in materia penale; è ammesso il principio di retroattività o la riviviscenza di disposizioni penali nel momento in cui sono commessi i fatti (si veda il falso in bilancio, rispetto a cui alcuni teorizzano la possibilità di applicare retroattivamente l’abrogazione o la dichiarazione di incostituzionalità delle norme qualora contrastanti col diritto comunitario perché non garantiscono a sufficienza il bene della trasparenza che vuole essere garantito sotto il profilo concorrenziale della Comunità); la tutela penale è una tutela centrata; il legislatore non era libero di tornare su questa scelta; la Corte di Giustizia non è intervenuta sull’argomento, mentre la Corte Costituzionale, dando una certa lettura, sulla base del nuovo art. 117 potrebbe o non potrebbe intervenire?
Dunque i principi fin qui emersi sono i seguenti: le leggi in contrasto col diritto comunitario non dovrebbero essere applicabili; più il diritto comunitario c’è, più c’è probabilità che le leggi nazionali siano in contrasto con esso e meno spazio c’è per successive leggi nazionali che interferiscono con la stessa materia; le leggi precedenti possono essere disapplicate, come pure quelle successive; quindi sarebbe preclusa la previsione di nuove norme penali modificatrici delle situazioni normative conformi al diritto comunitario; rievocazione di sanzioni penali incompatibile con i diritti fondamentali; l’applicazione di norme nazionali in norme penali incompatibili (ad esempio si è acquisita nell’ambito della Corte di Giustizia una diversa nozione di recidiva).
In un giudizio del 13 luglio 1990 davanti alla Corte di Giustizia europea contro la Germania, l’Avvocato generale Jacob aveva chiesto alla Corte di Giustizia di dargli definizione della distinzione tra diritto penale e non. La soluzione della Corte sembra banale, ma invece merita una riflessione: essa non ha dato una definizione ed un suo componente, ormai in pensione, poco prima di morire avrebbe confidato a degli amici di cosa si era parlato in Camera di Consiglio. Ad ogni modo la Corte avrebbe dovuto dare la distinzione richiestale.
La vicenda riguardava due magistrati italiani molto noti, perché sono sempre sui giornali, di cui uno è iscritto ad un partito politico e l’altro è un massone, si sono visti comparire sul giornale ed hanno agito davanti alla Corte di Giustizia per il risarcimento. Il magistrato iscritto al partito è riuscito ad avere un risarcimento miliardario con la sentenza della Corte di Giustizia; nei confronti dell’altro, che è massone, è stato detto che non era ben chiara la circolare del C.S.M. dove veniva stabilito che non si può essere iscritti alla massoneria, così condannando lo Stato italiano a dare un’ingente somma a questo giudice come indennizzo. Al di là di questa vicenda, si vuole evidenziare che la Corte di Giustizia non incide sul diritto, non lo modifica, ma enuncia un principio che soltanto trasversalmente può essere fatto valere davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il componente di cui si stava parlando ha riferito che la Corte non ha enunciato la distinzione e non ha detto che le istituzioni comunitarie sono competenti anche in materia penale (e la Corte era libera di dirlo), perché altrimenti avrebbe potuto qualificare una nozione di penale in cui rientravano le sanzioni amministrative, così scoraggiando l’armonizzazione indiretta dei diritti penali, perché nel momento in cui fosse stato detto che la Comunità è abilitata a fare norme penali, immediatamente si sarebbe solo parlato di quali reati inserire. Effettivamente, il ricorso ad un’organizzazione penale pone problemi teorici molto importanti. Sicuramente attraverso il diritto penale nazionale, via via articolato e modificato e armonizzato, si ottiene un lavoro più efficace e più consono alle varie tradizioni giuridiche, che poi tendono a conformarsi, mentre con una scelta centrale si porrebbe davvero un conflitto tra il fare una convenzione o una direttiva oppure legiferare direttamente, con predilezione di questa seconda scelta. Quindi, il problema è quello dello snaturamento della Comunità e, soprattutto, se la Corte di Giustizia riesce in linea teorica a fare questa analisi, questo sindacato sulla sussidiarietà, sulla proporzionalità e sull’efficacia, questo lavoro verrebbe a questo punto fatto dal legislatore comunitario. Ma se i legislatori nazionali non riescono a capire se è opportuno prima fare una norma amministrativa o civile o rispondere se il diritto penale si sostituisca o si aggiunga al diritto extrapenale, può la Commissione fare un lavoro così raffinato?
Oggi il penale non è ancora oggetto di competenza, è sostanzialmente esercitato.
Sul discorso del parallelismo delle fonti c’è una sentenza del Tribunale di Milano del 1° marzo 2001 sull’esercizio della professione abusiva di avvocato in virtù dell’art. 348 c.p.. Il giudice qui doveva assolvere l’imputato perché in materia c’erano delle espresse indicazioni normative comunitarie che equiparano le professioni e prevedono tutta una serie di obblighi che il legislatore italiano aveva attuato solo parzialmente. Ma il giudice si domandava con quale formula poteva assolvere l’imputato, per cui ha ritenuto, secondo quella che è l’opinione maggioritaria, di applicare anziché l’art. 51 c.p., che avrebbe scriminato il reo, l’art. 3 c.p. sull’obbligatorietà della legge penale: “La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini e stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno e dal diritto internazionale” (I comma). Il giudice ha così ritenuto che sostanzialmente si ponga il problema di quale sia il destino della disciplina contrastante col diritto comunitario: è abrogata, annullata o va semplicemente disapplicata? La dottrina dice che, quando c’è una successione cronologica tra due disposizioni vertenti sulla stessa materia, la precedente è abrogata, purché le due norme siano pariordinate, appartengano alla stessa fonte, perché qualora la fonte sia sovraordinata si può parlare di abrogazione o di annullamento. Per ora la Corte di Giustizia ha detto “non applicazione”[33], però non ha mai esposto un regime unico per i vari Paesi europei: ad esempio in Germania ci sono principi completamente diversi in materia di abrogazione e di annullamento delle legge. Certi Paesi potrebbero ritenere che le norme contrastanti sono definitivamente espunte dall’ordinamento giuridico, anche se la soluzione pragmatica è quella del riferimento ad una dottrina che la Corte Costituzionale italiana ha più volte richiamato e che è quella delle fonti-fatto, credibile però fino ad un certo punto.
Occorre tenere conto che nell’ambito dell’ordinamento comunitario non esistono, nel senso che non sono normati nei Trattati e non sono neppure utilizzati, alcuni principi invece tipici del nostro ordinamento come: il concetto di abrogazione; il concetto di invalidità distinto da quello di efficacia; la teorica del gravame; il principio di gerarchia delle fonti (le fonti comunitarie non sono in un rapporto gerarchico, ma sono in un rapporto di concorrenza eventuale); il concetto di giudicato (esiste quello di ne bis in idem, ma non quello di giudicato).
Il problema di fondo è che abbiamo sempre pensato alla legge come frutto di una volontà desiderata[34], mentre invece, data l’alternanza di fonti, dal punto di vista operativo la decisione del singolo giudice non è un qualcosa di imprevisto ma non è un qualcosa di espressamente previsto. Anche a livello di norma penale, tutte le integrazioni e i precetti che avvengono a livello comunitario, ma anche a livello regionale e a livello amministrativo, cioè in ogni settore, non sono previste dal legislatore penale. Il problema è che il reato viene innanzitutto costruito in modo diverso, ma poi c’è una dimensione dell’illecito, che è composta, nel senso che ogni reato ha sì una struttura, ma poi si sviluppa in senso spaziale ed ha una durata giuridica a livello teorico (si pensi alla prescrizione). Questa è la disciplina dell’illecito; esiste uno sviluppo concreto che non è solo lo sviluppo disegnato in una certa norma. Allora succede, ad esempio, che i singoli Paesi hanno criteri diversi sul locus commissi delicti. Si pensi alla Germania dove il principio universalistico tedesco fa sì che teoricamente il P.M. tedesco può iniziare un’azione penale semplicemente dicendo “Io sono competente”. Se non si uniformano i criteri di territorialità, se non si emana una norma che incida sui criteri di territorialità sostituendo alla locuzione “territorio dello Stato” la locuzione “territorio dell’Unione” non si risolvono i problemi, con la conseguenza che una persona è più o meno libera di scegliere dove essere processata, perché in qualche modo c’è il diritto del suo Paese a riuscire ad agganciarsi a questo fenomeno.
MASSIMO C. CAPIROSSI
Avvocato
Università di Torino
* Lezione del Direttore di Corso svolta il 27 maggio 2005 nell’ambito del Corso internazionale progredito di diritto comunitario istituzionale, sanzionatorio e processuale (Padova, 27 maggio 2005 – 29 ottobre 2005 presso il Centro Congressi “Papa A. Luciani”), promosso dalla Scuola di diritto penale finanziario del “Centro di diritto penale tributario” scopo esteso a diritto comunitario e delle materie collegate.
** Si è deciso di mantenere inalterato il testo della lezione e di rimandare per ragioni di speditezza il lettore all’elencazione bibliografica, seppur non esaustiva, dei testi di riferimento contenenti anche i riferimenti giurisprudenziali.
L’intervento editoriale è unicamente limitato ad annotare a piè di pagina alcuni dei previsti sviluppi normativi, giurisprudenziali e della discussione scientifica intervenuti in questi mesi.
[1] Rinviamo alla sterminata bibliografia, di cui in calce abbiamo operato una scelta solo parzialmente selettiva. Sulle discussioni, soprattutto in questi anni –dal 1997 per lo più- dedicate alle due versioni del Corpus Juris (1996, 2000) e al recente Green Book sul P.M.E., si rinvia al sito presso la Commissione Europea in cui sono stati raccolti migliaia di contributi europei. Fra questi, ci permettiamo di rinviare a M. Capirossi, Norma e sanzione comunitaria dell’illecito, con ampi riferimenti allo stato della discussione sul rapporto fra diritto ed azione penale fra diritto europeo e diritti nazionali, in corso di editazione, 2006; a M. CAPIROSSI-L. IMPERATO, Note sulle disposizioni in materia di procedura penale contenute nel Corpus Juris, Atti Centro di diritto penale tributario, in www.dirittopenaletributario.net, lettura alla tavola rotonda di Venezia “Osservazioni sul Corpus Juris”, 17 marzo 1997, Circolo Ufficiali della marina militare; M. CAPIROSSI, Fondamenti legali del Corpus Juris alla luce del recente seminario internazionale di Siviglia del 20-22 gennaio 1998, lettura nella Tavola rotonda di Torino, Circolo della Stampa, Cdpt, in “Materiali Centro diritto penale tributario” di Torino, Italia, U.E..; M.C. CAPIROSSI, Alcune riflessioni sul Libro Verde sulla tutela penale degli interessi finanziari comunitari e sulla creazione di una procura europea, Relazione al Public Hearings di Bruxelles del 16-17 settembre 2002, www.greenbook.ceu.com;
[2] Sul problema delle fonti, qualche spunto è presente in M.C. Capirossi, Il Pubblico ministero europeo e la protezione degli interessi finanziari dell’Unione Europea. Diritto positivo e figure normative in tema di rapporti fra reato e spazio territoriale nel quadro del progetto di Costituzione Europea, Relazione alla Conferenza Internazionale Olaf-Commissione Europea-Ufficio Europeo per la lotta anti frode-Centre for tax criminal law su “Corporate Governance: bilancio consolidato, Convenzione P.I.F. e società europea: riforme nazionali e prospettive comunitarie di fronte al P.M.E. per la protezione degli interessi finanziari dell’U.E”., Torino, 26 marzo 2000, in Atti Convegno in corso di stampa e sul Sito.
Ci permettiamo ancora, per la bibliografia e per ulteriori approfondimenti, di rinviare a M. CAPIROSSI, Concorso apparente di norme e principio di specialità tra Corpus Juris e ordinamenti nazionali, Discussion paper, International Conference by No Peace Without Justice-Robert Schumann Centre for Advanced Studies/European University Institute-Workshop on The Evolution of Supranational Criminal Justice. Comparing International and European Law, “003/4-SupranatCriminalLaw/ws-4, 26, 27, 28 May 2004, Badia;Teatro, Firenze-Fiesole, in Rober Schumann Institute, www.NPWJ.Org.;
[3] Sia sufficiente rinviare alla bibliografia e ai lavori collettanei promossi da Grasso e soprattutto alle importanti conferenze internazionali dal 1996 ad oggi organizzate da De Angelis (sito www.dirittopenaletributario.net; v. “Finalità”).
[4] Un recente studio è di G. Licci, Corso di diritto penale comparato 2005/ 2006 (Università di Torino e del Piemonte Orientale), in corso di pubblicazione.
[5] Si rinvia alle indicazioni date. Un particolare cenno, tuttavia, va dato all’importanza dei Contributi di Van del Vingaert e Vervaele.
[6] Fondamentale è il contributo di Maugeri a tutta la materia, incluse le sanzioni amministrative.
Di recente, si segnala l’entrata in vigore dal 22 marzo 2005 della decisione quadro n. 2005/214 adottata dal Consiglio il 24/2/05 in tema di reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie, nel quadro del processo di costruzione dello spazio giudiziario europeo (Perduca e altri in bibliografia). Si tratta, come noto, di atto normativo previsto dal trattato dell’Unione ex art. 34 comma 2, lett b).
Più avanti si segnalerà la decisione quadro, in tale direzione di mutuo riconoscimento, n. 584 della 13 giugno 2002 del Consiglio (Guce 18/7/02 n. L 190) sul mandato di arresto europeo, nonché la d.q. 2003/577 del 22/7/2003-Guce 2/8/2003 n. L 196 sul blocco e sequestro probatorio dei beni. Non p questa la sede per rassegnare le importanti iniziative in itinere, ma da segnalare è certo la decisione del Consiglio 12 aprile 2005 sul riconoscimento nell’esecuzione di una sanzione altrove irrogata, ove è esclusa la condizione della doppia punibilità. Anche per le sanzioni pecuniarie sono elencati i reati per cui è esclusa tale condizione. Ma è stato segnalato (Castellaneta; DAMATO in Il mandato di arresto europeo e la sua attuazione del diritto italiano, in Dir.dell’Un.Europea 2005, p. 21 e segg) che, come è avvenuto in sede di riversamento legislativo interno in tema di mandato di arresto ove è stato inserito ex art. 7 co. 1 “..solo nel caso in cui il fatto sia previsto come reato anche dalla legge nazionale”, anche in materia di sanzioni l’art. 5 della d.q. autorizzerebbe diniego all’esecuzione, al di fuori dei reati elencati per l’esclusione della doppia punibilità (si tenga conto che è prevista l’esecuzione di sanzioni pecuniarie anche per cittadini italiani per reati non connotati in Italia da tali misure), qualora il fatto non sia reato “indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla sua qualfica”, coi problemi conseguenti. Per le persone giuridiche, ferma la limitazione prevista dall’art. 20 in ordine ad una possibile moratoria quinquennale, il soggetto residente in uno stato in cui non sono previste le sanzioni obbligatorie in sede di III pilastro ne andrebbe esente per i fatti commessi nel paese, ma vi sarebbe sottoposto per quelli commessi nel paese che preveda tale forma di responsabilità. Ci pare che lo stesso valga per il caso in cui internamente i reati-evento causati dall’ente non coincidano con quelli del paese richiedente. Ferma la competenza della Corte E. dei Diritti dell’uomo sulle mancate conformazioni del legislatore nazionale (ma coi limitati poteri noti), non è possibile in materia che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, trattandosi di terzo pilastro.
Da ricordare (Cannizzaro) il problematico art. 10 della legge 4 febbraio 2005 n. 11 ( recante norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione Europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari) che consente al Governo di adottare provvedimenti non legislativi necessari ad attuare obblighi comunitari scadenti prima della legge comunitaria annuale. La legge (Guida al diritto n. 9/2005) sostituisce la c.d Legge La Pergola (86/1989).
[7] Ciò ci ha trovati a disegnare in varie sedi una nozione strutturale di materia penale, né formale né sostanziale. E’ evidente infatti che dalle attribuzione di ‘campo’ (concorrenza, ambiente, agricoltura) all’U.E. o alle CE deriva la normazione in ‘materia’ (altro senso). La matiere penal ha un altro senso di ‘carattere strutturale della sanzione’. Altro discorso vale invece per il diritto interno (‘stessa materia’), in cui si opta per una concezione più complessa (v. Ns. Norma e sanzione cit.)
[8] Comunitaristi come W. Viscardini hanno una chiara idea, che coincide con la Ns. (Il rinvio pregiudiziale del giudice nazionale davanti alla Corte di Giustizia, lezione nel Corso 2005 Cedam citato).
[9] Infra si accenneranno le novità della CGCE intervenute a cavallo dell’estate 2005 (Pupino, Berlusconi etc). Come si auspica evincibile, in questa Relazione, senza dichiararlo espressamente, si è adottato un accostamento non formalistico, ma strutturale al problema della competenza sulle sanzioni penali. A prescindere dalla necessità di riformulare una teoria delle fonti complessa che tenga conto della realtà del diritto vigente, che sarà argomento del volume di cui le note presenti sono una sostanziale introduzione di massima –questa è la ragione per cui non si affrontano problemi di successiva trattazione- , si è voluto difatti assumere un orientamento che distingua competenza astratta giuridica da esercizio valido della competenza in ‘materia penale’. Le decisioni della CG non sono sindacabili in materia e si caratterizzano per un progressivo, via via che i legislatori nazionali eseguono o anticipano l’opera delle fonti derivate comunitarie nelle materie di competenza esclusiva o concorrente, intervento che procede non per statuizioni ma per principi. Tali principi investono diritto esistente con l’effetto di dividere il profilo di validità da quello di efficacia della norma nazionale. Il criterio di controllo di efficacia rispetto alle norme comunitarie interpretate viene esercitato sulla base della competenza sui limiti dell’intervento sanzionatorio nazionale rispetto ai limiti imposti dall’o.g. comunitario. Se la CG opera in questo ambito, al suo interno i principi si caratterizzano per una progressiva specificazione di dettaglio, parallela alla crescita cristallizzata degli obblighi degli stati ad attuare il d.comunitario. Gli sviluppi della GC di maggio e settembre si sono inseriti nella indicazione strutturale a carattere macrogiuridico che avevamo proposto.
Anche il ruolo della Corte Costituzionale, come osservato ampiamente in altra sede, indipendentemente dai propri stessi enunziati (ricognitivi?), subisce compressioni. Non è questa la sede, ma ricordiamo l’evoluzione di C.Cost.Italiana ( 7/3/64 n. 14; CG 15/7/64, 6/64; 30/10/75 n. 232; CG 9/3/78 n. 106/77; 8/6/85 n. 170; 19/4/85 n. 113; 11/7/89 n. 389; 16/6/93 n. 285; 18/1/90 n. 64; 18/4/91 n. 168; 18/7/89 n. 389; 3173/94 n. 117; 24/4/96 n. 126; 21/4/89 n. 232; 23/12/86 n. 286; 10/11/94 n. 384; 30/3/95 n. 94) nel prendere atto dell’effetto erga omnes della CGCE, salvi i c.d. controlimiti, teorici ma mai oggetto di intervento, o interventi della C.Cost. solo ad effetti interni su un legislatore disobbediente al diritto comunitario ovvero su conflitti regioni/stato. Quando disposizioni comunitarie non siano self executing, per cui, pur disapplicando la norma nazionale contrastante, l’AGO non potrebbe trovare una disciplina comunitaria per regolare il caso (lacuna: esempio l’istituto della prescrizione interna avvenuta prima del principio enunziato dalla CG; la disapplicabilità del principio che stabilisce l’irretroattività della legge civile ex art. 14 preleggi; la retroattività di un atto di esecuzione tardiva interno; etc ), anche in presenza di decisioni quadro che siano non direttamente efficaci –a tacer delle aperture di cui infra, la C.Cost. potrebbe ex art. 11 e 117 co.1 Cost. dichiarare incostituzionale le leggi nella misura in cui non prevedano tali forme di tutela. Parimenti questo potrebbe accadere per la incostituzionalità di norme interne contrastanti con atti (decisioni, l.q.) del II o III pilastro, che tuttavia ora si ritengono idonee a far disapplicare le norme interne (qui la C.Cost. potrebbe ritrarsi con dichiarazioni di inammissibilità interpretando il principio enunziato nel settembre 2005 dalla C.G. Vedi infra. V. Villani.
Sub judice sarà forse da C.Cost. la questione del caso Berlusconi della nota C.G. del 3 maggio 2005, di cui in seguito, caso stimolato dalla raffinata costituzionalistica lombarda (D’Amico e altri, in bibliografia per tutti i problemi).
[10] Si rinvia alle opere in bibliografia. Unico ad aver sostenuto sin dal 1996 la potestà penale europea come autorizzata dalle fonti primarie comunitarie –noi in tal senso di recente-, nella costante attività di aggiornamento (V. Dal mandato d’arresto europeo al libro verde sulle garanzie, alla costituzione europea: spunti sulle nuove vie di affermazione del diritto penale sostanziale europeo, in Riv.Trim.dir.pen.ec, 2004, n. ¾, p. 1128 e segg, Relazione in “Spazio giuridico europeo dai principi costituzionali europei all’armonizzazione degli ordinamenti nazionali”, Venezia, 14/16 novembre 2003) ha puntualmente osservato la nuova via di accesso di un diritto penale comune attraverso il significato sostanziale della d.q. sul mandato di arresto europeo: “la doppia incriminazione è sostituita dall’incriminazione comune europea qual è rappresentata dall’incriminazione dello stato emittente; e così risulterebbe riempito anche l’eventuale vuoto di incriminazione presente nell’ordinamento dello Stato richiesto..il principio europeo del mutuo riconoscimento delle norme incriminatici regge (non da solo) il corollario del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie..il diritto penale dell’emittente..costituisce il diritto sostanziale che veicola la pretesa punitiva europea..manca.. l’espressa definizione armonizzata di ogni reato ivi indicato, perché in realtà la soluzione prescelta vede il diritto dell’e. fungere contingentemente da diritto europeo armonizzato..il diritto penale nazionale è chiamato a realizzare l’armonizzazione penale europea, secondo un originale….”, nella confusione fra aspetto procedurale e sostanziale.”la legge penale straniera..è il termine di confronto” (p.1129).V. S:RIONDATO, Profili di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale dell’economia (influenza, poteri del giudice penale, questione pregiudiziale ex art. 177 TCE, questioni di costituzionalità), Riv.trim.dir.pen.ec,, 1997, 1135 ss.).
[11] L’autore (si segnala Strategie per l’armonizzazione dei sistemi penali europei, Riv.trim.dir.pen.ec. 2002, 787; Il diritto penale tra globalizzazione e multiculturalismo, ibidem, 477; ma v. anche ZUCCALÀ, L’unitario diritto penale europeo come meta del diritto penale comparato?, ibidem, 603; DONINI, L’armonizzazione del diritto penale nel contesto globale, ibidem, 477; RIZ, Unificazione europea e presidi penalistici, ibidem, 2002, 181 ss) è uno dei più attenti studiosi del diritto penale, con M. PAPA, S. MANACORDA, E. MEZZETTI, e molti altri, dei temi trattati in sede europea e non possiamo che rinviare a tutti i suoi pregevoli Studi, muniti di sterminate indicazioni bibliografiche d’oltralpe e non solo.
[12] E.M. AMBROSETTI- M.RONCO- M.CAPIROSSI-M.SALVADORI, Tavola rotonda sui rapporti tra fonti nazionali e fonti comunitarie, Padova, 11 giugno 2005, lezioni Modulo A) Corso Cedam 2005 su Diritto Istituzionale e sistema delle fonti, cit., www.cedam;
[13] Questa la tesi strutturale in questa relazione. Bene S. RIONDATO ha enfatizzato (Profili processual-penalistici di influenza del diritto comunitario, in Riv.trim.dir.pen.econ., 2004, nn.3/4) l’influenza sul precetto anche civile da parte del diritto comunitario, estesa al diritto di famiglia: v. Diritto penale della famiglia, Iv, Trattato di diritto di famiglia diretto da Zatti, 2002, Milano). Come studiato diffusamente da MAUGERI, vi è anche l’efficacia autoesecutiva delle norme CEDU, che giungono come principi nel diritto interno, anche senza la mediazione della CG, attraverso i giudici nazionali.
Secondo noi, tuttavia, anche per i giudici di ultima istanza, dovendo leggersi l’art.234 Trattato sulla c.d. pregiudiziale comunitaria in maniera diversa(v. M.CAPIROSSI, Introduzione su ( a M. Salvadori su “ Il rinvio pregiudiziale del giudice italiano davanti alla Corte di giustizia delle Comunità europee:il giudice del rinvio; obbligatorietà o meno del rinvio”) interpretazione della norma nazionale e della norma comunitaria; effetti interni ed esterni del controllo diffuso giudiziale del giudice nazionale quale giudice comunitario, Corso Cedam 2005, cit. ). L’art. 234 (ex 177) sarebbe attributivo della competenza esclusiva alla C.G. con una facoltizzazione al giudice nazionale a decidere autonomamente. Ma per ulteriori riflessioni rinviamo a Norma e sanzione comunitaria dell’illecito, cit;
RIONDATO ha ancora sottolineato la legalità comunitaria di contro alla .c.d. l. statuale e la portata anche agli effetti processuali interni dei principi CEDU, degli artt. 220 ex 164 TCE, 5 TCE ora art. 10. Di recente, A. BERNARDI, L’europeizzazione del diritto e della scienza penale, Torino, Giappichelli, 2004.
[14] Rinviamo ancora al suo fondamentale Comunità Europee e Diritto penale. I rapporti tra l’ordinamento comunitario e i sistemi penali degli stati membri, cit.
[15] Ancora, si veda Corte di Giustizia europea-Grande Sezione-sentenza 16 giugno 2005 (Anche le decisioni-quadro sono fonti comunitarie. Il diritto nazionale va interpretato in conformità ad esse), in Diritto e Giustizia, 28/2005 del 16 luglio 2005, p. 105 e segg. E CG CE 13 settembre 2005, di annullamento decisione quadro 2003/80/Gai di Consiglio del 27 gennaio 2003 –Guce 5 febbraio 2003, L 29- in Diritto&Giustizia@.it. Qui importante è che gli artt. 135 e 280 n. 4 non vengono interpretati per escludere la competenza comunitaria anche in materia di sanzioni penali in materia di ambiente (v. Natalini; Riondato). A parte la complessa questione dei rapporti fra Comunità E. e U.E. esaminati in tale decisione, val la pena ricordare (Riondato, La Comunità europea è competente…, cit., su Grande Sezione 13 settembre 2005 C-176/03 Commissione C.E.E. contro U.E.) che la decisione quadro annullata definiva i reati contro l’ambiente oggetto obbligatorio di sanzioni penali, in quanto la Commissione si era opposta all’opzione di uno strumento del Terzo Pilastro per imporre agli Stati membri l’obbligo di prescrivere sanzioni penali, in quanto il corretto fondamento normativo sarebbe stato l’art. 175 n° 1 Trattato C.E.E. (vedi proposta direttiva presentata il 15 marzo 2001 per Parlamento e Consiglio). Il Parlamento del 9 aprile 2002 aveva condiviso l’orientamento della Commissione sulle competenze comunitarie e aveva invitato il Consiglio ad usare la decisione quadro come complementare alla direttiva da adottare. La Commissione davanti alla Corte sosteneva che il legislatore comunitario è competente ad obbligare gli Stati alle sanzioni penali per infrazioni alle norme comunitarie sull’ambiente. Si riferiva a precedenti su effettività ed equivalenza in causa C/76, C-186/98, C-2/88. La Commissione non sosteneva l’illegittimità dell’intera direttiva, se non in via derivata.
Chiaramente Consiglio e Stati membri eccepivano il difetto di competenza della Comunità nell’obbligare i membri a sanzioni penali, mancando attribuzione espressa di competenza e contestando che la competenza possa essere trasferita implicitamente alla Comunità in occasione dell’attribuzione di competenze sostanziali specifiche, ad es. ex art. 175 Trattato C.E. e, in tale prospettiva, si è riletta la tesi per cui gli artt. 135 e 280 Trattato C.E., riserverebbero esplicitamente applicazione del diritto penale e l’amministrazione della giustizia ai singoli Stati, mentre il Trattato sull’Unione Europea ha un titolo specifico sulla cooperazione giudiziaria in materia penale (artt. 29, 30, 31, lettere e, Trattato), i quali conferirebbero espressamente all’U.E. una competenza in materia penale nella determinazione degli elementi costitutivi dei reati e nelle sanzioni. Per il Consiglio e gli Stati sarebbe contraddittorio ritenere un’attribuzione implicita alla Comunità e una espressa all’Unione di tale competenza, sia pur avendo a mente i principi della Corte di Giustizia in termini di sanzioni sostanziali e procedurali analoghe a quelle di diritto interno simili per natura ed importanza, in tema di effettività, proporzionalità e capacità dissuasiva (C.G.C.E. 21/09/1989, causa 68/98 Commissione contro Grecia). Gli Stati in altri termini potrebbero scegliere la via amministrativa e la via penale, purchè dissuasiva, effettiva e proporzionata. Le decisioni quadro sarebbero quindi mezzi legittimi, perché esterni alla competenza penale, oggetto dell’armonizzazione. Il Regno dei Paesi Bassi riteneva in verità che la Comunità potesse obbligare, ferma la necessarietà, gli Stati al penale. A condizione del legame inscindibile delle disposizioni penali rispetto al settore. La Corte di Giustizia, ritenendo su binari paralleli le disposizioni e l’autonomia del Trattato C.E., riconosce che l’ambiente è obbiettivo essenziale della comunità ex art. 175 Trattato (Conf. S. Riondato Per un’introduzione ai rapporti al diritto penale dell’ambiente, diritto comunitario, diritto della comunità Europea, in AA.VV., La tutela penale dell’ambiente, a cura di P. Amelio-S.F. Fortuna, Torino, 2000, 35.). Così, per la Corte di Giustizia, è la Comunità Europea (si badi bene non l’U.E.) a non incidere con la legislazione penale col nome di procedura penale. Tuttavia la Comunità Europea può adottare provvedimenti in relazione al diritto penale degli Stati membri se necessario per garantire l’efficacia delle norme che emana nelle sue sfere di competenza. Sul punto, la decisione quadro lascerebbe agli Stati la scelta delle sanzioni penali applicabili, purchè effettive, proporzionate e dissuasive. Così, gli artt. 1-7 della decisione quadro avrebbero potuto adottarsi ex art. 175 Trattato C.E.. La riserva ex art. 135- 280 n° 4 Trattato C.E., per la cooperazione doganale e la lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità, agli Stati membri, dell’applicazione del diritto penale nazionale e l’applicazione della giustizia, non esclude che sia possibile l’armonizzazione penale non possa avvenire nei settori di competenza della Comunità.
Viganò (vedi il testo della decisione-quadro, cit.), ad esempio sull’obbligo ex art. 4 per gli Stati e sanzioni penali alle persone fisiche, osserva che la tutela dell’ambiente doveva regolarsi con la direttiva, strumento del Primo Pilastro. Bene, è stato osservato che anche le contestazioni del Consiglio degli Stati membri delimitavano la presunta riserva in favore degli Stati alla cooperazione doganale e agli interessi finanziari della Comunità, quasi a seguire le tesi di M. Delmas-Marty – J. A. Vervaele, La mis en…, cit.. A fronte della acuta osservazione de facto sull’inutizzo della direttiva per obbligare a sanzioni penali gli Stati, e a fronte dell’uso delle decisioni quadro, vi è il citato nuovo orientamento della C.G. circa la facoltà del legislatore comunitario in relazione al diritto penale degli Stati, anche con direttiva e per pene privative della libertà. Qui è il tema sviluppato nel testo della relazione, sulla facoltà comunitaria di determinare il contenuto del precetto direttamente e di operare come fonte sovraordinata di invalidità-inefficacia quanto a sanzione penale del precetto, in presenza degli standars di tutela. La discrezionalità tecnica nazionale di legiferare secondo la direttiva, comporterebbe la necessaria disapplicazione interna della normativa nazionale contrastante, salvo il profilo relativo all’attuale non operatività diretta delle direttive non attuate ma determinate e dettagliate che si limitino ad attribuire diritti ambientali e obblighi di soggezione alla potestà punitiva dei privati. Ma sul punto si tornerà, non solo da noi, anche tenuto in conto il necessario bilanciamento tra situazione giuridica e soggettiva.
[16] Invero, il Trattato costituzionale europeo di Roma -29 0ttobre 2004- costituzionalizza all’art. 273 III Eurojust (avvio indagini, proposta avvio azioni penali, coordinamento etc.) e all’art. 274 prevede che “a partire da Eurojust”, per combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, una legge europea del Consiglio può istituire una Procura europea, con possibilità di estensioni di competenze. Su questa linea, da segnalare il Programma dell’Aja adottato il 4 e 5 novembre 2004 in seno al Consiglio (G.U. U.E del 3 marzo 2005). La legge 41/2005 ha dato attuazione in Italia alla decisione del Consiglio dell’U.E. del 28 febbraio 2002 istitutiva di E. Dopo il Consiglio e. di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 –raccomandazione 46- , il 14 dicembre 2000 il Consiglio decideva di istituire un’Unità provvisoria di cooperazione giudiziaria appunto denominata E. Di recente, V. Lo Voi, A. Laudati, cit, e C. Manfredda-E. Barbe, La cooperazione giudiziaria tra stati all’interno dello spazio giuridico europeo: il mandato d’arresto europeo, la raccolta e l’utilizzazione delle prove, lezione di modulo B, Corso di Diritto comunitario e sanzioni penali e amministrative nell’ordinamento giuridico italiano, Cedam, 2005, diretto da M.C.Capirossi-G. Donà, Atti e Dispense di Corso.
[18] “ L’estensione verticale e orizzontale dell’Unione Europea impone un ripensamento del suo diritto”. Sull’inserirsi del diritto comunitario ad un certo livello fra i due poli del diritto piramidale kelseniano dello Stato e quello internazionale e, quindi, sul “diritto internazionale a geometria variabile” per le sovranità limitate, v. M.G. LOSANO, Diritto turbolento.Alla ricerca di nuovi paradigmi nei rapporti fra diritti nazionali e normative sovrastatali, in RIFD, 3/2005, p. 403 e segg.
Il diritto internazionale (orizzontale, come quello privatistico) da un lato e quello statuale (verticale-gerarchico) dall’altro videro ad un certo punto l’inserimento di un diritto intermedio, che negli anni trenta fu visto in prospettiva piramidale (K. Schmitt), accanto ad una concezione moderna concezione federalista. Sulla coesistenza fra le due dottrine, V. M.G. LOSANO, La dottrina dei grandi spazi come eredità delle dittature, in Introduzione a una “rivoluzione federale europea” alla fine della Seconda guerra mondiale, in U.CAMPAGNOLO, Verso una Costituzione federale per l’Europa. Una proposta inedita del 1943, Giuffrè, Milano, 2003.
[19] Con una battuta, vi è semmai un limite strutturale della potestà comunitaria in materia di diritto penale in senso tecnico. Che esso non può essere attirato in una competenza ad esercizio esclusivo da parte del legislatore comunitario, secondo la Corte di Giustizia. Di quanto espresso in questa relazione si ha conferma nei casi recentemente decisi dalla CGCE.
[20] Il problema solo in parte coincide col più vasto istituto, che nella grande maggioranza dei paesi costituisce, a prescindere dalla doppia valenza sostanziale e processuale, criterio di collegamento fra norme a carattere sanzionatorio. L’ordinamento giuridico porta con sé, difatti, una sorta di principio di giustapposizione fra istituti sanzionatori od incriminatori, nel senso –come in altra sede abbiamo osservato (Norma e sanzione..cit)- che vengono predisposti meccanismi (in Italia, quello del concorso apparente e-come conseguenza logica- del principio di specialità: di chiarimento su quale delle disposizioni si applichi ) nell’ipotesi che si intenda appunto che in una norma si vogliano sanzionare condotte espressamente od implicitamente già ricomprese in un’altra e che non meritino cumuli sanzionatori. Certo l’o.g. può volere una pluriqualificazione a mezzo diverse fattispecie, finalizzate a tutelare diversi interessi. In tal caso non opereranno tali meccanismi di confine.
In diversi o.g. i meccanismi di risoluzione dei casi di non voluta pluriqualificazione sono impliciti o caratterizzati dal ricorso a criteri di principio come il ne bis in idem (si pensi al diritto francese o a quello inglese; rinviamo al ns. Concorso apparente..cit), mentre nel diritto italiano, non solo penale, si è organizzata la regola aperta del ‘concorso apparente’, con l’opzione in fase successiva, avutasi la soluzione dell’apparenza del concorso, per la regola problematica di specialità ( a moltissimi ordinamenti ignota).. Non è questa la sede (per la miglior dottrina, De Francesco, Papa, Prosdocimi etc) per approfondire, ma basti aver accennato al fatto che le fattispecie vanno viste insieme nei loro rapporti reciproci. Ad esempio (in tal senso, V. M. CAPIROSSI, Introduzione al delitto di riciclaggio: profili comunitari e aspetti problematici, Relazione al Convegno “Reati da riciclaggio e nuove normative: obblighi dei professionisti”, Casale Monferrato, 13 maggio 2005, in Sito www.dirittopenaletributario.net; M. C. CAPIROSSI, La struttura complessa del delitto di riciclaggio..cit; M.C. CAPIROSSI, Riciclaggio nel quadro comunitario.Direttive e altre fonti normative. Effetti interni., Relazione al Convegno CDPT, Reggio Calabria, 10 febbraio 2006, in Atti Convegno), non sarebbe possibile dar significato all’art. 648 ter se non innestandolo sull’art. 648 bis e, a loro volta, a questi due se non innestandoli sull’art. 648 c.p., di cui non richiamano espressamente le modalità descrittive del fatto, che son per così dire tacite (per la nozione degli elementi di tacitità delle norme in fase ermeneutica, ci permettiamo di rinviare al ns. La legge sull’interpretazione..cit., ove abbiamo cercato di evidenziare che una delle ragioni dell’interpretazione sistematica, che non contrasti con quella letterale, sta proprio nel leggere le norme nel loro collegamento. Solo difatti se si avvicinano fra loro le norme, ricercando per così dire la norma estesa di riferimento che va a connotare di tipicità un’area di fatti, è possibile eleggere il trattamento di disciplina o sanzionatorio che la medesima dà ad una porzione di tali fatti, senza incorrere nelle inestricabili nebbie della specialità. Dato che l’elemento della colpevolezza deve comunque investire quel segmento, non sorgono problemi in tema di autonomia del reato.
Se torniamo perciò a quanto riferito nel testo, anche qui sono sorte questioni interpretative, ad esempio sull’art. 54 della Convenzione di Shenghen (v. Van den Wingaert, cit), se dare senso giuridico o materiale alla nozione di ‘identità di fatto’.
Sotto il profilo internazionale il n.b.i.i. non è generalmente riconosciuto, diversamente dal diritto comune. Il Comitato dei Diritti dell’Uomo O.N.U. in decisione 2 novembre 1987 (ind.pen. 1988, 124 ss.) lo considera solo principio interno, anche se vi sono varie Convenzioni internazionali (Fabbricatore). La convenzione di Bruxelles dell’’87 non fu ratificata da tutti, e sarebbe con ciò ora superata da Schenghen.
L’acquis di Shengen di cui fa parte la convenzione applicativa (Consiglio europeo con decisioni 1999/435-436/E), basato giuridicamente nel titolo VI trattato di Amsterdam, è stato integrato nell’ Unione Europea (http://ue.int/jai/schenghen/SCH:ACQUIS-it.pdf.).
“Una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello stato contraente di condanna, non possa più essere eseguita”. La CGCE (v. Salazar, Ciampi, Ingravallo, Selvaggi, Vervaele, Fabbricatore, etc) 11 febbraio 2003, cause riunite, adita in via pregiudiziale, ha statuito che “il principio del ne bis in idem, sancito dall’art. 54..si applica anche nell’ambito di procedure di estinzione dell’azione penale..in forza delle quali il p.m. di uno stato membro chiude, senza intervento di un giudice, un procedimento penale promosso in questo Stato, dopo che l’imputato ha soddisfatto..” (http: curia.eu.int/en/communiques/cp03/aff/cp007en.htm).
In base all’art. 35 Trattato UE (pregiudiziale della CG su validità o interpretazioni di decisioni quadro o decisioni) invero la GC si è ancora pronunziata (Sez, V, 10 marzo 2005, C-469-03, Miraglia –www.ipsoa.it/cn/upload/P42_cortedigiustizia-CE100305_469.pdf; Riv.it.dir.e processo, 2005, 520. ) in argomento chiarendo che per “sentenza definitiva” deve intendersi un accertamento di merito includente le c.d. mediazioni penali. Sul rilevo, infine, dell’ art. 50 Carta diritti fondamentali U.E., rispetto all’art. 7 protocollo della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che ha esteso il n.b.i.i. al territorio dell’ Unione, rinviamo.
[21] Commentando sia la CGCE Plenum 11 febbraio 2003 in C-187 e C-385/01 c/ Gozutok e Brugge (Int’l Lis ¾ 2003 p. 115) e CGCE V del 10 marzo 2005 in C-469/03 c/ Miraglia (Int’l Lis ¾ 2005 p. 115 ss) A. CIAMPI (La nozione europea di “persona giudicata con sentenza definitiva” e le condanne “patteggiate” e Sull’ovvia inefficacia preclusiva della pronuncia di applicazione “preventiva” del principio del ne bis in idem, ibidem) bene si è posto il fuoco sulla Convenzione di Bruxelles sulla libera circolazione delle decisioni giudiziarie civili e commerciali. Aggiungerei che è settore affatto diverso in quanto le decisioni civili riguardano illeciti la cui collocazione spaziale e territoriale non genera interferenze, diversamente da quelle penali. La libera circolazione delle decisioni penali presuppone la totale fiducia reciproca fra i paesi –il ne bis in idem ne è conseguenza- anche tenuto conto che le decisioni possono essere diverse a seconda del paese emittente pure qualora più paesi possano essere competenti a decidere stanti i diversi criteri di estensione territoriale dello jus puniendi. Il locus commisi delicti può avere forme alternative e soprattutto differenti fra stato e stato, fondanti giurisdizionalità non giustapponibili e con ciò interferenti, con conseguenti astratte difformità di trattamento sostanziale, anche di diritto penale sostanziale. Si pensi alle prescrizioni, alla diversa configurazione delle fattispecie e delle specialità fra ambito sanzionatorio e ambito sanzionatorio, al trattamento degli elementi accidentali ove non ritenuti sostanziali (agli effetti della colpevolezza richiesta) e via dicendo.
In campo penale il principio di mutuo riconoscimento sarebbe ancora programmatico (se si eccettua il mandato di arresto) in positivo, ma non in negativo attraverso l’effetto preclusivo “dell’instaurarsi in un altro Stato membro di un nuovo giudizio a carico di uno stesso soggetto per lo stesso fatto”. Difficoltà sarebbero rappresentate nella diversità –sottovalutata dalla Corte- intraordinamentali sull’effetto accertativi delle deflazioni patrizie dei giudizi sulla responsabilità. Sarebbe valorizzata in ogni caso l’autonomia del giudizio penale rispetto ai diritti civili della vittima (CARRATTA, Sentenze di patteggiamento, accertamento semplificato dei fatti e riflessi sul giudizio civile, Riv.it.dir.e proc.pen., 2001, 439 ss ).v. altresì AMALFITANO, Dal ne bis in idem internazionale al ne bis in idem europeo, RDIPP 2002, 923 ss; BARATTA, Ne bis in idem, diritto internazionale e valori costituzionali in Divenire sociale e adeguamento del diritto, studi in onore di Francesco Capotorti, I, Milano, 1999, 3 ss)..
La sentenza del 2005 è invece interessante per l’argomento di cui a nota infra, resa ai sensi dell’art. 35 (competenza su validità dd.q. e d.). Gli stati membri che accettano questa competenza della CG (pregiudiziale) possono estenderla a tutte le giurisdizioni o rendere sola facoltà il rinvio per il giudice nazionale. In tal caso la CG ha escluso la giustificazione dello Stato olandese di invocare il ne bis in idem per rifiutare la richiesta cooperazione, con criterio suscettibile di incidere sulla portata dell’art. 2 lett. b) CEAG, in relazione al quale non ha competenza.
[22] Per il tema, si rinvia a Paliero, Maugeri. Di recente, anche in campo societario l’orientamento ciclistico in tema di responsabilità per rischio di impresa è divenuto importante nel campo della responsabilità “per amministrazione”, ad esempio del c.d. amministratore di fatto. L’orientamento, non senza questioni, si è ormai stabilmente diffuso anche ai fini penali, per le problematiche connesse anche ai profili della lacuna e dell’interpretazione sistematica, tenuto conto del carattere sanzionatorio e della natura “connessiva” del diritto; M.C. CAPIROSSI, Legem non curat Praetor. Responsabilità civili e penali dell’amministratore di fatto. Un caso di interfaccia nell’ermeneutica penalistica, in Riv.trim.dir,pen.economia, 2006.
Di recente, A. ALESSANDRI (Attività d’impresa e responsabilità penali, in Riv.it.dir.e proc.pen, 2/2005, p. 534 e segg.) ha manifestato condivise perplessità sull’uso improprio dell’estensione del dolo e delle finzioni per costruzioni di colpa normativa, nel quadro delle tecniche penalistiche di imputazione a soggetti monade da un lato e per eventi naturalistici di difficile individuazione eziologia, anche rispetto ai c.d. obblighi impeditivi.. L’A. suggerisce la separazione dei paradigmi di responsabilità amministrativa focalizzati sugli enti da quelli tradizionali e problematici della responsabilità amministrativa individuale della 689/81 sia pur corretta con regole di solidarietà. Anche l’allontanamento dal principio di specialità fra sanzioni amministrative e penali non garantirebbe l’efficienza preventiva. All’A. si rinvia sia per le lucide considerazioni sulla c.d. pena pecuniaria di matrice tedesca (StGB § 43.a:”..in aggiunta alla pena detentiva…, condannare a….somma di denaro, la cui entità ha come limite massimo il valore del patrimonio ..(pena patrimoniale)” e sulle estensioni recenti della confisca (v. Cass., III, 3/12/2003, Ced cass n. 227220).
Accogliamo solo parzialmente il suggerimento dell’A. di una “responsabilità amministrativa diretta e agganciata al fatto dell’agente, ma non alla sua responsabilità” (p.551) proprio perché già nel d.lgs. 231/2001 la responsabilità dell’ente passa “attraverso l’accertamento della responsabilità della persona fisica e poi risale.., a determinate condizioni, a quella giuridica, secondo uno schema che arieggia quello fatto proprio e articolato..”. Basti infine richiamare le nuove imputazioni alla persona giuridica contenute nella normativa antitrust (L. 10 ottobre 1990 n. 287), radiotelevisiva (L. 223/90), Mammì; L. 3 maggio 2004 n. 112, Gasparri) , depenalizzazione (d.lgs. 507/1999), riciclaggio (D.lgs. 20 febbraio 2004 n. 56).
Vede addirittura nella c.d. colpa di organizzazione una “nuova figura” di “compromesso dogmatico”, tale da caratterizzare il diritto penale dell’impresa come un “microcosmo giuridico” provvisto di una propria “parte generale” A.F. TRIPODI ( “Situazione organizzativa” e “colpa in organizzazione”:alcune riflessioni sulle nuove specificità del diritto penale dell’economia, in Riv.trim.dir.pen.ec., 1-2/ 2004, p. 483 e segg). Un ultimo cenno fa fatto all’ampia discussione sulla categoria, come noto introdotta da K. Tiedemann Die “Bebussung” von Unternehmen nach dem 2.Gesetz zur Bekampfung del Wirtschaftskriminalitat, in NJW, 1988, 1169; da B. Schunemann, Unternehmenskriminalitat un Stafrecht, Koln, 1979). Anche in BRICOLA vi furono importanti contributi, purtuttavia tali da non distogliere il fuoco della discussione, anche per la responsabilità amministrativa, dalla c.d. immedesimazione organica. Lo stato dello sviluppo dell’illecito amministrativo, tuttavia, ci pare andar nel senso della necessaria trasposizione del coefficienti di colpevolezza in capo ai titolari degli organi, in ogni caso.
[23] Rinviamo al recente lavoro (M.CAPIROSSI, La Società colpevole. Responsabilità amministrativa per causazione di reato, in Giur.it. ,2006; v. anche, M.C. CAPIROSSI, Concorso nelle responsabilità..cit; ) necessaria ripresentazione di una teoria ancora non diffusa, sull’argomento. La dottrina penalistica, seppur la più attenta (Paliero, Mannozzi, cit), ha difatti portato il reato, costitutivo di evento causato da colpevolezza quantomeno colposa in seno all’impresa, obliterando il fatto che esso non è che un segmento del atto rimproverato all’impresa in quanto evitabile, ad una figura esaustiva del fatto illecito sul piano oggettivo. E’ parso con ciò naturale collegarlo eziologicamente alla condotta dell’apicale o dipendente, senza ricorso ad elementi mediali.La conseguenza è stata lo slittare della qualificazione alla responsabilità penale.Tuttavia, non è lo stesso ‘fatto’ che viene rimproverato al soggetto attivo del reato (corruzione, falso in bilancio etc) da un lato e all’ente collettivo dall’altro. Per il primo trattasi di reato, per il secondo no in quanto i criteri oggettivi di riconoscimento della responsabilità sono affatto diversi, soprattutto dal lato causale, posto che un nesso eziologico da società a reato connota l’elemento oggettivo dell’illecito, parallelamente alla normale causalità tra fatto dell’imprenditore ed evento-reato.(responsabilità ammnistrativa per causazione di reato).
[24] Draetta, Riz, Grasso, Bernardi, Riondato.
[25] Spesso agli interpreti “interni” delle norme trattatizie come applicate dalla Corte di Giustizia in via interpretativa pregiudiziale vincolante ex tunc ed erga omnes, con effetto disapplicativo od invalidativi verso gli organi di applicazione della legge da un lato e verso i legislatori dall’altro, sfugge che, come go anticipato, l’unico limite costante alla potestà in materia penale per le fonti comunitarie, ad avviso della CGCE ad oggi è l’integrale disciplina sanzionatoria interna (integralità del contenuto del c.d. precetto, dettagli del regime sanzionatorio, in relazione ad istituti di trattamento (parte generale, principi, regole delle vicende nel tempo e nello spazio, interno e non..etc). Ma essendo limite intrinseco, non è contenuto nella potestà attributiva della correlativa giurisdizione della Comunità e della GCCE.
Lo sviluppo del testo, che ora si integra, consentiva (anticipava) quindi le seguenti aperture della giurisprudenza creativa comunitaria.
Già si è ricordata la sentenza Pupino dello scorso maggio 2005, importante in quanto collegata al ruolo che la Corte impone al Giudice nazionale. Al di là dell’integrazione del diritto interno (a fortiori dovrebbe valere se esso, come detto è lacunoso) in deroga, a mezzo della norma comunitaria sviluppata internamente dall’AGO, attraverso l’interpretazione diretta consentita dall’art. 134 Tr. ovvero attraverso la portata potenziale delle norme autoapplicative, vi è di più. In altre parole, non vi è solo, ora per il Giudice nazionale, un meccanismo analogo a quello integrativo della norma in caso di lacuna, tipico del diritto interno ma in caso comunitario consentito ad contrastum. Ma vi è anche una potestà ermeneutica nuova ed innovante, che incide sul diritto nazionale, che appunto deve essere interpretato conformemente, oltre i limiti imposti, ad esempio nell’ o.g. italiano, dalle disposizioni sulla legge in generale.
Ma andiamo ancora oltre, senza dimenticare che, data la sede sintetica, va letta con attenzione l’intera vicenda (Sotis, Obblighi comunitari di tutela e opzione penale:una dialettica perpetua?, cit; ; D’AMico) “scientifica” Berlusconi, che ha portato la dottrina e la magistratura inquirente lombarda addirittura alla rielaborazione della materia, ben prima della CGC. “..la giurisprudenza costante della Corte relativa all’art. 5 del Trattato…pur conservando la scelta delle sanzioni, gli Stati membri devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano punite, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in forme analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto interno, simili per natura e importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere..”(la tesi dell’avvocato generale era la disapplicazione della nuova normativa interna sulle false comunicazioni sociali, con riviviscenza della disciplina penale previgente ex art. 2621 c.c.) dice la CG, sull’art. 5, in pratica tuttavia non utilizzato dai rimettenti, concentrati sulle direttive (RIONDATO, Il falso in bilancio e la sentenza della Corte di Giustizia CE: un accoglimento travestito da rigetto, in RDPeP,2005, 911) che in effetti in quanto tali non impingono sulla responsabilità penale. Nella causa Niselli (11 novembre 2004 n. C-475/02, in DpeP, 2005, 386) la CGCE aveva ammesso la disapplicazione di una legge penale successiva contraria a direttiva comunitaria, con reviviscenza della legge penale previdente ed applicabile (senza forzare il principio di legalità ed il divieto di retroattività da un lato e quello di retroattività della legge più favorevole legittima) in quanto vigente al momento del fatto, poiché “sussisteva una legge penale nazionale intesa come attuativa del disposto comunitario” (RIONDATO, cit, p. 911), ma nella causa contro Berlusconi ed altri non era stato sostenuto che l’ex 2621 era attuazione del principio di adeguatezza sanzionatoria che in materia è previsto dalle direttive (attuazione incidentale) né tantomeno fu sostenuto che tale 2621 aveva sposato le esigenze dell’art. 5 trattato.. La Corte qui “rinveniva” nel diritto comunitario un principio benigno del favor, in vero ammissibile solo con effetto solo ex nunc, stante l’affidamento, nell’ordinamento costituzionale (reviviscenza con effetto ex nunc) (L. CARLASSARE, voce Legge (riserva di), in Encicl.Giur.Treccani, XVIII, 1990; RIONDATO, Retroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole, tra legalità e ragionevolezza, in AA.VV. Diritto e clinica.Per l’analsi della decisione del caso (cura U.Vincenti), Padova, 2000, 250 ss).
Se quindi la decisione ricordata tocca i rapporti col legislatore e se la sentenza Pupino con effetti estesi ha confermato l’interpretazione conforme al diritto comunitario (riconosciuta già dalle decisioni GC van Colson del 10 aprile 1984, 14/83; anche per le norme nazionali anteriori : v. Marleasing del 13 novembre 1990 106/89; per la materia penale v. CGE 8 ottobre 1987, 80/86), nella cennata sentenza Niselli C-457/02 (dell’11/11/2004, in DPeProcesso, 2005, 386) si affrontò il problema se la direttiva priva di effetti diretti fosse parametro di valutazione della legittimità comunitaria della norma interna “dopo la scadenza, efficacia di incidere sulla valida formazione delle regole nazionali” (v. conclusioni avvocatura generale in CGCE 16 dicembre 1999). Le conseguenze sarebbero state di attribuire forza di resistenza a leggi “comunitariamente necessarie” -Sotis-, anche anteriori alla direttiva; c.d. “invocabilità d’esclusione” della direttiva sprovvista di effetti diretti. E anche nella causa Berlusconi (per una sintesi efficace, RIONDATO, DpeProc, 2005, 782 ss) la CG non statuisce sul giudice penale, ferma la procedura d’infrazione contro lo Stato inadempiente e, chiaramente, l’intervento della Corte Costituzionale. Così, la giurisprudenza già riversata in CGCE 26 settembre 1996, causa 168/95m, Arcaro, dell’inesistenza “nel diritto comunitario, di un meccanismo che consenta al giudice nazionale (ordinario) di eliminare disposizioni interne in contrasto con una direttiva dalla quale discendano obblighi di tutela penale e rispetto a cui lo Stato sia inadempiente, avendo predisposto una normativa penale inadeguata rispetto agli standard richiesti in sede comunitaria” (Viganò), è ancora costante.
Le conclusioni Kokott sono ben riportate in S. RIONDATO (Illegittimità comunitaria dei nuovi reati di falso in bilancio,Dir.pen.e processo, 12/2004, p. 1573 ss.), che ne trae che “quel giure di fonte europea costituisce a pieno titolo un formante della tutela penale europea”, a partire da causa SAIL 21/3/72, 82/71. L’efficacia del diritto comunitario “non può variare a seconda dei diversi settori del diritto nazionale nei quali esso può spiegare effetti”; v. 16/2/78, 88/77, “in quanto esista un momento di collegamento tra il diritto nazionale in questione e il diritto comunitario, in modo tale che il principio o la regola comunitaria invocati risultino riflessi su rapporti regolati dal diritto comunitario (29/5/97, 299/95; 13/6/96, 144/95; 17/10/84, 83-84/84)” e sempre che “il diritto comunitario non escluda l’effetto che si vorrebbe implicare”. Esisterebbe “un principio di penalizzazione e un principio di effettività che si riverberano trasversalmente dal piano giuspenale sostanziale al piano penal-processuale..esiste un principio di proporzionalità sul precetto anche penale,..che il giudice penale (e non una Corte ad hoc, come per es. da noi la Corte Costituzionale) è tenuto ad applicare (sia in bonam che in malam partem) sindacando la norma penale, compreso il sindacato di proporzionalità sul precetto anche penale, che ormai la Corte di Giustizia rinvia senz’altro al giudice penale nazionale (v. la recente sentenza in tema di scommesse 6/11/2003 c-242/01).
Ancora richiamiamo alcune anticipazioni di C.Cost. 26 maggio 2004 n. 165 e n. 161, in Dir.pen.e processo, 12/2004, p.1497 e segg.) in attesa che dopo le sospensioni la Corte prenda posizione. La disciplina favorevole, che è tale perché abrogatrice di una più severa disciplina previdente, non creerebbe alcuna disparità di trattamento proprio in virtù dei principi dell’abolitio criminis e della retroattività della normativa successiva più favorevole, che consentono di estendere ai fatti pregressi la nuova disciplina favorevole.. questa sarebbe materia non sottraibile al legislatore ed immune da sindacato costituzionale di razionalità. Anche il ricorso all’art. 13 comma 4 Cost. aveva suscitato rilievi (divieto del legislatore di abrogare norme attuative di obblighi costituzionali di tutela) per la sua limitatezza. Ma la Corte costituzionale, in sede di citata sospensione del giudizio c/Berlusconi, non affrontò il problema della trasfusione costituzionale del profilo analogo tipico del diritto comunitario.
Ora, dopo le decisioni della CG sul caso, si apre la discussione (si veda, F. GIUNTA, Commento: il nuovo falso in bilancio si sottrae (agevolmente) al potere di censura della Corte Costituzionale, in Dir.pen.e processo, p. 1504 ; e La vicenda delle false comunicazioni sociali. Dalla selezione degli obiettivi di tutela alla cornice degli interessi in gioco, in Riv.trim.dir.pen.ec, 2003, 650 ss.; A.LANZI, Sulle condotte a rischio di sanzioni penali nessuna interferenza con il legislatore, in Guida.dir. 2004, 25, 92 ss; A. DI MARTINO, Nel mirino dei giudici costituzionali i limiti delle soglie di rilevanza penale, commento a Trib.Milano, II, 12/2/2003 in Guida.dir. 2003, 10, 74 ss.; se l’effetto abrogativo di una norma più favorevole eventualmente da disapplicarsi dall’autorità nazionale resti intatto ovvero porti il caso a far rivivere le norme già abrogate come accadrebbe in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale: conf. sembra Cass. in Corr.sera 16/10 2004 n. 17).
[26] Si veda per tutti M. D’Amico e C. Sotis. In senso diverso RIONDATO, che considera giustamente “giudice nazionale” anche il Giudice delle leggi. Sarebbe da studiare, così, il destino sia delle manipolazioni (s. additive, manipolative, interpretative etc.) sulla legge interna, sia l’eventuale caducazione in conseguenza di interventi delle C.Cost. in sede di c.d. teorici controlimiti, che potrebbero essere disapplicate proprio dai giudici ordinari stante la primazia del diritto comunitario quale principio cristallizzato nel diritto. Per il ruolo costituzionale, rinviamo per le notazioni generali a Norma. Cit.
[27] In generale sulle fonti, di recente M.D’AMICO-G. ARCONZO-S. CATALANO, Le fonti del diritto europeo nel sistema attuale e alla luce del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, lezione Corso Cedam 2005 Padova, cit,; N. ZANON, Le fonti del diritto europeo nel progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, in La Rivista del Consiglio, 2004, f. 2; F. DONATI, Le fonti del diritto dell’Unione, www.giustamm.it;
[28] Ci occupiamo di un caso di antinomia per affrontare un tema più generale, relativo alla dogmatica delle fonti. Da quando si è verificata la prima interferenza storica agli effetti interni –al di fuori dal diritto internazionale patrizio- attraverso il riconoscimento esterno –e di qui interno, che conferma appunto l’oggetto del riconoscimento- in sede comunitaria dei diretti effetti interni, ad opera del giudice e ora anche chiaramente della p.a., della diretta operatività delle fonti comunitarie o connesse (v. decisioni quadro, etc.), si è posto con urgenza il problema della concorrenza in uno delle fonti e dei loro rapporti. Ancora in altri termini, si è posta la necessità di una nuova figura (per la nozione di ‘figura’, v. il Ns. Glossario in calce alla Norma.. cit., con la bibliografia) delle fonti. Difatti, se l’ordinamento delle fonti c.d. comunitario contribuisce direttamente a normare internamente tanto in sede precettiva quanto in fase di elementi normativi presupposti, quanto in termini sanzionatori (addirittura con effetti diretti, molto oltre quanto avviene per le c.d. leggi delega interne) e via dicendo, sorge la questione di come porre in relazione normativa (parallelo, pariordinazione, gerarchia etc.) appunto i luoghi di uscita normativa. Losano ha sottolineato (come Del mas-Marty, da noi Bernardi) che la gerarchia va integrata, nel diritto, con il carattere reticolare del diritto e noi in parte abbiamo aderito anche in questo testo, con importanti riserve. Il paragone con la struttura multimediale dei testi normativi, va bene, ma non toglie che per quanto sia complesso il ruolo dell’interprete del diritto, ad orientarsi nella complessità dei rinvii anche impliciti verso il basso o l’alto contenuti in norme interne, internazionali o comunitarie, vi è un criptoprincipio, a carattere metanormativo, in base al quale una fonte è tale se “norma” direttamente in astratto, andando a modificare le vicende giuridiche esistenti? Il caso delle leggi delega parrebbe confermarlo in quanto se non sono attuate perdono vigore, ma è anche vero che se parzialmente o inesattamente attuate hanno valore di principio cogente e su di esse la C.Cost. interviene per attuarle caducando i d.lgs. “infedeli” al richiesto tasso di riserva di legge. Anche le leggi quadro farebbero eccezione e comunque le norme primarie o sovraordinate avrebbero effetti indiretti.
Allora, vediamo il giudicato contrastante col diritto comunitario. Che sorte ha secondo la Corte di Giustizia? A nostro avviso il diritto comunitario inattuato in giudicato ha vigore diretto per il diritto interno e difatti legittima azioni di danni quantomeno per equivalente davanti ai giudici nazionali, se il giudice di ultima istanza ha deciso erroneamente, senza chiedere intervento “interpretativo” (non della norma c. derivata, ma della sua estensione a situazioni nuove alla luce delle norme primarie contenute in Trattato) alla C.G. nei casi dubbi che invece esso ha deciso, dando luogo ad una responsabilità aquiliana comunitaria. Non è la stessa cosa, in quanto il ristoro sarebbe parziale. Ad esempio nel caso Koeler di cui infra, quali effetti pensionistici possono derivare da un risarcimento per mancato riconoscimento del periodo di insegnamento all’estero? Oltre naturalmente all’indennizzo percependo. E se l’azione aquiliana fosse prescritta qualora la C.G. affermasse per la prima volta appunto che il principio comunitario disatteso anteriormente dal giudice di legittimità era erroneo? Naturalmente, nel caso in cui il diritto interno non conosca rimedio di interruzione, o mancato decorso della prescrizione, in presenza di un diritto contrastante con le disposizioni comunitarie in tema di parità fra cittadini europei. Usare la revocazione? Per un fatto normativo nuovo. E nel penale? Applicare in fase esecutiva il jus superveniens? Applicare retroattivamente, come suggerito da C.G. 1999/2000 nel caso delle borse di studio ai medici durante il periodo di specialità, in maniera da travolgere il giudicato, le sentenze della C.G. disapplicando il diritto contenuto nel giudicato?
Se residua contrasto col diritto comunitario, si può parlare di rapporti definiti? Dare un assetto normativo interno analogo ai rapporti definiti con leggi poi dichiarate incostituzionali? In caso di condanne definitive ingiuste, disapplicare incidentalmente il diritto in fase esecutiva? E in appello, se il punto non è investito da gravame? Il giudice ordinario può disapplicare norme contenute in giudicato se contrastanti, in via incidentale?
[29] Due sentenze si sono anticipate. Il Plenun del 30 settembre 2003 in c-224/01 (Kobler) e 9 dicembre 2003 c-129/00 (c Italia) ha, come anticipato, mostrato il contrasto fra superiorità del diritto europeo (v. trattato costituzionale all’art. 1-6 su quello nazionale e l’autorità del ‘giudicato’. Il fenomeno merita approfondimento in quanto la nozione di giudicato, anche come ‘ombra’ nel ne bis in idem negativo ora presente quanto meno nel III Pilastro, è molto importante anche nei rapporti fra paesi.
Dottrina (P. BIAVATI, Inadempimento degli Stati membri al diritto comunitario per fatto del giudice supremo: alla prova la nozione europea di giudicato, in Int’l Lis, 2/2005, 62 ss.) ha già immaginato azione di indebito arricchimento da parte dello Stato inadempiente e tenuto al ristoro dell’illecito verso chi abbia tratto vantaggio dal giudicato privatistico. Si può trasportare l’argomento alla sede amministrativistica (v. giurisprudenza sulla risarcibilità degli interessi legittimi) o addirittura penale. A mio avviso, inademplendum non est inadimpleti e da uno Stato che pubblicisticamente è venuto meno ai suo doveri comunitari non può agirsi per arricchimento stanti i diversi titoli di responsabilità. Il privato o ente che si sia de facto avvantaggiato ingiustamente per il diritto comunitario ha un giudicato verso colui che ottenga il danno dal giudice che ha sbagliato (Stato). Il quantum è stato erogato a diverso titolo. Nel caso invece che si ritenga che il giudicato sia revocabile, o ad esempio in fase di opposizione all’esecuzione si eccepisca lo jus superveniens comunitario, che succede? Da penale a civile la cosa è diversa, poiché nel civile la legge non dispone che per l’avvenire ed ora è questione se su tali principi generali non incida il diritto comunitario che ragiona in termini di effettività di tutela.
Merita la pena di esser studiato il caso.
[30] A parte la mitologia della distinzione fra diritto e fatto, la teoria è opposta ai principi di common law, ove appunto il vincolo del precedente connota lo stare decisis al microfatto che solo parzialmente può assimilarsi ad una massima giuridica, che darebbe problemi di applicazione a sua volta a nuovi fatti parzialmente difformi, come accade sovente. Chi deciderebbe? La sclerotizzazione a massime giuridiche sottrarrebbe alla discussione, spesso, nuove letture corrette, di sistema e funzione, di norme che dovessero esser state male interpretate, ad esempio per incuria difensiva?
[31] Ho osservato in altra sede che l’art. 177/234 Tr. , anche se interpretato “comme d’abitude” nel senso che l’ “obbligo” (“la giurisdizione è tenuta”, 3° comma) di rinvio pregiudiziale (di diritto, sull’estensione interpretativa del trattato riferita alle norme di legislazione comunitaria derivata) è solo dei giudici nazionali di ultima istanza, restano aperte alcune questioni. Se le deroghe a tale obbligo ( art. 234 e art. 3 protocollo sull’interpretazione della corte di Bruxelles- 27/9/68 su competenza giurisdizionale ed esecuzione decisioni in materia civile e commerciale, Lussemburgo del 3 giugno 1971- da parte della CG: acte clair: a) questione pregiudiziale identica a questione già decisa dalla CG; b) soluzione chiaramente desumibile; c) questione che non dia luogo a dubbi ragionevoli; conf. CGE 6 ottobre 1982, C-283-81; 4 giugno 2002, Int’l Lis, 2003, 3-4, 119) per il giudice di ultima istanza presuppongono l’assenza di dubbio sulla cui base il giudice nazionale non deve rimettere la questione, ma deciderla lui, non si vedrebbe quale spazio di discrezionalità avrebbe invece il giudice del merito, la cui decisione vale a dire sia internamente impugnabile, in ordine ad una decisione autonoma della questione pregiudiziale, senza rimetterla alla C.G., anche se chiaramente non dovrebbe farlo in caso di interpretazione chiara. In questo senso non si comprenderebbe come possa avere mera facoltà e non obbligo di rimessione in caso di dubbio normativo, se appunto il dubbio posto a discrimine fra la decisione autonoma ed il rinvio coincidesse, come sembrerebbe, con l’assenza di un acte claire.
Se si segue il testo della norma cardine del trattato, tuttavia, il primo comma enuncerebbe il potere attribuito alla C.G, mentre il secondo lo estenderebbe eccezionalmente al giudice nazionale, qualunque esso sia, con una duplice valenza della espressione “necessario” nel senso di pregiudizialità logica e nel senso di impossibilità di superamento del dubbio. Il terzo comma, in cui non è ripetuta espressamente la parola “necessario”, confermerebbe tale divieto di rimessione in caso di atto chiaro (interpretazione chiara) per qualunque giudice e, simmetricamente, confermerebbe il principio, valido invero anche per il giudice “di merito”, o di istanza non definitiva per meglio dire, che la giurisdizione –intesa come l’insieme dei gradi di giudizio- invece è tenuta al rinvio in caso di dubbio non sciolto dall’atto chiaro. L’apparente disarmonia letterale sarebbe in tale luce punto sembiante, in quanto, all’interno della giurisdizione nazionale la questione potrebbe consentire una verifica, eventualmente attraverso gravami o nuove riletture normative interne all’acte claire, di una eventuale decisione incidentale del giudice di provvisoria e non definitiva istanza –non arbitrale: ancora la C.G. di recente, Int’L lis- . Sarebbe in altri termini demandato al giudice di ultima cura solo la verifica dei presupposti per il rinvio, comunque obbligatorio. Ciò apparirebbe come il pendant dell’assenza a livello comunitario di un gravame avverso la decisione giudiziale interna di delibazione dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale alla C.G. Il “può” di cui al comma II in definitiva apparirebbe come attribuzione della facoltà intepretativa, di sospensione, salva chiarezza, del giudizio, al giudice nazionale. Si veda su questi profili altresì B. CORTESE, commento a CGCE, sez. III, 28 ottobre, C-148/03 (Regime comunitario della competenza giurisdizionale e rilievo delle convenzioni in materie particolari in caso di mancata comparizione del convenuto: brevi note sulla motivazione delle sentenze della Corte e sulla dottrina dell’acte clair), Int’l Lis, 1/2004/2005, p. 12 e segg.).
Un altro aspetto in cui si inserirebbe la dialettica fra giudice di istanza non definitiva e giudice “supremo” consigliata con la suggerita lettura dell’art. 234 più aderente al testo ed al complesso dell’o.g., è purtroppo taciuto. La previa delibazione dei presupposti processuali per la ammissibilità della decisione interpretativa della C.G. se il rinvio vertesse ipoteticamente, in quanto anche così proposto dalle parti, su disposizioni comunitarie “rilevanti nel processo a quo non in forza della loro istituzionale efficacia precettiva (quand’anche, se del caso, non “diretta”), bensì quali precetti solo materialmente coincidenti con analoghe norme di fonte nazionale- legislativa o negoziale- di regolamentazione della fattispecie –squisitamente interna- sub judice” (v. G. RAITI, La Corte di giustizia non coglie una “opportunità d’oro” per rivedere la propria giurisprudenza sulla ricezione dei rinvii pregiudiziali concernenti disposizioni nazionali, in particolare processuali, modellate su quelle comunitarie, in Int’l Lis, ibidem, p. 22 e segg.) . Salve le controversie fittizie, l’estraneità agli effetti della controversia, inutilità, la non vincolatività in concreto della decisione pregiudiziale, resta quali siano le questioni pregiudiziali rilevanti in giudizio in virtù dei richiami operati da fattispecie interne (su questo si rinvii a M. SALVADORI, cit, per non confondere fra diritto interno che richiama per sé stesso e diritto rilevante per il diritto comunitario) che tocchino tuttavia materie comunitarie. Di qui peraltro la non ingerenza del giudice comunitario su tali valutazioni.
L’Autore peraltro, acutamente, vede nella maglie dell’art. 234 (e della sentenza c/ Kleinwort Benson del 28 marzo 1995 in C-346/93) uno sviluppo futuro nel senso da noi già oggi suggerito; da un lato e dall’altro richiama i trinci anche interni ex 25 Cost. sul giudice naturale, che con consentirebbero rinvii su questioni non incidenti direttamente sulla norma da applicare internamente.
Resta tuttavia ancora un terzo problema, relativo alla preconcezione da parte del giudice nazionale della sfera di competenza comunitaria per materia, così che esso potrebbe sottrarre ab origine al diritto comunitario le ordinarie possibilità astratte di intervento interpretativo.
Sull’argomento sotto altro aspetto va ricordata altra importante decisione del Plenum della Corte in data 4 giugno 2002, sul già anticipato (da noi) punto in cui la questione non presenti difficoltà pur non rientrando fra i c.d. acte clair.
Il punto è di momento, soprattutto in argomento penalistico. Ad avviso dell’avv. Generale (Prof.Tizzano) vi è l’obbligo di rimessione salvo che la questione non sia pertinente o l’acte clair.
In realtà, la questione toccava anche la rimettibilità obbligatoria o meno da parte del giudice filtro (a quo o ad quem nel diritto svedese) che dovesse vagliare l’ammissibilità del gravame interno, ed il momento di rimessione alla C.G. e su quale base (dubbio) ciò potesse avvenire. Ad es. nel R.U., Germania e Spagna il giudice civile a quo vaglia preliminarmente l’impugnazione e si doveva decidere se mutasse, alla luce della futura rimettibilità il criterio di vagliatura del fumus del gravame.
Il giudice a quo “al momento in cui tratta la causa e pronuncia la sentenza (la cui impugnazione egli stesso sarà ex post chiamato ad ammettere o non ammettere), è un giudice che non decide in ultima istanza”..un giudice inferiore il quale abbia considerato di “significato non fondamentale” il profilo comunitario implicato, perché risolubile in modo immediato ed assolutamente chiaro ed univoco ed in senso confermativo della sentenza impugnata, è un giudice che, a ragione o a torto, avrà a suo tempo omesso il rinvio pregiudiziale in virtù della teoria dell’atto chiaro e cioè della ritenuta insussistenza di una autentica questione, piuttosto che semplicemente profittando della facoltatività del rinvio; un giudice perciò che non avrebbe interrogato la Corte anche se fosse stato obbligato al rinvio” (A.BRIGUGLIO, I Limiti soggettivi e oggettivi dell’obbligo di rinvio pregiudiziale comunitario, in Int’l Lis, ¾ 2003, p. 119 ss.). La conclusione perciò è che l’obbligo di rinvio sia escluso quando non vi è questione vera e propria e non invero quando il giudice nazionale ritenga la questione risolvibile da sé. Ciò secondo TIZZANO dipenderebbe dal carattere nomofilatico preventivo della giurisdizione comunitaria “entro un sistema sostanziale e processuale integrato interno-comunitario” (p. 122), anche tenuto conto della non impugnabilità in sede comunitaria dei non-rinvii.
[32] Rinviamo al nostro Mandato di arresto europeo. Effetti di diritto penale sostanziale. Territorialità e ne bis in idem, in corso di pubblicazione su Agon, 2006. Oltre ai primi commenti segnalati in bibliografia, per un inquadramento generale si veda P. Balbo, Il mandato di arresto europeo secondo la legge di attuazione italiana. Commento delle decisioni-quadro europee 2002/584/GAI sul mandato d’arresto europeo e 2005/214/GAI sul reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie, Giappichelli, Torino, 2005. Si veda La disciplina del mandato d’arresto europeo I e II, in Dir. Pen. e Processo 7/2005, pp. 799-806 e in Dir. Pen. e Processo 8/2005, pp. 933-938, testo della legge 22 aprile 2005 n° 69 (disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione-quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri – Gazzetta Ufficiale G.U. 29 aprile 2005 n° 98); A. Panciotti, I coinvolgimenti sopranazionali, ibidem, pp. 806 e ss.; M. Del Tufo, Profili di diritti penale e sostanziale, ibidem, pp. 938 ss.; A. Scalfati, La procedura passiva di consegna, ibidem, pp. 947 ss.; M. R. Marchetti, La fase dell’esecuzione nella procedura passiva di consegna. La procedura attiva e le misure cautelari reali; AA.VV., a cura di G. Pansini- A. Scalfati, Il mandato d’arresto europeo, Napoli, 2005, pp. 123 ss.; AA.VV., a cura di E. Rozzo, Acuna, Padova, 2004, pp. 133 ss. (Il mandato d’arresto europeo e l’estradizione. Profili costituzionali penali, processuali ed internazionali); N. Galantini, Una nuova dimensione per il ne bis in idem internazionale, in Cass. Pen., 2004, pp. 3478 e ss.; M. Bargis, Il mandato d’arresto europeo dalle decisioni-quadro alle prospettive d’attuazione, in Pol. Dir., 2004, pp. 49 ss.: G. De Amicis – G. Iuzzolino, Al via in Italia il mandato d’arresto UE. Dal ruolo dell’autorità centrale alle procedure di consegna, Dir. Giust., 2005, pp. 19, 60; A. Barazzetta – R. Brichetti, Procedura passiva con termini da ricavare, in Guida Dir. 2005, pp. 19, 42; A. Barazzetta – R. Brichetti, Misure cautelari: rinvii al rito da decifrare, ibidem, 2005, pp. 19, 85-86; M. R. Marchetti, La normativa italiana di attuazione del mandato d’arresto europeo: breve cronaca di un’inadempienza annunciata, Atti Convegno Cittadinanza europea, accesso al lavoro e cooperazione giudiziaria, Trieste, 4 febbraio 2005; Corte Cost., 22 luglio 2004 n° 253, in Giur. Cost., 2004, pp. 2593 ss.; AA.VV., a cura di M. Pedrazzi, Mandato d’arresto europeo e garanzie della persona, Milano, 2004, pp. 19 ss.; AA.VV., Trattati dell’UE della CEE, a cura di A. Tizzano, Milano, 2004, pp. 135 ss.; P. Bilancia, Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia fra realtà governativa e prospettiva comunitaria, in Riv. It.. Dir. Pubbl. Com., 2004, pp. 345 ss.; N. Napoletano, La nozione di campo d’applicazione del diritto comunitario nell’ambito delle competenze della Corte di Giustizia in tema di diritti fondamentali, in Dir. U.E., 2004, pp. 279 ss.; L. Cassetti, Profili costituzionali, in Dir. Pen. e Proc., 7/2005 pp. 812 ss.; AA.VV., Atti Convegno Firenze, 18 febbraio 2005, giornata di studio in ricordo di Alberto Predieri. Sul trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, in www.giustamm.it; AA.VV., Commentario alla Costituzione, a cura di R. Di Fulco – A. Celotto – M. Olivetti, I, Torino, 2005; E. Calvanese – G. De Amicis, Riaffermata la doppia incriminabilità, in Guida Dir., 14 marzo 2005, pp. 82; M. Chiavario, Appunti a prima lettura sul mandato d’arresto europeo, www.forumcostituzionale.it; M. Bargis, Ma il progetto attuativo mantiene troppe zone d’ombre, in Dir. Giust. 20 aprile 2004, 11; M. D’Amico, Le politiche europee in materia di libertà, sicurezza e giustizia, Rass. Dir. Pubbl, Euro, 2004, 1, pp. 99 ss.; B. Nascimbene, Cooperazione giudiziaria penale: diritto vigente ed orientamenti futuri nel quadro della Costituzione europea, in Dir. Pen. e Processo 2004, pp. 2945 ss.; F. Gandini, Il mandato d’arresto UE e la reciprocità…, in Dir. e Giust., n° 44/2005, pp. 108 ss.; Trib. Bolzano, Sezione Riesame, ordinanza 20-21 settembre 2005, in D&G, 44/2005, pp. 113 ss.; A. Natalini, Danni all’ecosistema e sanzioni penali…, ibidem, pp. 115 ss.; Trib. Cost. tedesco, 2 BvR, 2236/04, 18 luglio 2005, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; Trib. Cost. polacco, P1/05, 24 luglio 2005, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; U. Draetta, Elementi del diritto dell’Unione Europea. Parte Istituzionale. Ordinamento e struttura dell’Unione Europea, Milano, 2004, pp. 32 ss; T. Treves, Diritto internazionale. Problemi fondamentali, Milano, 2005, pp. 143 ss.; G. De Amicis, Il mandato d’arresto UE?…, in D&G, 37/2005, pp. 36 ss.; Dinacci F. R., Spunti in tema di esecuzione interna della sentenza interna riconosciuta, in Dir. Pen. e Processo, 5/2005, pp. 609 ss.; S. Lo Russo, Arriva dalla Corte Costituzionale il placet alla giurisdizione penale “acognitiva”, ibidem, pp. 627 ss.
[33] In una precedente ampia nota abbiamo affrontato il problema, ad esempio, della prescrizione interna. Questo costituisce una c.d. questione cruciale, perché consente di proporre una diversa configurazione del momento di incrocio dei prodotti normativi fra fonti interne e comunitarie, ad oggi sintetizzato col concetto elastico della primazia del diritto comunitario. Nella citata giurisprudenza della Corte di Giustizia del 2000 in materia civile (specialità conseguita dopo la direttiva, ma prima della attuazione nazionale della stessa, priva di tutela interna in contrasto coi principi della C.G. del 1999 e 2000, enunciati con effetto erga omnes e per la prima volta in tale sede), pare emergere il suggerimento, per rendere effettiva la situazione giuridica soggettiva non riconosciuta dal diritto interno, della applicazione retroattiva della tardiva legge di attuazione anche ai casi non previsti. Se fosse accolta tale soluzione, tuttavia, l’AGO dovrebbe affrontare il problema sia della prescrizione, in ipotesi avvenuta secondo il diritto interno, sia del principio ex art. 14 preleggi di divieto di retroattività in generale della legge, che certamente deve valere per non estendere la stessa a regimi temporali non espressamente previsti.
Ritenere insuperabile la prescrizione vorrebbe dire affermare che l’istituto civilistico si applichi a diritti che non esistono nell’ordinamento, con sfasamento fra l’istituto ed il diritto, ovvero ricorrere ad un’integrazione analogica dell’ordinamento, estendendo gli artt. 2946 e segg. c.c. oltre i “diritti”, vale a dire a quelle situazioni giuridiche soggettive riconosciute come tali solo successivamente dal diritto comunitario. Fra il resto, in carenza della lacuna prescritta dall’art. 12 preleggi per ricorrere a tale operazione.
Che le situazioni siano riconosciute dopo (diversamente tuttavia Cass.Sez. lav. 2002) dalla C.G. è evidente in quanto la CGCE interviene in via pregiudiziale solo quando il principio essa non abbia già stabilito. Lo stesso effetto erga omnes delle proprie decisioni anche dalle Corti Costituzionali interne viene caratterizzato come polarizzato verso il futuro, analogamente alle leggi. Da ciò parrebbe conseguire che effettivamente la situazione giuridica sia per la prima volta riconosciuta come esistente. Chiaramente, la Corte interviene con tali affermazioni riferendosi ad una questione avvenuta in precedenza e quando statuisce l’esistenza di una situazione favorevole soggettiva meritevole di riconoscimento e tutela, anche le omologhe o identiche situazioni esistenti debbono essere tutelate dal diritto.
Il rinvio ai mezzi “nazionali” per l’attuazione del diritto è indispensabile da parte del diritto comunitario quando ad esempio dalla direttiva inattuata non siano evincibili le forme concrete di attuazione del diritto (nel caso specifico, il quantum della borsa di studio), non sia perfettamente self executing.
Il Giudice nazionale, così, per dare attuazione al diritto, dovrebbe ricorrere ad una sorta di disapplicazione del diritto negativo nazionale, in quanto appunto il diritto interno è carente in tema di attuazione degli obblighi azionabili comunitari. La violazione delle disposizioni delle fonti derivate del diritto comunitario può esser duplice, per diversa disciplina dei rapporti e per carente, in tutto o parte, regolamentazione delle modalità di esistenza nazionale del diritto comunitario, come fonte autorizzata ed obbligata.
Gli obblighi, come detto, sono tuttavia azionabili, coi ricordati limiti in materia di giudicato.
L’Ago sarebbe perciò in presenza di una lacuna (controversia che deve –diritto comunitario e CG- essere decisa, senza una disposizione attuativa ad hoc sul quantum) in senso tecnico, non colmabile in via di interpretazione e sarebbe obbligato ad applicare (caso simile, materia analoga) analogicamente la disposizione attuativa del legislatore nazionale, emessa per disciplinare rapporti sorgenti dalla sua entrata in vigore. La peculiarità è che l’operazione di integrazione è conforme al diritto perché si tratta di lacuna creata dal diritto comunitario e che la norma sarebbe analogicamente adattata con un avanzamento temporale.
Riconoscimento di un diritto con effetti retroattivi in bonam partem per il privato. Ciò non impinge ancora sulla responsabilità pubblicistica dello Stato per violazione degli obblighi di leale cooperazione comunitaria (art. 5 Tr.) e quindi si tratta di vedere la prescrizione decennale, nella specie dell’esempio qui tolto.
Ricorrere alla strumentazione interna della prescrizione significa però non solo operare un ragionamento analogico non consentito dal diritto italiano, come ipotizzato, ma violare il principio del “risultato” enunciato dalla Corte in importante decisione (Tesauro).
Si è fatta questa premessa per meglio dire che l’AGO in tali casi di disapplicazione obbligatoria deve ricorrere a meccanismi integrativi positivi e negativi, su diritto interno negativo e positivo difforme da quello comunitario.
Sarebbe in tal senso munito non tanto del potere/dovere di disapplicare la disciplina comunitariamente inadeguata (positiva: beneficio dall’entrata in vigore della legge tardiva; negativa: prescrittibilità di un diritto riconosciuto dal diritto comunitario “ora per allora”), quanto di un potere di disapplicazione in concreto degli istituti tecnici interni difformi dallo stare decisis.
Il diritto interno non era prescrittibile perché non internamente azionabile. Diverso, se si fosse stati in presenza di un acte clair positivo sul punto, così che giustamente si rimprovererebbe al privato di non aver agito nei termini di prescrizione sulla base del ‘diritto’ latu sensu comunitario, chiedendo la applicazione dello stesso all’AGO o, al peggio, se la questione non fosse stata direttamente decidibile in via di interpretazione diffusa della norma comunitaria autorizzata dal 2° comma dell’art. 234 Trattato CE, a mezzo del rinvio pregiudiziale.
Altro aspetto: la prescrizione può decorrere se il diritto soggettivo è riconosciuto giuridicamente dal diritto nazionale come è integrato dal diritto comunitario. Prima che “per la prima volta” il diritto sia enunziato interpretativamente dalla CGCE, non può parlarsi di diritto comunitario in vigore.
Suggestivo è il recupero dell’importante elaborazione costituzionalistica qualora leggi dichiarate incostituzionali abbiano compresso diritti tutelati dalle fonti primarie o dai principi fondamentali.
Come operano le fonti? Si è anticipato che la CGCE, in base, ma non solo, all’ex art. 177 Trattato, statuisce sull’interpretazione “del Trattato”, ma non su quella dei regolamenti, direttive. Invero, la sua interpretazione dei Trattati è diretta, ma da tale interpretazione derivano estensioni degli effetti della strumentazione derivata normativa delle fonti comunitarie. La direttiva si applica se inattuata e autoregolativa, i suoi effetti generano la non applicazione di altri effetti e via dicendo, senza assolutamente toccare la “validità” del diritto nazionale il quale –come suggerito- in termini kelseniani diviene “inefficace”.
Tuttavia, appare utile una riflessione per una nuova figura in ordine al rapporto non tanto fra le fonti comunitaria da un lato e nazionale dall’altro, quanto fra il loro esito. La parola ‘non applicazione’ non appare punto idonea a descrivere il fenomeno innovativo. Se il diritto comunitario, espressamente nelle sue materie (regolamento, ad es.), o tramite la ricordata estensione integrativa di effetti veicolata dall’interpretazione o di qui dall’influenza di tale interpretazione sulla normazione derivata comunitaria, da altra normazione nazionale che lo attinga direttamente.
Il fenomeno si presenta anche per la norma penale, che vede porzioni dei segmenti descrittivi della fattispecie incriminatrice nazionale, o segmenti della prescrizione sanzionatoria, quanto a specie o tipo o misura, ad un certo punto toccati direttamente dal prodotto della fonte comunitaria. Questo è evidente per gli elementi normativi od extrapenali, nelle materie comunitarie, direttamente intervenienti o operativi per le direttive self o per i regolamenti difformi. Ma la medesima cosa, vieppiù in costanza di estensioni interpretative (v. Sentenza Pupino addirittura per uno strumento del Terzo Pilastro), accade quanto a natura della sanzione, quando viene ritenuto violato l’obbligo da parte dello stato di dare sanzione penale, o viceversa. Con la conseguenza della disapplicazione interna, nel senso della depenalizzazione sostanziale, ad oggi (cui si aggiunga lo sviluppo delle decisioni ricordate).
In altre parole, se ritorniamo, per concluderla sinteticamente, alla proposta configurazione dei rapporti fra i prodotti normativi delle fonti concorrenti, qui è possibile vedere qualcosa di più. Vi è un concorso apparente fra disposizioni, da un lato nazionali e dall’altro lato comunitarie, che disciplinano direttamente, anche per statuizione pretoria di alto rango, il medesimo rapporto, sia privatistico, che pubblicistico, incluso quello penale.
Certo, il ‘rapporto giuridico penale’ sconta i noti profili di teoria generale ed è alquanto complesso, raggiungendo non solo la posizione dello Stato, ma quella del titolare dell’azione penale, quella del titolare del diritto soggettivo o comunque della situazione soggettiva ritenuta rilevante dall’ordinamento giuridico. Ma purtuttavia il problema è attuale anche per esso nelle materie di esclusiva o concorrente competenza della Comunità e di qui della Corte di Giustizia, per giungere anche alle materie del c.d. II o III pilastro.
In difetto di una diretta applicabilità della disposizione comunitaria, a meno che i suoi effetti non siano estesi in base all’acte clair o espressamente dalla C.G., si applicano, o non si applicano se carenti, le norme nazionali. Se invece vi è tale concorso, esso è apparente perchè il rapporto non può scontare differenti discipline, proprio agli effetti del diritto nazionale.
E’ irrilevante se le discipline comunitarie preesistano o siano coesistenti al momento in cui si verifica la c.d “doppia disciplina diretta”.
Ed è parimenti indifferente se il ‘concorso’ manifesti la sua apparenza in epoca successiva all’entrata in vigore della disciplina diretta nazionale, in quanto gli effetti tipici della disposizione di principio comunitaria, a statuizione della C.G., con la sua estensione della disciplina comunitaria diretta previgente, operano ex tunc, vale a dire dall’emanazione della fonte comunitaria derivata con le sue tipiche regolazione della ‘materia’ e quindi dei ‘rapporti’, operando direttamente sui rapporti, salvi i parziali effetti intangibili del giudicato ricordati e problematizzati.
In definitiva –questa è la provvisoria focalizzazione del problema- , il principio di potiorità comunitaria non apparirebbe un principio generale, ma solo un criterio di selezione della norma applicabile in caso di ipotetico conflitto da differenti qualificazioni delle medesime situazioni di fatto a rilevanza giuridica.
Con una particolarità nuova, tuttavia. Il contrasto, trattando il diritto di attribuzione di rilevanza e tutela positiva o negativa di certe ‘situazioni di vita’, può avvenire fra norme che negano rilevanza e tutela e norme che invece la attribuiscono, da un certo punto di vista (vittima, Stato, enti, soggetto), da e verso qualcuno. Ma il contrasto reciprocamente avviene fra norme che svuotano e disposizioni che riempiono la tutela, o addirittura invertono i poli dei beni tutelati, anche attraverso istituti giuridici generali ed in se e per sé neutrali prima di essere associati (prescrizione, processo..).
Ma soprattutto, il diritto ha due facce. Non dare tutela, secondo il formalismo giuridico, è negarla. Così, il contrasto può essere evidente fra norme che la dànno, creando o divietando situazioni soggettive od oggettive e norme che non la attribuiscono.
In questi casi, il contrasto si manifesta curiosamente con una lacuna. Da un lato la norma prevede la attuazione nel diritto di una certa situazione, dall’altro l’ordinamento (interno, ad esempio) la consente, ma manca in mezzo l’istituto ad hoc per completare il ragionamento giuridico. Posto che la soluzione “per saltum” è vietata nell’ordinamento, può –anche se non è detto- soccorrere proprio il rimedio in limine di integrazione interna.
Ma se, ad esempio, il rimedio non esistesse, altri (si veda in Francia ad es. il bis in idem, o istituti similori in Spagna o Inghilterra) potrebbero essere i principi attuati. Paradossalmente, lo si è suggerito, in virtù del principio di salvezza del principio comunitario, l’AGO potrebbe disapplicare gli effetti combinati di istituti quali ad esempio il divieto di irretroattività della legge civile. Senza operare analogicamente.
Questo ed altro sarà terreno di ricerca del prossimo futuro.
[34] Per un quadro del costruttivismo giuridico, ci permettiamo di rinviare al ns. Sulla conoscibilità della Norma. La fondazione del principio di libertà nel recente pensiero di F.A.Hayek, Pubblicazioni Fondazione Luisa Guzzo, Università di Torino, 1985, p.1-489).